Le Fiabe - Bianca, sciogli i capelli

Suo padre lo avrebbe voluto fabbro, un mestiere virile, degno dei maschi della loro casata, ma Giuseppe era delicato nel fisico, di animo gentile, un sognatore, così era stato d'obbligo af­fidarlo a mastro Menico perché ne avesse fatto almeno un buon sarto.

La bottega di mastro Menico era da tutt'altra parte e il ragazzo aveva da attraversare l'intero paese per raggiun­gerla; mai una volta che fosse giunto in orario però! Si attardava volentieri ad osservare i passeri beccare sulla via, a fantasticare al passaggio del carro di un mercante diretto a chissà quale fiera, o più sovente ad ascoltare le chiacchiere di qualche ozioso matti­niero che, tracannato il primo bicchie­re, veniva fuori dalla cantina per in­trattenersi coi passanti a menar vanto della cattura di lepri o fagiani con trappole di propria invenzione.

Quella mattina, poi, c'era neve! Aveva fioccato durante l'intera notte e Giuseppe faticava a camminare, affondando fin quasi al ginocchio nella soffice coltre bianca. Un gruppo di giovani, impediti al lavoro quotidiano dalla abbondante nevicata, si rincorreva sulla piazza, intento a scambiarsi mallonate[1].

Urla di incitamento, gioiose imprecazioni laceravano il silenzio senza echi; ansanti risate seguivano ad impacciati tentativi di fuga, a scomposti ruzzoloni. Nell'aria gelida fumavano le bocche spalancate e i volti infiammati. Si divertivano da matti ed egli si fermò a guardare, incantato, immemore del tempo che fuggiva e degli scappellotti di mastro Menico. Poi, improvvisa, dura e compatta, una palla di neve lo investi in pieno viso, lo fece barcollare. Quelli, sguaiati, risero di lui, ma non li udì. Un rivolo caldo gli sgorgò dal naso ed alcune gocce di sangue arrossarono ai suoi piedi la neve intatta. Fu talmente affascinato dalla combinazione dei due colori che gli venne spontanea una ripromessa: non avrebbe sposato che una ragazza bianca come la neve e rossa come il sangue! Passarono gli anni e Giuseppe crebbe. La madre, ormai vedova, voleva che prendesse moglie, ma egli, fedele all'antico impegno, ribatteva ogni volta agli inviti di lei che si sarebbe sposato solo quando avesse incontrato una fanciulla bianca come la neve e rossa come il sangue.

Intanto il tempo passava e la madre che si sentiva invecchiare si faceva sempre più insistente nel sollecitare Giuseppe a scegliersi una compagna, finché questi un giorno, convenendo che fosse giunto il tempo di metter su famiglia, chiuse bottega e annunciò che sarebbe partito alla ricerca della ragazza a lui destinata.

Fece fagotto e si pose in cammino. Trascorse l'estate, e poi l'autunno e l'inverno, girando di paese in paese, guadando fiumi e scalando montagne, adattandosi ai lavori più umili per sopravvivere, ovunque chiedendo invano dell'esistenza di una fanciulla dai requisiti indispensabili a realizzare il suo sogno.

Si era ormai in primavera. La natura si ridestava coi suoi profumi e i suoi colori, mala campagna che gli si apriva davanti, sconfinata e selvaggia, sembrava fuori dal tempo, indifferente ad ogni stagione. Camminava da ore e si sentiva svigorito ed affamato, quando scorse una misera bicocca, dispersa e appiattita nel grigiore di quella campagna desolata. La raggiunse e, discretamente, vi bussò all'uscio. Ne usci un vecchio dall'aria stanca e dimessa.

"Cosa cerchi?" costui gli chiese. La voce era fioca, appena un sospiro.

"Una ragazza bianca come la neve e rossa come il sangue", rispose Giuseppe. "Voglio che sia la mia sposa", confidò.

L'uomo scosse il capo. "Non posso aiutarti", disse, ma poi, cogliendo la delusione sul volto del giovane, soggiunse: "Puoi provare a chiedere a mio padre. Lo troverai seguendo questo sentiero". E dopo avergli indicato la strada, rientrò e richiuse la porta.

Giuseppe rimase interdetto. L'uomo era avanti negli anni, troppi perché potesse avere il padre ancora in vita. Sospettò che fosse fuori di senno, ma ormai non aveva altra scelta.

Camminò seguendo il sentiero finché, al tramonto, non giunse all'uscio di un casolare sperduto. Bussò e ne venne fuori un vecchio decrepito, dalla lun­ga barba canuta, che gli chiese: "Che cerchi, figliolo?"

"Una ragazza bianca come la neve e rossa come il sangue", si affrettò egli a rispondere, speranzoso.

Il vecchio si serrò nelle spalle, impo­tente. "Dovrai continuare a seguire il sentiero", disse. "Chissà che mio pa­dre non possa esserti utile". Senza aggiungere altro rientrò in casa, ri­chiudendone l'uscio.

Rapida calava la sera, ma neppure per un istante Giuseppe pensò di rinun­ciare a proseguire. Aveva inutilmente cercato dovunque e, ove mai fosse realmente esistita la fanciulla dei suoi sogni, aveva la sensazione che fosse prossima la fine del suo peregrinare. Così, sbocconcellando un vieto tozzo di pane rinvenuto fra le misere cose che ingombravano la bisaccia, riprese il cammino.

Camminò per l'intera notte ed il gior­no successivo finché, stanco, al tra­monto, non raggiunse un casolare semidiruto al cui uscio bussò.

Il vecchietto che ne venne fuori era curvo sotto l'enorme peso di un'età senza confini, rinsecchito e minuto, quasi cieco. "Cosa cerchi?" lo interro­gò, schiudendo appena la bocca sden­tata.

"Sapreste indicarmi dove vive una fan­ciulla bianca come la neve e rossa come il sangue?" egli domandò.

Il vecchio assentì gravemente. "So dove puoi trovare la ragazza che cerchi", disse, "ma il cammino è ancora lungo. Faresti meglio a ritemprare le tue for­ze, concedendoti qualche ora di ripo­so".

Giuseppe si sentiva eccitato e impa­ziente, ma dovette convenire che nelle condizioni in cui era non gli sarebbe stato possibile riprendere il cammino. Erano due giorni che non dormiva e, a parte un tozzo di pane duro, non aveva messo alcunché sotto i denti.

"Potreste offrirmi cibo ed ospitalità per la notte?" chiese.

Il vecchio sorrise mestamente. "Non ho altro che frutta secca e qualche patata", concesse, "ed il tetto sconnes­so della mia modesta bicocca".

Il giovane dormì profondamente, per la prima volta sereno dopo tanti mesi di ansie e di speranze deluse. La mat­tina, di buon'ora, il vecchio lo svegliò. "La strada è lunga", gli ricordò. "Ti conviene metterti subito in cammi­no".

Giuseppe, rinvigorito dalla certezza di essere ormai prossimo alla meta, saltò giù dal letto e prese la bisaccia in spalla.

"Sii prudente", raccomandò il vec­chio. "Bianca, la fanciulla che cerchi, è rinchiusa in un castello senza porte, oltre la gola della montagna, sorvegliata, di notte, da un orco sanguinario e da una strega crudele che l'hanno adottata. Potrai accedere al castello solo aggrappandoti alle lunghe chiome di lei, ma bada di uscirne prima del tramonto, che è l'ora in cui i genitori adottivi rincasano".

Egli annuì, ringraziò di tutto e si incamminò di buona lena. Ore ed ore di marcia lungo sentieri mai tracciati, sotto un sole implacabile, poi, inatteso, gli apparve il castello, massiccio ed austero, come scolpito nella stessa bruna roccia su cui si ergeva. Vi girò intorno, aprendosi a fatica un varco fra i cespugli e le insidie degli anfratti, finché non scorse, alta, un'unica finestra, appena uno squarcio nella compatta muraglia.

Come suggeritogli dal vecchio, tenendo le mani ai lati della bocca per amplificare il suono della voce, gridò: "Bianca, sciogli i capelli e fammi salire".

La finestra si spalancò e, illuminata dal sole che si era fatto basso all'orizzonte, apparve una meravigliosa fanciulla dalla pelle bianca come la neve e dal colorito rosso come il sangue. Giuseppe sentì il cuore arrestarglisi in petto, l'emozione soffocarlo, la gioia tramutarsi in una piacevole sensazione di levità e di vertigine. Era lei che aveva amato sin dall'infanzia, era lei che aveva inseguito nei suoi sogni, era lei quella per cui aveva affrontato disagi e pericoli di ogni sorta.

Bianca, per nulla sorpresa, con la docile compostezza di chi adempia al fato, disciolse la lunga chioma che defluì in basso al pari di una cascata d'oro.

Giuseppe si aggrappò ad essa ed alacremente vi si inerpicò fino al davanzale della finestra, entrando con un balzo nella stanza. Era meravigliosa Bianca, nonostante una profonda tristezza le velasse lo sguardo. Egli le si inginocchiò ai piedi e preso un lembo della sua lunga veste di seta se lo portò alle labbra per deporvi un bacio.

"Sapessi quanto a lungo ti ho cercata!" le disse.

Lei non ne sembrò stupita, né lusingata. Appariva, piuttosto, preoccupata e guardinga. "Devi andar via", gli sussurrò. "È pericoloso qui. Stanno per rientrare i miei genitori".

"Anche se dovessi morire", dichiarò egli enfatico ma convinto, "sarei comunque grato al destino che mi ha concesso il privilegio di conoscerti".

Non aveva finito di profferire queste parole, che un rumore di passi rimbombò per le alte volte e i cunicoli del castello.

"È mio padre", esclamò lei spaventata. "Presto, da questa parte". Apri un cassetto dell'enorme comò e ve lo spinse dentro, ricoprendolo frettolosamente con gli indumenti che conteneva. Poi, simulando indifferenza, andò a sedere presso la finestra.

L'orco fece il suo ingresso nella stanza annusando l'aria, sospettoso. "Sento odore di carne umana", brontolò.

"Chi vuoi che possa entrare in questo castello privo di ingressi?" obiettò lei. Ma l'omone, poco convinto, perlustrò l'appartamento senza nulla trovare, prima di lasciarsi cadere profondamente addormentato.

Quando fu sicura che nulla lo avrebbe svegliato, Bianca corse a liberare Giu­seppe e, attaccato ai capelli, lo calò giù dal torrione.

Quella notte il giovane dormì in un anfratto, su di un improvvisato giaciglio di foglie, ed il giorno successivo, come fu certo che Bianca fosse sola, si fece calare le chiome e tornò da lei.

Insieme il tempo volò e non si avvidero che si era fatta sera se non quando avvertirono il passo pesante dell'orco. Bianca fece appena in tempo a nascon­dere il giovane entro le pieghe dell'am­pia gonna che quello fece il suo ingres­so, annusando l'aria e ripetendo mi­naccioso: "Sento odore di carne uma­na" .

Ma neppure questa volta scoprì l'in­truso e, stanco della lunga giornata, si addormentò.

I due giovani si separarono per incon­trarsi di nuovo la mattina successiva, ma ancora il giorno trascorse veloce, estasiati, smarriti l'uno nello sguardo dell'altra, immemori e imprudenti.

A sera, diversamente da quelle prece­denti, fu la strega a rincasare per pri­ma. Bianca, stavolta terrorizzata, spin­se Giuseppe sotto il letto, ma la megera che aveva un olfatto fine non tardò ad individuarne il nascondiglio e, afferra­tolo per un piede, lo tirò fuori. Pazza di furore e di rabbia, emise un urlo agghiacciante, levò le mani adunche e si accinse a dilaniare le carni del giova­ne con le unghie poderose come arti­gli. Bianca, disperata, afferrò una se­dia e con essa la colpì violentemente al capo, facendola crollare al suolo tra­mortita.

Giuseppe si rialzò, pallido e tremante. Non per la sua vita temeva, ma per quella della fanciulla che aveva osato ribellarsi ai suoi carcerieri. Per lei cer­cava affannosamente una possibilità di scampo, si arrovellava, volgeva in­torno lo sguardo agitato, serrava i pu­gni impotente.

Intanto Bianca aveva tirato fuori da un cassetto, in cui aveva frugato scompi­gliando ogni cosa, un cofanetto di le­gno antico che serrò sotto il braccio. "Presto", sollecitò. "Dobbiamo fuggi­re prima che rientri il mio patrigno". Con gesti febbrili, prese un paio di forbici e si tagliò i capelli di cui assicu­rò un'estremità al davanzale della fine­stra e, lungo di essi, lo precedette fino ai piedi del castello per subito dopo guidarlo in una precipitosa fuga attra­verso la campagna.

Al suo rientro, l'orco rinvenne la mo­glie svenuta. Sospettando quanto era accaduto, si prodigò per rianimarla ed insieme si misero sulle tracce dei fug­gitivi.

Quelli, trafelati, non avevano percor­so che qualche miglio, quando Bianca si avvide che stavano per essere rag­giunti. Senza esitare trasse dall'antico cofanetto una minuscola ampolla di vetro che lanciò dietro di sé. Cadendo, la fiala si infranse liberando il liquido contenuto che, a contatto con l'aria, si gonfiò, ribolli, crebbe a dismisura fino a generare un fiume impetuoso che fermò gli inseguitori, costringendoli ad un lungo giro alla ricerca di un guado.

Alcune miglia più avanti, ansanti, spos­sati, Bianca e Giuseppe sentirono il bisogno di concedersi un breve riposo e sedettero all'ombra di una quercia, ma di nuovo videro avanzare le figure minacciose dei due.

Prontamente ripresero la corsa e Bian­ca tirò fuori dal cofanetto una sottile lama metallica che lasciò cadere alle sue spalle. Questa si frantumò in una miriade di minuscole lamelle scintil­lanti al sole che, infisse nel terreno, procurarono profonde e dolorose la­cerazioni ai piedi degli inseguitori.

Tuttavia l'orco e la strega, nonostante le ferite sanguinanti, mossi da proterva volontà, inesorabilmente guadagnava­no terreno sui fuggitivi. Fu allora che Bianca ricorse all'ultima opportunità concessale dal cofanetto magico, lan­ciando contro di loro una palla di sapone che invase la campagna, rive­stendola di una spessa patina scivolosa, intrappolando alfine in una viscida landa i loro persecutori.

Solo in seguito seppero che più nulla si opponeva alla loro felicità. I due esseri malvagi si erano spenti, dopo lunga agonia, prigionieri della campagna saponificata.



[1]Lancio di palle di neve.

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