Diritto alla Storia, Paterno Regio Demanio

Diritto alla Storia - Capitolo 11

Dopo la morte di Costanza il regno di Sicilia conobbe uno dei periodi più oscuri ed inquieti della sua storia. Papa Innocenzo III, Gualtieri di Palearia, i capitani tedeschi trapiantati nel regno in seguito all’incoronazione di Enrico VI e gli eredi dei baroni ribelli che avevano patito la confisca delle loro terre si contesero il potere in lotte interminabili ed estenuanti, caratterizzate da mutevoli alleanze e da reciproci tradimenti.

Ruggero, secondogenito di Elia nato dal matrimonio con Diomeda, aveva ottenuto la signoria di Gesualdo, Frigento, Taurasi e Mirabella col titolo di conte; a suo fratello Roberto, nato da Guerriera, che pur conservò il nome di Gesualdo, toccò il feudo di Paterno. Ma ormai, per il rancore mai sopito nei confronti di Elia, reo della cattura dell’imperatrice Costanza, la potenza dei Gesualdo in Irpinia era in fase di rapido declino. Privati di ogni influenza politica, spogliati della maggior parte dei loro possedimenti, si erano visti ridotti al ruolo di semplici amministratori di feudi per conto della corona. Restava tuttavia da onorare l’impegno testamentario paterno nei confronti dell’abbazia di Montevergine, il che risultava oltremodo gravoso per le mutate condizioni economiche.

Allo scopo di estinguere quel legato, nel mese di maggio del 1206, il conte Ruggero, consenziente suo fratello Roberto, richiamando la volontà di Elia, cui in ultimo testamento suo iudicavit monasterio beate Marie Montisvirginis uncias duodecim et domine Diomede matris mee bone memorie, que in eodem ecclesia sepolturam elegit et ibi pro suorum peccatorum remissione decem uncias auri statuit exsolvendis ..., ... che nel suo ultimo testamento assegnò al monastero della beata Maria di Montevergine dodici once d’oro, e stabilì doversene pagare dieci1, in remissione dei suoi peccati, per la signora Diomeda, madre mia di buona memoria che nella stessa chiesa ebbe sepoltura ...,

cedette a Montevergine la tenuta di Pesco di Morra, con la chiesa di Sant’Angelo2, ricevendone dall’abbazia trenta once d’oro3.

Il 21 giugno 1208 morì assassinato Filippo di Svevia ed Ottone IV potette cingere la corona imperiale.

In quello stesso anno il giovane Federico Ruggero compiva il quattordicesimo anno di età ed assumeva a pieno titolo la corona di un regno devastato da lotte intestine al punto che languivano l’agricoltura e i commerci, mentre le casse dello stato erano totalmente svuotate.

Papa Innocenzo III, onde evitare che un eventuale matrimonio del giovane re con qualcuna delle principesse tedesche, o francesi, o inglesi potesse dar luogo ad alleanze pericolose per il potere temporale della chiesa, si prodigò affinché sposasse una principessa aragonese, e la scelta cadde su Costanza, figlia primogenita del re d’Aragona, già vedova di re Emerico d’Ungheria. Le nozze furono celebrate il 15 agosto 1209.

L’imperatore Ottone IV dal canto suo, nel timore che Federico Ruggero potesse accampare diritti sulla corona imperiale, si convinse della necessità di invadere il regno di Sicilia, cosa che portò a parziale compimento nel novembre del 1210, spingendosi fino in Calabria.

Papa Innocenzo III insorse allora in difesa del giovane re appellandosi ai signori di Germania che, nel settembre del 1211, a Norimberga, colsero l’occasione per dichiarare decaduto Ottone IV, contrapponendogli Federico di Hohenstaufen.

Ottone IV fece precipitoso ritorno in Germania dove si aprì una cruenta lotta per l’investitura imperiale a cui, con la mediazione del papa, si concordò di porre fine eleggendo il giovane Federico Ruggero. Questi cedette il titolo di re di Sicilia al figlio Enrico di età di poco superiore all’anno, in quanto nato nel 1211, e, trasferitosi in Germania, il 5 dicembre 1212 fu solennemente incoronato a Francoforte col nome di Federico II.

Conte di Gesualdo nel 1211 era ancora Ruggero, poiché come tale è presente in un atto di donazione a beneficio dell’abbazia di Montevergine, ma già nel 1212 venne privato dei suoi feudi a favore del tedesco Herman von Striberg ed allontanato dal regno1.

Di lì a poco anche Roberto Gesualdo, a cui era venuto meno il sostegno del fratello, perdette il suo feudo di Paterno e probabilmente dovette lasciare il paese in volontario esilio. Paterno cadde quindi sotto l’anonima amministrazione di funzionari della corona, trasformandosi in regio demanio, e solo le comunità monastiche rimasero a segnarne le tappe del cammino storico, quasi esclusivamente espresse in contrasti di carattere economico.

Già fra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo si era avuta la crisi del cenobitismo ed una crescente aspirazione al pauperismo; ora poi, al sorgere del XIII secolo, in contrapposizione ad un clero sempre più avido e disattento ai doveri del proprio ministero, il malessere si era acuito tanto da generare ovunque predicatori itineranti che si rifacevano agli ideali della prima cristianità. Si rimproverava ai monasteri, ed in questo non facevano eccezione quelli ubicati in territorio di Paterno, di essere diventati centri di benessere e di sfruttamento e di aver abbandonato la strada indicata da Cristo.

In effetti la Chiesa era andata sempre più allontanandosi dal popolo e dalle sue esigenze: le funzioni religiose si svolgevano in lingua latina ormai incomprensibile per le masse; le prediche facevano ricorso a sillogismi ed a simbolismi di astruso sapore; i monaci, tenuti alla cosiddetta stabilitas, obbligati cioè a non allontanarsi dai monasteri, non avevano più contatti con la gente che risiedeva nei centri urbani; non trovava più applicazione l’antica regola dell’ora et labora.

La dottrina pauperistica raggiunse il suo culmine in Italia con Francesco d’Assisi. Venuto a Roma fra il 1209 ed il 1210, egli infervorò discepoli itineranti, subito impegnati a diffondere il suo esempio nell’intera penisola. In breve, ovunque, sorsero comunità francescane dette dei frati Minori, sul cui modello proliferarono comunità femminili le cui suore si chiamarono “povere signore di San Damiano”.

Sebbene non si disponga di alcun riferimento in proposito, è ragionevole supporre che fu in questo periodo che, sottoposta all’obbedienza dell’aba-dessa del Goleto, si costituì, presso la chiesa di Santa Maria poi detta a Canna, la comunità monastica femminile che il De Rienzo vuole di monache benedettine della SS. Trinità.

Il 16 luglio 1216 morì Innocenzo III e fu eletto papa Onorio III che seguì con attenzione la nascita e le prime vicende dell’ordine francescano.

Morto Ottone IV il 19 maggio del 1218 e cessata con lui ogni valida opposizione al suo potere, Federico II potette rientrare in Italia, lasciando la reggenza del regno di Germania al figlio Enrico VII sotto la tutela dell’arcivescovo di Colonia Engelberto.

Le dispute baronali, mai interrotte, avevano precipitato nel caos il regno di Sicilia. Sul finire dell’anno 1220, al fine di ripristinare l’ordine su tutto il territorio, Federico II tenne a Capua un’assemblea di vescovi, di signori laici e di rappresentanti delle città in cui notificò un editto in base al quale i vecchi privilegi venivano sottoposti a rigoroso controllo da parte dell’autorità centrale, si proibiva ogni guerra personale affidando la soluzione delle controversie ai funzionari preposti all’amministrazione della giustizia, si faceva divieto ai feudatari di impossessarsi di terre demaniali, si stabiliva che nessun barone potesse contrarre matrimonio senza il preventivo assenso del sovrano, si escludeva l’automatica trasmissione dei feudi in eredità.

Che il territorio di Paterno fosse ancora a quel tempo proprietà demaniale regia, non sottoposto cioè ad alcun vincolo feudale, lo riprova la donazione di parte del casale di San Pietro, l’attuale contrada Casale, fatta da Federico II, nel febbraio del 1221, all’abbazia di Cava dei Tirreni2.

Una nuova comunità religiosa si era intanto costituita a Paterno ed aveva eretto la propria chiesetta fuori delle mura, oltre la porta secondaria del castello. Era un gruppo di frati Minori francescani che si era insediato nel borgo, accolto con interesse dalla gente in quanto, formato da predicatori e questuanti, si differenziava sostanzialmente dagli altri ordini monastici i cui membri risultavano corrotti ed impegnati quasi esclusivamente nell’arric-chimento dei propri conventi.

Il clima di sfiducia nei confronti del clero era alimentato dalla meschina avidità che caratterizzava le numerose dispute fra monasteri. Né dalle soperchierie e dall’impiego disinvolto della furbizia, quotidianamente praticati dalle piccole comunità monastiche, erano esenti le grosse abbazie. Da anni un’accanita controversia, accesasi per motivi di supremazia, vedeva contrapposti i monasteri di Montevergine, di Santa Maria dell’Incoronata di Puglia e del Goleto. Non si era neppure esitato a far ricorso alla produzione di falsi documenti allo scopo di far prevalere diritti inesistenti.

La questione aveva avuto inizio sul finire del XII secolo quando le tre abbazie avevano unificato i loro sforzi per ottenere dalla Santa Sede la canonizzazione di Guglielmo da Vercelli, delegando l’abate di Montevergine a farsene promotore e portavoce. Questi però, approfittando della circostanza, aveva operato in modo da ottenere il riconoscimento dell’autorità giurisdizionale della propria abbazia sulle altre due e, per dimostrare tale diritto, i monaci di Montevergine avevano fabbricato tre falsi: una cartula offertionis, datata maggio 1134, dalla quale risultava che i fratelli Bernardo, Ademario, Riccardo e Roberto avevano offerto una vigna al monastero di Montevergine, consegnandola al suo fondatore che in quel monastero invece non aveva più messo piede dopo il 1126; un privilegium regiis Rogerii con la data del 25 agosto 1137, in virtù del quale re Ruggero avrebbe assunto la protezione del monastero di Montevergine dietro richiesta di Guglielmo da Vercelli; un secondo privilegium regiis Rogerii, datato 24 novembre 1140, riguardante la presunta donazione, da parte dello stesso re Ruggero, della chiesa di Santa Maria dell’Incoronata di Puglia al monastero di Montevergine1.

Ma l’abate Leonardo del monastero di Santa Maria dell’Incoronata non intendeva assoggettarsi ad una obbedienza ritenuta indebita e, nel rivendicare l’autonomia della propria abbazia, sottopose la controversia al giudizio del vescovo Pietro di Ascoli Satriano. Questi, alla presenza di padre Giovanni da Ascoli e di altri frati in rappresentanza dell’abbazia di Montevergine, nonché di quella della delegazione di religiosi del monastero dell’Incoronata guidata dallo stesso abate Leonardo, nel mese di giugno del 1224, fece redigere verbale della propria decisione da Raone, pubblico notaio di San Lorenzo, assistito da Ruggiero, giudice imperiale di Ascoli. Ritenuta probante la documentazione prodotta, egli stabilì che il monastero di Santa Maria dell’Incoronata di Puglia ed i religiosi di esso fossero sottoposti all’abate di Montevergine e all’osservanza dei precetti dettati da Guglielmo da Vercelli. Inoltre, per la stima e la devozione che nutriva per il monastero di Montevergine, sottomise all’obbedienza dell’abate Giovanni altre tre chiese, delle quali una sotto il titolo di Santa Maria, in territorio di Paterno2. Le altre due, pur essendone corroso il nome sulla pergamena, erano fuor di dubbio le chiese di San Pietro di Chiusano e di San Leonardo di Montemarano.

In quello stesso anno 1224, il 5 di giugno, venne inaugurata a Napoli la prima università di stato del mondo, definita alma mater studiorum (gran madre di studi), voluta da Federico II impegnato nella costruzione di una realtà politica unitaria, anche mediante la formazione di funzionari amministrativi laici.

A questa sua ambizione di realizzare una solida potenza politica ed economica al centro del mondo sino ad allora conosciuto, l’imperatore sacrificava anche i suoi affetti più intimi. Infatti, morta la moglie Costanza il 22 giugno del 1222, si era legato sentimentalmente a Bianca Lancia da cui, nel 1223, aveva avuto un figlio, Manfredi; ma poi, perseguendo i propri interessi mediterranei, nel 1225 sposò Isabella di Brienne, figlia di Giovanni di Brienne, che gli portò in dote il regno di Gerusalemme, il che gli comportò l’obbligo di organizzare una crociata in Terrasanta per liberarne i territori in mano degli infedeli.

Il 18 marzo 1227 morì papa Onorio III e salì al soglio pontificio Gregorio IX. A causa di un’epidemia scoppiata fra le file crociate, Federico II si vide costretto a sospendere la partenza prevista per il 9 settembre, dando a Gregorio IX, che ritenne pretestuoso il rinvio, l’occasione per scomunicarlo.

In Paterno intanto, grazie alle elargizioni dei fedeli e ad un’accorta amministrazione dei beni, il priorato di San Quirico andava consolidando il proprio stato patrimoniale. Con atto notarile redatto da Alessandro di Gesualdo alla presenza del giudice di Frigento Giovanni, nel febbraio del 1226, il suo priore Giovanni di Pontecorvo cedette ad Alemanna e Giovanni, figli del defunto Deuferio, abitanti in Paterno, unitamente a mezza oncia d’oro e ad otto soldi, tre pezzetti di terra presso il fiume Fredane donati all’abbazia di Montevergine dal defunto Luca, in cambio di un buon terreno sito alla contrada Pescocupo1.

Anche l’abbazia di Montevergine, che del priorato di San Quirico aveva il possesso, prosperava sotto la guida spregiudicata del suo abate Giovanni. Era questo monastero creditore di una somma di danaro che quello dell’Incoronata di Puglia avrebbe dovuto corrispondergli. Citato in giudizio, l’abate pugliese si era astenuto dal presentarsi, per cui era stato condannato in contumacia. A quel punto Giovanni di Montevergine non aveva esitato a sollecitare un provvedimento risarcitivo che si concretizzò, l’8 febbraio 1228, con l’emissione di una bolla da parte di Ruggiero, vescovo di Avellino, in virtù della quale il monastero dell’Incoronata di Puglia venne espropriato delle chiese di San Pietro di Chiusano, di Santa Maria di Paterno e di San Leonardo di Montemarano le quali, già asservite all’abbazia di Montevergine dal 1224, furono a questa assegnate in proprietà2.

Ciò provocò l’immediata reazione dell’abadessa Marina del Goleto alla cui obbedienza erano sottoposte le suore del monastero di Santa Maria di Paterno. La religiosa, ritenendone ingiusto l’assoggettamento all’abbazia di Montevergine, si appellò direttamente al papa perché si rivedesse la decisione che la penalizzava.

Altre però erano le preoccupazioni del papa in quel momento. Federico II aveva riorganizzato l’esercito crociato ed il 18 giugno 1228 la flotta prese il mare alla volta della Terrasanta. Papa Gregorio IX, cogliendo l’occasione dell’assenza dell’imperatore, progettò in tutta fretta l’invasione della Sicilia. Le truppe pontificie penetrarono in profondità nel regno travolgendone le scarse resistenze, ma Federico II, informato dell’attacco, fece precipitoso ritorno sbarcando a Brindisi il 10 giugno 1229, il che fu sufficiente a mettere in fuga le armate pontificie, incalzate oltretutto dalla popolazione civile insorta contro di esse.

Quasi unanime era ormai il consenso di cui l’imperatore svevo godeva nel regno. Si avvertiva ovunque un benessere diffuso che si esprimeva in una vivacità commerciale facilitata dalla massa di moneta in circolazione. Era sensibilmente migliorato il tenore di vita e sempre più frequenti si facevano gli acquisti di beni durevoli. In Paterno, nell’agosto del 1230, Matteo, figlio del defunto Pietro, vendeva, per un’oncia d’oro, a Valentino Palmiero, una casa sita nel sobborgo di Bassano3.

Ma alla sostanziale pacificazione interna non corrispondeva una analoga situazione di stabilità oltre confine. Lo stesso figlio di Federico II, Enrico VII, re di Germania, ormai dichiarato maggiorenne, si mostrava propenso a sostenere le richieste di autonomia dei comuni italiani, ed il papa, dal canto suo, incitava alla ribellione verso l’autorità imperiale, rinvigorendo e legittimando la già consistente opposizione.

Nel tentativo di mitigare i sentimenti di avversione che il partito clericale nutriva nei suoi confronti vanno inquadrati i numerosi provvedimenti di conferma alle comunità ecclesiastiche di privilegi e donazioni che si susseguirono in quegli anni. Per quanto concerne Paterno, nell’anno 1231 l’imperatore confermò all’abate del monastero di Cava il possesso di parte del casale di San Pietro, che era stato donato con privilegio del febbraio 12211.

Il feudo di Paterno rimaneva tuttora vacante, mentre signore di Gesualdo e di Frigento risultava ora Ugo de Giliberto. E’ infatti alla presenza di costui che, nel luglio del 1234, a richiesta dell’abate Giovanni del monastero di Montevergine, venne redatto dal notaio Andrea di Salerno un documento in cui si richiamavano due privilegi dell’imperatore, nel primo dei quali, emesso dalla sede di Capua nel mese di febbraio del 1223, Federico II confermava al monastero di Montevergine quanto ad esso era stato donato dai baroni di Gesualdo, fra l’altro l’obbedienza della chiesa di San Quirico di Paterno2.

La situazione internazionale si andava intanto sempre più deteriorando. Tra la fine del 1233 e gli inizi del 1234, Enrico VII giunse a sollecitare un’alleanza con Milano contro il padre Federico II, il quale però, senza indugio, si portò in Germania per soffocare la ribellione sul nascere. Ripristinato qui l’ordine con l’adozione di nuove regole nella dieta di Magonza del 15 agosto 1235, l’imperatore, nel 1237, fece cingere della corona di Germania l’altro suo figlio, Corrado IV, nato nel 1228 dal matrimonio con Isabella di Brienne, e tornò quindi in Italia per contrastare la lega dei comuni, capeggiata da Milano, che sconfisse a Cortenuova il 27 novembre 1237.

Ancora aperta restava intanto in Irpinia l’ormai decennale questione che vedeva contrapposti i monasteri di Montevergine e del Goleto. Per giungere ad una soluzione definitiva, papa Gregorio IX, con un atto di delega del 18 novembre 1237, dette incarico all’abate di San Lorenzo di Aversa ed ai canonici beneventani Tolomeo e Ludovico perché derimessero le laceranti controversie per il possesso della chiesa di Santa Maria di Paterno e di altre3.

Alla data fissata per l’udienza, che si tenne nel monastero di San Lorenzo di Aversa, non risultò presente il rappresentante del San Salvatore del Goleto, e così il monaco Pietro, procuratore del monastero di Montevergine, chiese ed ottenne dall’abate Nicola di San Lorenzo e dai canonici di Benevento Ludovico e Tolomeo, quali giudici delegati dal papa, che fosse dichiarato contumace il procuratore del Goleto e che le chiese di Santa Maria in Paterno e di San Pietro in Chiusano fossero definitivamente assegnate in possesso al monastero di Montevergine. Di ciò, il 19 dicembre 1237, fu redatto verbale dal notaio Giovanni assistito da Filippo, giudice di Aversa4.

L’atto di delega pontificia del 18 novembre 1237 e la sentenza in data 19 dicembre 1237, dietro richiesta del monaco di Montevergine Riccardo, furono alfine riportati in un unico documento redatto il 27 dicembre 1237 dal notaio Bernardo assistito dal giudice di Avellino Guglielmo5.

Tuttavia, in breve tempo, la questione ebbe risvolti del tutto imprevedibili. Sta di fatto che, per accordi successivamente intercorsi di cui non si conoscono i termini, il monastero di Santa Maria di Paterno passò alle dipendenze dell’abbazia del Goleto6. In uno studio del Mongelli infatti si legge: Finora abbiamo potuto individuare 27 dipendenze del Goleto, distribuite come segue: 10 in provincia di Avellino (Andretta, Calitri, Castelfranci, Chiusano San Domenico, Guardia Lombardi, Lacedonia, Lioni, Montemarano, Paternopoli, Teora)1.

Tutte queste chiese dipendevano dal cenobio, erano cioè sottoposte all’obbedienza dell’abadessa e le suore, tutte di origine nobile, erano tenute ad osservarne le regole, mentre invece le funzioni religiose venivano officiate da cappellani del clero diocesano. A proposito di queste suore, il primo biografo2 di San Guglielmo scrive: In breve, nella loro santissima comunità non vi è alcuna che conosca il vino persino durante l’infermità. Quanto poi alla carne, al formaggio e alle uova, stimano illecito perfino di farne parola ...3

E’ lecito dubitare che la rinuncia alla chiesa di Santa Maria di Paterno da parte dell’abate Giovanni fosse del tutto disinteressata, poiché sua principale preoccupazione rimaneva quella di preservare e, se possibile, di incrementare i beni del suo monastero. Fu forse per sottolineare la provvisorietà dell’assoggettamento al Goleto di tale chiesa che, in data 10 ottobre 1238, fece fra l’altro riportare in un documento redatto dal notaio di Mercogliano Giovanni, alla presenza del giudice di Mercogliano Giovanni, l’atto relativo alla donazione delle chiese di Santa Maria e di San Damiano, nonché del mulino sul Calore sotto la chiesa di San Pietro, fatta all’abbazia dell’Incoronata di Puglia, nell’agosto del 1158, da Elia, figlio di Guglielmo di Gesualdo4.

Frattanto le relazioni fra la Sede Pontificia e l’imperatore erano venute sempre più deteriorandosi al punto che, il 29 marzo 1239, papa Gregorio IX scomunicò per la seconda volta Federico II. Il pericolo di nuove aggressioni consigliò a quest’ultimo di ristrutturare e potenziare le difese del territorio, facendone ricadere gli oneri sui sudditi del regno. Quindi, nel 1239, insieme con altre, l’università5 di Paterno, sebbene in terra beneventana, fu chiamata a contribuire con propria manodopera alla riparazione del castello imperiale di Sant’Agata di Puglia: Castrum Rocce S. Agathes reparari debet per homines Gisualdi, Frequenti, Aqueputide, Paterni, S. Magni, Vici, Vallate, Flumarie, Pulcarini, Zunguli, Bisacie, Laquedonie, Roccette S. Antonii, Montis Viridis, Carbonarie, Morre, Castellionis, Saviniani et Greci, et homines Rocce S. Agathes6.

Il castello di Rocca Sant’Agata deve essere riparato dagli uomini di Gesualdo, Frigento, Mirabella, Paterno, San Mango, Vico, Vallata, Flumeri, Pulcarino, Zungoli, Bisaccia, Lacedonia, Rocchetta Sant’Antonio, Monteverde, Aquilonia, Morra, Castelbaronia, Savignano e Greci, oltre che dagli uomini di Rocca Sant’Agata.

Il 22 agosto del 1241 moriva Gregorio IX e come suo successore, il 25 giugno 1243, salì al soglio pontificio Innocenzo IV. Comunque i rapporti fra l’imperatore e la Chiesa non migliorarono affatto, tanto che, durante il concilio di Lione, il 17 luglio del 1245, Federico II fu ancora una volta scomunicato.

Nel 1246 l’imperatore svevo sposò Bianca Lancia, con la quale da tempo aveva una relazione e dalla quale, nel 1223, era nato Manfredi. Ormai il suo carisma era in veloce declino e fu forse senza troppi rimpianti che il 13 dicembre del 1250 morì a Fiorentino, in Puglia.

Suo figlio Corrado IV, re di Germania, fu incoronato imperatore e la reggenza del regno di Sicilia fu affidata al fratellastro Manfredi.

Neppure con la morte di Federico II l’avversione di papa Innocenzo IV per la casa sveva aveva dato segni di affievolimento. Dichiarata illegittima la rivendicazione di Corrado IV dei suoi diritti sul regno di Sicilia, il papa intraprese trattative per offrirne il trono a Riccardo di Cornovaglia, fratello del re d’Inghilterra. Nel corso di queste però, l’8 gennaio del 1252, Corrado IV sbarcò a Siponto prendendo di fatto possesso del regno. Lo aveva accompagnato nell’impresa Elia II Gesualdo, figlio di Roberto ultimo signore di Paterno, al quale l’imperatore, per riconoscenza, restituì il feudo gesualdino1.

Corrado IV morì a Lavello il 21 maggio 1254 lasciando sul trono di Sicilia il figlioletto Corradino nato nel 1252, ed il 7 dicembre di quell’anno lo seguì nella tomba papa Innocenzo IV, il che interruppe le trattative in corso per un cambio di dinastia in quel regno.

Manfredi, giudicando la nuova situazione propizia a soddisfare le proprie ambizioni, fece circolare la voce che suo nipote Corradino fosse morto, il che gli consentì, previe intese con i baroni del regno, di autoproclamarsi re di Sicilia, facendosi incoronare a Palermo nell’estate del 1258. Allo scopo poi di consolidare il suo potere assicurandosi prestigiose alleanze, dette in sposa la propria figlia Costanza all’infante Pietro d’Aragona, figlio di Giacomo I il Conquistatore.

Paterno, indifferente alle convulse vicende politiche, era proteso a conseguire il massimo del vantaggio possibile dalla condizione di regio demanio di cui era venuto a godere. Nonostante le oscure trame, gli intrighi, gli egoismi del clero, restava pure inalterata la profonda devozione che tradizionalmente nutriva per la Madonna di Montevergine e per San Guglielmo, fondatore di quella abbazia, le cui spoglie mortali si custodivano presso la chiesa di San Salvatore del Goleto.

Infatti, quando nell’anno 1258 una donna del castello di Paterno fu invasata dal demonio, vedendola i consanguinei e tutti i suoi conoscenti così crudelmente tormentata, ... non senza grande sforzo, condussero la stessa misera, legata fortemente, al monastero, dove è sepolto il suo preziosissimo corpo. Dopo una notte di preghiere, all’alba, all’officiatura della Messa, la povera sventurata, volgendo sdegnosamente altrove il capo, involontariamente posò lo sguardo sull’immagine del santo Padre. La fugace visione fu sufficiente a liberarla dalla possessione del maligno, ed essa tornò a casa piena di salute nella sovrabbondanza del suo gaudio e della sua gioia2.

Ad Innocenzo IV era succeduto Alessandro IV e, quindi, Urbano IV. Quest’ultimo, in Orvieto, il 13 gennaio del 1264, nel confermare un privilegio dell’8 aprile del 1261 col quale il suo predecessore aveva posto il monastero di Montevergine alle dirette dipendenze della Santa Sede, riconobbe all’abbazia il legittimo possesso dei beni ad essa donati, o comunque pervenuti, fra cui, nel territorio di Paterno, ecclesiam Sancti Quirici cum hominibus domibus molendinis et possessionibus suis3 (la chiesa di San Quirico con gli uomini, le case del mulino ed i suoi possedimenti).

Era in quel tempo il feudo di Paterno ancora vacante, mentre Elia II deteneva quelli di Gesualdo e di Frigento, e feudatario di Montemarano, Torre Maggiore, Castelfranci e Baiano di Castelfranci era Landolfo Caracciolo, conte di Chieti.

Coerentemente con la politica di Innocenzo IV, Urbano IV prima e, morto questi, Clemente IV poi, si erano impegnati per un cambio di dinastia al trono di Sicilia, facendo alfine cadere la scelta su Carlo d’Angiò. Questi, incoronato re di Sicilia il 6 gennaio 1266 e raggiunto a Roma, nella metà dello stesso mese, dal suo esercito, mosse verso sud per scontrarsi con le truppe di Manfredi, il 26 febbraio del 1266, sul fiume Calore presso Benevento. Nello scontro, che vide vittoriosi i Francesi, perse la vita lo stesso Manfredi.

Alle schiere francesi si era aggregato Elia II Gesualdo che si distinse in battaglia per forza e coraggio. Come prova della propria riconoscenza, in quello stesso anno 1266, Carlo I d’Angiò lo elevò al grado di maresciallo del regno e gli restituì il feudo di Paterno che egli affidò al figlio Nicola Gesualdo perché vi amministrasse in sua vece.

Nicola Gesualdo, sempre in quel 1266, concesse una metà del casale di San Pietro di Paterno ad Alessandro ed a Giacomo di Saint Gill, lasciando la parte restante all’abate di Cava, al cui monastero l’aveva donata Federico II nel febbraio del 12211.

Necessitando di rinvigorire le casse dello stato, Carlo I d’Angiò dismise la politica protezionistica praticata dagli Svevi per aprire il regno ai mercanti delle repubbliche marinare. La manovra però comportò notevoli danni per l’economia locale, col conseguente diffondersi di un generale malumore che indusse molti a rivolgersi a Corradino, figlio del defunto imperatore Corrado IV, perché facesse valere i propri diritti sul regno.

Nei primi mesi del 1268 Corradino, ancora sedicenne, attraversò le Alpi ed il 23 agosto i due eserciti si scontrarono presso Tagliacozzo dove le forze tedesche furono letteralmente travolte. Corradino, fatto prigioniero e sottoposto ad un processo sommario, fu decapitato, insieme con alcuni suoi seguaci, sulla piazza del mercato di Napoli il 29 ottobre 1268.


1 Il richiamo alla disposizione testamentaria di Elia a favore del monastero di Montevergine fa menzione di complessive 22 once d’oro, mentre in effetti il lascito era stato di 25 once annue. E’ evidente la premura da parte dei monaci di concludere un accordo rapido, seppure svantaggioso, nella consapevolezza della imminente rovina dei Gesualdo.

2 Il riferimento è a Sant’Angelo al Pesco, in territorio di Frigento, sul versante che affaccia sulla valle dell’Ufita. In tale località, su di uno sperone roccioso (“pesco” aveva appunto il significato di “pietra”), i primi Normanni avevano costruito una torre di avvistamento.

3 Enrico Cuozzo: Catalogus Baronum, commentario - Roma 1948.

1 Giuseppe Muollo: in Restauro in Irpinia - Gesualdo - Roma 1989.

2 Francesco Scandone: I comuni del Principato Ultra, in Samnium - 1958\60.

1 Placido Mario Tropeano: Codice Diplomatico Verginiano, Voll. I, III e IV - Montevergine 1979.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. II - Roma 1956.

1 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. II - Roma 1956.

Pesco Cupo deriva la propria denominazione dalla presenza di una sommità rocciosa (pesco = pietra) dalla superficie convessa (cupa = botte). Di questa caratteristica non si conserva traccia in quanto il luogo è stato oggetto di modifiche dovute al prolungato sfruttamento di cave di pietra.

2 Francesco Scandone: Abellinum feudale, Vol. II - Napoli 1948.

3 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. II - Roma 1956.

1 Francesco Scandone: I comuni del Principato Ultra, in Samnium - 1958/60.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

3 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. II - Roma 1956.

4 Giovanni Mongelli: Ibidem.

5 Giovanni Mongelli: Ibidem.

6 Placido Mario Tropeano: Codice Diplomatico Verginiano, Vol. IV - Montevergine 1979.

1 Giovanni Mongelli: Insediamenti verginiani in Irpinia - Cava dei Tirreni 1988.

2 Un monaco del Goleto, coevo del Santo morto il 24 giugno 1142, di cui non ci è pervenuto il nome.

3 Giovanni Mongelli: Insediamenti verginiani in Irpinia - Cava dei Tirreni 1988.

4 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene - Roma 1956.

5 Definizione di una entità territoriale, costituita cioè dagli abitanti del borgo e da quelli di tutti i suoi casali. Il termine “università” sarà successivamente sostituito da quello di “comune”.

6 Gerardo Maruotti: S. Agata di Puglia nella Storia Medioevale - Foggia 1981.

1 Giuseppe Muollo: in Restauro in Irpinia - Gesualdo - Roma 1989.

2 Giovanni Mongelli: San Guglielmo da Vercelli, fondatore di Montevergine e del Goleto; la prima biografia, versione dal latino - 1978.

3 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. III - Roma 1956.

1 Francesco Scandone: I comuni del Principato Ultra, in Samnium - 1958/60.

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