Diritto alla Storia, La fine del periodo viceregnale

Diritto alla Storia - Capitolo 22

Nel 1722 era sindaco di Paterno Carlo dello Guoro, coadiuvato dagli eletti Giuseppe de Martino e Tommaso Rosanio2. Il loro compito di amministratori non si presentava particolarmente difficile in quanto il fenomeno della povertà risultava ormai contenuto entro limiti fisiologici.

La ridistribuzione delle terre in concessioni perpetue operata dal clero e dalle cappelle aveva favorito lo sviluppo dell’agricoltura; sull’antico tratturo per la Puglia si erano pressoché normalizzati i traffici da cui avevano tratto nuovo impulso le attività di ristorazione ad essi connesse; rifiorivano il commercio e la produzione artigianale, soprattutto quella dei laterizi.

La natalità appariva proiettata verso una costante crescita e, nel 1722, furono 59 i bambini battezzati3. Restava contenuto il tasso di mortalità di persone adulte, sicché in quell’anno furono registrati 11 decessi soltanto4, mentre di ben 18 fu il numero dei matrimoni celebrati5.

Al pari della fiera annuale e delle feste religiose, le cerimonie nuziali assumevano il carattere di veri e propri eventi sociali, coinvolgendo l’intera comunità. Esse venivano celebrate all’aperto, in faciem ecclesie, iuxta ritum S.R.E. (dinanzi alla chiesa, secondo il rito di Santa Romana Chiesa), ed immancabilmente richiamavano folle di curiosi che si assiepavano lungo le vie percorse dal corteo nuziale e gremivano la piazza. Queste costituivano per i giovani una delle rare occasioni di incontro e di approcci sentimentali, protraendosi i festeggiamenti in serate danzanti al suono dell’organetto ed in abbondanti libagioni in cui affogare timidezze e pudori.

Particolarmente atteso dovette essere il matrimonio, solennizzato dall’arciprete Don Giuseppe de Rienzo e dal clero tutto della parrocchia, che si celebrò il 17 settembre 1722 fra Marcello Famiglietti della città di Frigento e Chiara de Martino di Paterno6. Lo sposo era parente dell’Arcidiacono della diocesi di Frigento e del Priore Don Nicola Famiglietti ben noto in quanto, periodicamente, visitava questa terra per controllarne i registri parrocchiali ed i conti degli introiti per diritti di sepoltura, pari a due carlini per defunto, fatta eccezione per i poveri che ne erano esentati.

Per la circostanza la porta della chiesa fu riccamente addobbata e gli astanti, numerosi come non mai, vestiti dei loro abiti migliori, ammirarono gli ospiti forestieri, si intenerirono alla commozione della sposa, unirono le proprie alle voci del clero che intonava i canti liturgici.

Ma l’intera comunità non si sentiva coinvolta nei soli eventi che proponevano momenti di svago e di spensieratezza. Non mancavano, nei fatti di piccola cronaca locale, motivi di discussioni e, non di rado, di intensa partecipazione emotiva. Sovente l’opinione pubblica ne risultava divisa. Certamente così avvenne, l’8 giugno 1723, per l’arresto di Gio: Sanazzaro, originario di Solofra ma abitante in Paterno, che fu processato e rinchiuso nella vecchia prigione sotto la torre perché havea pigliato, o rubato certo grano, granodindio e cicerchie nel magazeno di Domenico Modestino1.

Nell’ottobre 1725 poi, per ordine di Vincenzo Carafa, fu arrestato e tradotto nelle carceri di Chiusano mastro Oratio Caliberto, della terra di Solofra ma abitante in Paterno, accusato di aver rubato dei soldi nella casa dei fratelli Donato e Catarina Zollo, al borgo di San Sebastiano, e ciò nonostante i presunti derubati lo scagionassero con dichiarazione resa al notaio Petruzziello2.

Ma fra i tanti episodi di quotidiana illiceità, quello che suscitò maggior stupore e indignazione fu la violenza carnale consumata ai danni di una ragazza di minore età, aggravata dalla circostanza che il misfatto si fosse compiuto al disotto della cripta della chiesa madre. Nessuna esitazione ebbero Mattia Pergamo, Gennaro Santucci e Gio: Russo a muovere esplicite accuse al colpevole. Infatti, il 13 novembre 1727, alla presenza del notaio Piccarino, costoro dechiarano, e testificano, come giorni sono, che ritrovandosi avanti la torre, e proprio avanti le cancellate delle carceri di quella, dove stava carcerato Giuseppe Esposito figlio di Antonia di Geronimo di detta terra, quale Giuseppe che esso da più mesi, e proprio quando s’andò in Benevento, che fù nelli passati mesi d’Aprile, e Maggio, del corrente anno, dechiarò che il medesimo Giuseppe ebbe due volte a che fare, o copula carnale con Catarina Novola, figlia di Sapia Novola di detta terra, che una volta, ciò è la prima volta, la stuprò ... nella grotta di Santo Nicolò3, ... et esso Giuseppe li donò cinque grana, et un’altra volta esso Giuseppe stiede con detta Catarina pochi giorni doppo, e proprio nel loco detto Terra di Nuzzolo, quale dechiarazione detto Giuseppe la fece senza che fusse stato forzzato, e questa è la verità4.

Il 5 gennaio 1726 il Principe di Chiusano, Tiberio Carafa II, pagò alla Regia Camera della Sommaria i diritti di successione feudale5, ma la notizia, se pur si seppe, si esaurì presto nella generale indifferenza. Polarizzava l’attenzione l’attività produttiva, stimolata e sorretta da una congiuntura favorevole che vivacizzava i mercati.

A facilitare i collegamenti con la vicina terra di Fontanarosa era appena stato costruito un ponte per il superamento del fiume Fredane, come si rileva da un atto notarile dell’epoca in cui, per la prima volta, si fa riferimento ad una località denominata lo ponte a Torano6. In documenti successivi lo stesso è detto lo ponte dei Tangari. Che il ponte fosse uno lo chiarisce un atto del 1750 in cui lo si indica come lo ponte dei Tangari, seu a Torano7.

Parimenti la costruzione di un ponte sul fiume Calore, a congiungere la terra di Paterno con quella del castello di Poppano, la si intuisce dalla citazione di una località denominata, in un atto del 1746, le Castagne verso lo ponte di Poppano1.

Un ponte ancora fu costruito sul Fredane, nei pressi di contrada Scorzagalline, dove lo ricorda il nome di una località detta Ponterotto.

Non avevano tutti questi ponti l’ampiezza e la solidità di quelli romani che, nonostante la scarsa manutenzione, sopravvivevano a secoli di intemperie e di ondate di piena. Nella loro struttura prevaleva l’impiego di tronchi e le parti in muratura erano costituite da ciottoli di fiume misti a malta. Le arcate erano basse e l’ampiezza appena sufficiente al passaggio di un carro. Non rientravano, essi, in progetto viario di ampio respiro ma, realizzati in economia e col contributo spesso irrisorio delle università interessate, erano volti alla quasi esclusiva fruizione locale.

Analoga consistenza avevano, ancora nell’anno 1723, gli impianti di convogliamento idrico per il funzionamento del mulino della Baronal Corte, tuttora prospiciente il tratto di fiume all’altezza della stazione ferroviaria. La sua attività era discontinua per i frequenti danneggiamenti a cui era soggetta la diga, o palata, costituita, come al tempo dei Normanni, da un rudimentale sbarramento fatto con pali infissi nel letto del fiume e fascine2.

Avrebbe dovuto il principe di Chiusano, che come feudatario ne deteneva il possesso, provvedere all’ammodernamento dell’impianto, ma in ciò lo impediva la sua situazione finanziaria che era tutt’altro che florida. Così, nell’anno 1732, per l’ennesima volta si dichiarava da parte dei gestori: quale molina in quest’anno non macinarono circa quattro mesi, e la causa fù perché la fiumara di detto Calore ne menò la palata, e quella nuovamente si rifece, e fatta che fù, di nuovo il detto fiume ne la menò3.

Il contemporaneo rilancio dell’edilizia aveva incentivato la produzione di laterizi ed una fornace per la cottura della pietra calcarea era stata costruita presso il vallone a monte della Pescarella, a tergo delle case ubicate lungo la statale che delimita piazza IV Novembre. Fu detta, questa, la Calcara dell’Angelo, e talvolta venne ad essere indicata semplicemente come la Calcara4.

Non restava comunque isolato lo sforzo intrapreso dai singoli cittadini. Anche l’Università si prodigava per il miglioramento delle strutture e dei servizi. Nel 1724, in quanto fatiscente, fu demolito e quindi ricostruito il muro perimetrale di sinistra della maggiore chiesa. La navata ne risultò ampliata, a tutto vantaggio degli altari in essa situati. Con l’occasione il soffitto della cappella dedicata alla Vergine Santissima della Consolazione fu decorato da mastro Felippo Gentile ed all’antica effigie su tavola dell’anno 1588 fu sovrapposta una nuova immagine, realizzata su tela, che maggiormente rispondeva al gusto dei fedeli.

Nel contesto dei lavori di ristrutturazione si provvide inoltre allo sgombero dei ruderi che insistevano a ridosso del campanile, ove attualmente è la gradinata della chiesa, ed all’apertura di quella che è oggi detta la porta maggiore di essa. Tuttavia questa non venne elevata al rango di ingresso principale in quanto tuttora oppressa dalle vetuste abitazione che le si serravano intorno, fra cui a malapena si districava la stradina che ascendeva alla piazza.

Un nuovo forno, che oggi definiremmo comunale, più rispondente per capienza ed accessibilità alle esigenze dei cittadini, fu aperto lungo il Pendino della Fontana, all’imbocco di Rua delle Rose che assunse per questo il nome di Ruva dello Furno. Da esso, il vicolo prospiciente, a tergo della chiesa di San Sebastiano, fu detto la Ruva avanti lo furno dell’università allo Pennino5.

Fra i servizi sociali più qualificanti era da annoverare l’assistenza medica gratuita offerta indistintamente a tutti i cittadini mediante convenzione fra l’università ed un medico locale.

Sul finire del 1746 furono però avanzati dei dubbi sulla gratuità del servizio, o meglio sulla correttezza del nuovo medico ad esso preposto. Era accaduto che, scaduta la vecchia convenzione, anziché rinnovarla si era proceduto ad una nuova assunzione a decorrere dal primo settembre di quell’anno, per cui i Magnifici del Governo Ciriaco Barbieri e Francesco Salierno avevano fatto diffondere un bando, dicendo per ogni vico di detta terra, chi vuole il medico si chiama il Dr. fisico D. Giuseppe Mattia, per essere da noi questo appaldato per medico.

Orbene, qualcuno non aveva tardato ad insinuare che il nuovo medico pretendesse compensi non dovuti dai propri assistiti sicché, per dissipare ogni dubbio sull’onestà del professionista, molti cittadini sentirono il dovere di dichiarare come in tutte le loro situazioni hanno sempre chiamato il suddetto Dr. fisico D. Giuseppe di Mattia, senza che al suddetto lo havessero dato cavallo (una moneta dell’epoca) alcuno per pagamento, e né da quello sono stati molestati1.

In realtà il dottore aveva indebitamente percepito onorari per le proprie prestazioni, e lo ammisero il 13 ottobre 1749 i signori Domenico Conte, Domenico Cascione, Ciriaco Caluano ed Antonio di Amato, asserendo essersi verificato ciò negli anni 1746 e 1747, allorquando furno assistiti nelle loro infermità, ... in tempo che esercitavano l’ufficio del Governo Francesco Salierno, e Ciriaco Barbieri2.

L’attuazione di programmi sociali, con impegni di spesa a lungo termine, imponeva all’università la certezza delle entrate, per cui si faceva ricorso al sistema dell’appalto della riscossione tributaria. Il 6 novembre 1730 si aggiudicò i fiscali della terra di Paterno l’esattore Rocco Barone, della terra di Chiusano3.

Tuttavia, pure la sicurezza sociale e la maggiore disponibilità economica producevano risvolti negativi. Il benessere stimolava l’avidità e fomentava i vizi, di cui il gioco era l’espressione più evidente e più diffusa. Taluni se ne rendevano schiavi al punto da avvertire un disperato bisogno di affrancarsene e, dubitando della propria forza di volontà, ricorrevano ad una sorta di autocoercizione largamente praticata. Fu il caso di Antonio Modestino il quale, il 19 aprile 1730, sotto pena di ducati dieci da corrispondere alla cappella delle Anime del Purgatorio, si impegnò con atto del notaio Giuseppe Petruzziello a non giocare a nessuna sorta di gioco delle carti, sotto la coppola, casocavallo, e palle (bocce)4.

Ad analogo espediente era già ricorso, il primo ottobre 1726, Francesco di Sandolo che, con atto pubblico, si era impegnato a non giocare a nessuna sorta di gioco, cioè il gioco delle carti, e sotto la coppola, per la durata di dieci anni, obbligandosi a pagare, qualora fosse venuto meno all’impegno assunto, la somma di dieci ducati alla Baronal Corte5.

Numerosi seguaci contava pure il gioco della piroccola, nonostante l’evidente pericolosità. Non si hanno indicazioni sulle modalità di svolgimento di questo gioco. Certamente consisteva nel lancio di una pesante mazza (piroccola) con l’intento di colpire qualcosa o di realizzare la massima distanza. E’ ovvio che questa, rimbalzando, era soggetta a deviazioni che mettevano a rischio l’incolumità fisica non solo degli astanti, ma anche quella di ignari passanti. Un incidente di una certa gravità, in quanto è palese il tentativo di minimizzare da parte dei presenti chiamati a riferire sul fatto, si verificò nel mese di febbraio dell’anno 1734: Donato Volpe e Ciriaco di Vito, praticando il gioco di piroccola, nel luogo dove si dice la Porta, e nel mentre havea da menare (lanciare) il suddetto Donato Volpe, disse a quelli che stavano ad osservare il suddetto gioco, levatevi davanti, et in particolare disse at Angelo della Terza ... e poi nel secondo colpo (rimbalzo), che fece la detta piroccola, colse un poco casualmente alla gamma (gamba) del detto Angelo della Terza ... e noi viddimo uscire dalla suddetta gamma un poco di sangue1.

Seppure contraddittori, erano questi i segni di una società diversa, dinamica, in rapida evoluzione, consapevole alfine dei propri diritti e decisa a farli valere nelle sedi opportune.

Al pari di pochi altri, il clero mostrava però di non aver compreso i tempi nuovi. Prigioniero di una mentalità retrograda, ispirato da gretti egoismi, si era consolidato in una sorta di casta la cui tracotanza culminò, nell’anno 1728, nel tentativo di adottare un nuovo statuto che lo preservasse da presunte contaminazioni e gli garantisse l’esclusività di consolidati privilegi. Nel documento, fra l’altro, si stabiliva di non ammettere nel consesso dei preti della chiesa maggiore chierici che non fossero nati nella terra di Paterno. Si mobilitò l’opinione pubblica che vedeva discriminati quegli ecclesiastici che, pur figli di genitori di questa terra, per una qualsiasi ragione fossero nati in altra università.

Facendosi interpreti del malcontento popolare, il sindaco Carmine Tono, il medico de Mattia Capo Eletto e Donato de Rienzo Eletto, produssero opposizione presso la Curia Vescovile di Avellino e Frigento. Con soddisfazione di tutti il ricorso fu accolto e, il 18 agosto dello stesso anno, si dette incarico al pubblico notaio Piccarino di ufficializzarne l’esito mediante trascrizione sul registro degli atti notarili2.

Ma la civile convivenza non era incrinata dalla sola frattura determinatasi fra la comunità laica e quella sacerdotale. Fra gli esponenti dello stesso clero esisteva una malcelata conflittualità che, negli anni a seguire, era destinata ad esplodere in una serie di scandali.

L’8 luglio 1739, Isabella Grasso fece verbalizzare di essere stata, due mesi addietro, istigata dai sacerdoti Don Crescentio Beneventano, Don Ciriaco di Mattia, Don Nicolò e Don Crescentio Modestino a denunciare il parroco Don Pippo Coviello, con l’accusa che detto D. Pippo havesse conosciuto carnalmente essa Isabella, il che questo, è tutto lontano dalla verità. La stessa sostenne che, per la sua azione, D. Crescentio Beneventano li promise una cannacca (collana) d’oro, D. Ciriaco li promise uno paro di sciaccaglie (un paio di orecchini) d’oro, e D. Nicolò e D. Crescentio Modestino li promisero una gonnella3.

Lo scandalo, che pur ebbe vasta risonanza, non fu sufficiente ad imprimere una svolta nella condotta del clero, né bastò a smorzare gli ardori del sacerdote Don Domenico di Adesa il quale, compulso da brame lascive, giunse ad insidiare finanche la signora Orsola Vecchia, donna di morigerati costumi, che ritenne doveroso denunciarne il comportamento alla Curia Vescovile.

Il sacerdote non esitò a procurarsi dei falsi testimoni allo scopo di far ritenere inattendibile la donna. Lo ammisero il 19 gennaio 1749, al cospetto del notaio Lorenzo Sara, i signori Carmine Solimano, Stefano Gammino, Michel Angelo Ragozino, Apollonia Iannino ed Angela Gallo. In particolare Carmine Solimano espose: essendo stato chiamato dal R. D. Domenico di Adesa nel giorno di giovedì sedici se male non se ricorda del corrente mese di Gennaro, e proprio verso l’ore tre della notte (le otto di sera) in circa che havea già mangiato e voleasi corcare, e mezzo stordito di vino e sonno per la fatiga della giornata che né meno vedea la via per essere troppo notte et andò in sua casa per sapere che cosa volea, et entrato trovò il Magnifico Notaio Giuseppe Petruzziello, zio di detto Domenico, e Donato di Amato Giudice suo compare, et il medesimo sacerdote di Adesa li disse amico se mi vuoi bene ora è tempo di volermi agiutare (aiutare), et esso attestante confuso li rispose D. Domenico mio che aiuto ti posso fare comandami, et esso sacerdote sogiunse dì che ti ha chiamato la Magnifica Orsola Vecchia e ti ha racchiuso dentro una camera e ti ha promesso carlini dieci, acciò fussi andato a giurare contro di me al Commissario d’Avellino mandato dalla Curia Vescovile, et io non sapendo cosa fusse mi tornò a dire se non dici questo Monsignore mi leva la messa1.

Nonostante qualche intemperanza ed una strisciante corruzione, sembrava che nulla ormai potesse arrestare l’ascesa sociale ed economica di Paterno quando, alle 13,30 del 29 novembre 1732, con epicentro in Ariano, uno dei più disastrosi terremoti che la storia ricordi colpì l’Irpinia. Ariano ne fu completamente distrutta, così pure Mirabella ove si contarono 500 vittime. Gesualdo, nonostante 17 morti soltanto, fu resa inabitabile. A Carife i morti furono 460, 57 a Grottaminarda, 35 a Sant’Angelo dei Lombardi, 62 a Teora, 30 a Torella e, dalle macerie della cattedrale di Conza, furono estratti 50 cadaveri2.

Più limitati furono i danni riportati da Paterno, anche se il patrimonio edilizio ne uscì piuttosto malconcio. Tre sole furono le vittime: il reverendo Don Ferdinando de Martino, monaco della Congregazione di Montevergine, Atanasio da Vietri della città di Melflui (Melfi) e Maria de Pelosi, moglie di Giuseppe di Spirito. Questi ultimi due sono indicati come pauper, cioè poveri, il che lascia supporre che particolarmente fatiscenti fossero state le loro abitazioni3.

Difficoltà ben maggiori aveva dovuto affrontare il laborioso popolo di Paterno nel suo lungo cammino attraverso la storia per cui, per nulla demoralizzato, si impegnò da subito nell’opera di ricostruzione, ignaro, o forse soltanto indifferente, dei profondi mutamenti che si apprestavano sullo scenario internazionale.

Nella guerra di successione polacca, scoppiata in seguito alla morte di Federico Augusto II di Sassonia, si inserì il re di Spagna Filippo V allo scopo di recuperare al proprio dominio il viceregno di Napoli, dal 1707 sotto amministrazione austriaca. Il compito della riconquista fu affidato a Carlo III di Borbone, nato dal matrimonio dello stesso re con Elisabetta Farnese, il quale, senza incontrare resistenza alcuna, penetrò in profondità nel viceregno. Il condottiero spagnolo poteva contare sul malcontento diffuso sia fra il popolo che fra la stessa nobiltà per la grettezza dell’amministrazione tedesca, nonché sulle simpatie che si era guadagnato col farsi precedere da un proclama, diramato il 14 marzo 1734, col quale prometteva l’impunità per coloro che avessero deposto le armi.

Sotto l’incalzare delle truppe spagnole il governo viceregnale abbandonò Napoli per ritirarsi verso la Puglia. Il viceré Visconti che si era assunto in prima persona l’onere di contrastare l’avanzata nemica, il 4 aprile 1734, protetto dalla cavalleria al comando del Maresciallo Carafa, raggiunse Avellino dove era ad attenderlo il principe di Chiusano Tiberio Carafa II con i propri armigeri.

Tiberio Carafa II suggerì di attestare la difesa fra Luogosano, Paterno e Torella, tratto impervio e praticamente inespugnabile, dove sarebbe stato possibile tagliare la strada che collegava Terra di Lavoro con la Puglia; ma il Preside della provincia di Principato Ultra, il conte salernitano Ruggi, scrisse al viceré prospettando come nel di dentro delle montagne di Montella, Bagnirolo, Acerno, Serino ed altre, vi si fossero unite alcune centinaia di facinorosi armigeri e di fuoriusciti, i quali tra le folte boscaglie e stretti passi delle montagne, che nello andare dall’Avellino nella Puglia si incontrano, avevano risolto di svaligiare il bagaglio di S. E. e forse S. E. stessa4.

Tutto ciò era falso. Col pretesto di dover reprimere movimenti sovversivi o briganteschi, il Ruggi aspirava a farsi assegnare il comando dei soldati di campagna coi quali accorrere a dare man forte alle truppe spagnole in avanzata.

Il 6 aprile, a sera il Maresciallo (Carafa) si attendò al Ponte di Calore sul territorio di Mirabella; ove come terra di sua zia, il Principe di Chiusano, dopo aver provveduto il Campo di tutto il bisognevole, andò ad albergarvi la notte; e da colà, avvegnaché quella grossa e ragguardevole terra fosse tutta a terra diroccata da terremoti, pur tuttavia la notte stessa spedì molte provvigioni da bocca nella Grotta Minarda, mentre ivi il dì seguente i Tedeschi dovevano ponere, siccome vi posero gli alloggiamenti. Indi il dì otto aprile il Campo passò in Ariano ultima città della provincia da quella banda che con la Puglia confina1.

In Ariano però si andava tramando una sommossa. Avvertito, il principe di Chiusano Tiberio Carafa II chiese rinforzi, e da Bovino gli furono inviati 120 uomini.

Il 14 aprile si seppe che le truppe spagnole erano giunte a Benevento ed il Preside Ruggi spedì un ordine alla città di Ariano col quale si imponeva di riconoscere Filippo V quale legittimo re di Napoli. Se ne infuriò il principe di Chiusano che decise di punire il Preside e la città di Montefusco in cui esso risiedeva. Tale impresa non pareva difficile perché la città di Montefusco si ritrovava quasi tutta a terra diroccata dal tremuoto, ma gli Spagnoli già avanzavano verso l’Irpinia, i Tedeschi tolsero il campo dal Ponte di Bovino ed il Marchese di Villar, Preside della provincia di Puglia, iniziò i preparativi per rendere onore ai vincitori.

Il 15 aprile 1734 il principe di Chiusano, invecchiato anzitempo, provato dalle fatiche della guerra, congedò i militi che lo avevano seguito nella ingloriosa impresa e riparò a Barletta. Al trono di Napoli salì Carlo di Borbone e la città ridivenne capitale di un regno autonomo, finalmente aperto alla cultura europea.

In quello stesso anno il principe di Chiusano fu punito per la sua fedeltà al governo austriaco col sequestro fatto dal Dottor D. Gennaro de Ruggiero Regio Percettore della provincia di Principato Ultra d’ordine della Regia Camera delle rendite feudali e burgensatiche della terra di Patierno2. In verità la motivazione aveva fondamento giuridico in quanto era giustificata da debiti non onorati dall’anziano feudatario, tuttavia un suo diverso atteggiamento politico gli avrebbe certamente evitato tale umiliazione. Comunque il provvedimento ebbe validità temporanea in quanto Tiberio Carafa II fu successivamente reintegrato nel pieno possesso di questo suo feudo.

Sebbene la campagna di guerra non avesse avuto uno svolgimento cruento, il ruolo dei militari, come sempre avviene in tali circostanze, ne fu esaltato, e ne crebbe l’arroganza. Ebbe a patirne pure un amministratore di Paterno, come testimoniarono, il 13 dicembre 1734, Antonio Folippone, Nicola Garofalo, Nicola Conte, Francesco Morsa e Giuseppe Zoina che si trovavano, verso le hore vent’uno (all’incirca le tre pomeridiane), nella Publica Piazza di questa terra, e proprio loco detto lo Ponte, dove sono gionti due soldati di campagna, e Nicola Festa di Avellino, armati, dov’anche è gionto il nostro eletto Nicolò Coviello di questa terra di Paterno.

Il Festa, a scopo canzonatorio, impose all’eletto, in nome del Re, di non allontanarsi da quel luogo, sotto pena di docati mille; ma di lì a poco uno dei soldati gli chiese di recarsi a chiamare il Giurato. Nicolò Coviello se ne dichiarò impossibilitato, spiegando che gli era stato ordinato di non muoversi per nessuna ragione. Il militare ritenne che l’uomo volesse prendersi gioco di lui, e di tale supposto atteggiamento irriguardoso si risentì al punto da esplodere in escandescenze: Il medesimo soldato l’ha detto, che voleva ponerli una funa in canna e trascinarlo per tutta questa terra, e l’altro soldato di campagna con scoppetta impugnata per tirarli, con dirli più ingiurie, e particolarmente più volte mi vuoi chiavare le corna in culo, che certamente se non correvano altri soldati, e genti di questa terra, haverebbero malamente maltrattato detto eletto1.

Non meno arrogante risultava la nuova classe piccolo-borghese che, protesa a perseguire personali interessi, intesseva una complessa rete di rapporti che le assicurava l’occupazione di cariche nella pubblica amministrazione.

Il 31 maggio 1736 Alessio Venafra e Vito Morsa denunciarono che quel giorno Angelo Palermo e Donato d’Amato Giurati di questa Terra di Paterno hanno fatto panizare (panificare) dal panettieri di questa medesima terra certo pane che pare propriamente di fango, e molti cittadini di questa terra hanno avuto ricorso alli Magnifici del Governo Francesco Antonellis et Nicola Beneventano, et hanno consignato al suddetto Magnifico Francesco Antonellis Capo Eletto una comparsa (protesta scritta), et il medesimo si ha pigliata la detta comparsa nelle mani, e poi l’ha buttata a terra, dicendo non sono capitanio (negoziante), e doppo di questo hanno fatto emanare li banni (bandi, cioè annunci verbali declamati dal banditore per le vie del paese) per detta terra dal Giurato della medesima dicendo chi vuole pane dell’assaio (d’assaggio) a tornesi cinque il rotolo2 vada dal Panettieri, quale assaio si fé a dì ventinove del corrente mese di maggio, quale banno si doveva fare dal tempo che si fé d’assaio3, e non presentemente che è finito detto pane di detto assaio4.

Ed ancora, il 13 settembre 1737, Francesco Nigro, Grassiere5 della terra di Paterno, entrato nella poteca lorda (negozio di generi diversi) di Nicola Beneventano, impose: Non voglio che facci vendere più le robbe di poteca ad altre persone, ma voglio che le vendete voi, e tanto ti basta; et il suddetto Poticaro (bottegaio) ha risposto, stai à me à chi voglio fare vendere le mie robbe. Non avevano alcun diritto di interferire con gli affari altrui i Grassieri Francesco Nigro e Giuseppe Rosanio. Era nota la loro disonestà, in quanto avevano fatto vendere la carne di porco ammalato a caro prezzo, cioè a grana cinque, cinque e mezze, e quattro e mezze il rotolo, quando il nostro capitolo dell’Università asserisce non dovere passare la carne ammalata grana tre il rotolo, e non più6.

Il 22 ottobre 1745 poi, come rivela una dichiarazione raccolta dal notaio Lorenzo Sara, gli Eletti di Paterno furono denunziati al Preside della Regia Udienza di Montefusco, per aver detto a Francesco di Sandolo, nella di lui botega lorda, ... di essere il medesimo garzone delli Governi, e non padrone della Botega7.

Tale affermazione aveva scopo intimidatorio, in quanto non poteva essere giustificata dal fatto che, al pari del forno e della macelleria, il negozio era di proprietà dell’università e, come d’uso, era stato concesso in appalto ad un privato cittadino che se ne era aggiudicata la gestione mediante concorso alla relativa asta pubblica.

Ma del più deprecabile degli abusi, senza dubbio, si rese reo, nell’anno 1739, il notaio Nicolò Piccarino, redigendo un atto falso per il quale fu sospeso dalla funzione notarile. Per sottrarsi all’arresto dovette rifugiarsi, come sovente accadeva, nella chiesa di San Francesco, ove rimase per alcuni mesi, fin quando cioè non risarcì il danno causato tacitando la parte lesa8.

Neppure fra i comuni cittadini mancava chi era aduso molestare ed infangare l’altrui onorabilità con ricorsi e calunnie. Il più subdolo, il più abietto di tutti, come si asserì da parte di molti in data 29 giugno 1742, era indubbiamente Gaetano Stefanelli il quale essere di cervello molto torbido, mantiene di continuo all’Università di detta terra disturbanza procurando per suoi sinistri fini. Costui da tempo sottoscriveva accuse che, al giudizio del Preside di Montefusco, si dimostravano puntualmente infondate1.

Di lui, ancora il 20 agosto 1742, si diceva: Gaetano Stefanellis di questa medesima terra è un’huomo torbido, e di continuo và intorbidando questo publico2.

A parte gli episodi, comunque sporadici, di prevaricazione e di intemperanza, la comunità evolveva in un clima di sostanziale serenità. Furono 89 le nascite registrate nel 1737, ed 81 nell’anno successivo3. La mortalità infantile si manteneva entro limiti accettabili, e solo 13 furono i decessi che nel 1737 interessarono la fascia d’età compresa fra lo zero ed i sei anni4. Nello stesso anno furono celebrati 24 matrimoni5 e morirono 6 persone adulte6.

Nel 1738 fu investito della carica di sindaco Cristofano Gentile, mentre Ciriaco Brida e Pietro Cuoco risultarono, rispettivamente, primo e secondo Eletti7. Cambiavano le abitudini e veniva ad essere profondamente modificato il profilo strutturale del paese. Sempre più ricorrente, nella definizione dei confini, si faceva il termine di ornara, riferito a muri di contenimento soprelevati a guisa di parapetto, il che indica come l’intero pendio collinare venisse ad essere terrazzato per ricavarne strade ed orti.

Le diverse attività, un tempo accentrate all’interno della cinta muraria, erano ormai distribuite fra i sobborghi e, in conseguenza di tali trasmutazioni, mutavano le denominazioni dei luoghi. Era già successo per Rua delle Rose, o dei Lizi, che ora era detta Ruva dello Furno, nonché per la zona dell’Angelo, inizialmente circoscritta alle immediate vicinanze a sud-ovest della Pescarella, che, con il definitivo decadimento della chiesa, si era estesa a comprendere l’intera area a destra del vallone fin presso il sobborgo del Pozzo. Così, essendo stati deputati a luoghi di pubblica riunione spazi diversi e più idonei a contenere l’accresciuta popolazione, dal 1736 lo spiazzo anticamente detto Seggio era venuto ad assumere la denominazione di largo dello Campanile, ubicato da sopra la croce de pietre che era la più volte menzionata croce eretta presso il ponte della Porta di Napoli8.

Da tanto fermento innovativo era rimasta però esclusa la chiesa maggiore, sì da giustificare il giudizio dell’abate Sacco, espresso in questi termini: In questa Terra sono da marcarsi una parrocchia di modesta struttura ...9 In effetti, a parte le immagini sacre alle pareti delle cappelle e gli ormai stinti affreschi delle volte, la chiesa di San Nicola conservava l’originario aspetto miserevole e disadorno. Nell’intento di rendere più degno e decoroso il maggior luogo di culto, fu commissionato allo scultore Gennaro d’Amore un busto ligneo colorato raffigurante San Vincenzo Ferreri che fu completato nell’anno 173710.

Anche le confraternite delle tre maggiori cappelle, quelle cioè del Santissimo Corpo di Cristo, del Rosario e dell’Annunziata, furono coinvolte nel piano di ammodernamento della chiesa fino a deliberare di realizzare i rispettivi altari di cui erano prive. Dei progetti fu incaricato mastro Ciriaco Rosa di San Severino, abitante in Paterno. Sui suoi disegni, col sistema dell’accensione di candela, la gara d’appalto si tenne il 20 gennaio 1737, disponendo altresì, per la realizzazione delle opere, l’impiego di pietre dette d’alabastro cotognino, ... e di un masso, che sono in mezzo la strada Napolitana sopra la taverna delli Signori Rossi, da quella parte del fiume Fredane. Si specificava, inoltre, che gli altari dovevano essere eseguiti con modiglioni, seu cornacopij, gradini, mense, paliotti, pedastri, predelle, tutti tre bene allustriti (levigati) e tutti tre connessi con breccia di Frangia, e verde di Calabria, a colori dicentino (confacenti) alla suddetta pietra1.

Per un compenso di 245 ducati si aggiudicò i lavori lo stesso mastro Ciriaco Rosa, ma l’impegno, per la sua complessità, ben presto doveva rivelarsi superiore alle sue possibilità. Fu così che, il 28 febbraio 1737, si pervenne ad un compromesso in virtù del quale avrebbero congiuntamente concorso alla realizzazione delle opere i mastri Ignazio de Felippo della città di Napoli, Antonio Visconti della città di Avellino e lo stesso Ciriaco Rosa che ne era stato il progettista2.

L’onere maggiore, poiché più elaborato e più maestoso ne risultò l’altare, fu sostenuto dalla congregazione del SS. Rosario, i cui Procuratori Carlo Lapio e Niccolò Venuti furono chiamati a corrispondere 160 dei 245 ducati complessivi convenuti3.

Le condizioni di recuperata prosperità non mancavano di produrre i loro benefici effetti sull’andamento demografico, proiettato verso una rapida crescita. Al rilevamento dei fuochi effettuato nell’anno 1737 Paterno aveva fatto registrare 199 famiglie: un numero piuttosto elevato, soprattutto se posto a confronto con quelli censiti nelle terre limitrofe. A Castelvetere i fuochi erano risultati 58, 70 a Castel delli Franchi, 220 a Fontana Rosa, 124 a Fricento, 216 a Gesuaido, 44 a Locusano, 79 a S. Angelo all’Esca, 107 a S. Mango, 134 a Taurasi, 150 a Torella e 48 a Villamagna4. La natalità si era attestata al disopra delle ottanta unità annue, mentre la mortalità infantile si manteneva stabile, mediamente intorno al 13%. Addirittura furono 120 i nati nel 17395 e solo 10 i bambini deceduti6.

Non incise in maniera rilevante, sulla consistenza numerica della popolazione, l’epidemia che, nel 1740, con 37 morti quasi triplicò il numero dei decessi annui di persone adulte7, ma che soprattutto colpì la fascia d’età compresa fra lo zero ed i sei anni, falcidiando 77 bambini, di cui 51 nei soli mesi di settembre ed ottobre8.

Proseguivano intanto i lavori di ristrutturazione della maggiore chiesa iniziati nel 1724 con l’ampliamento della navata sinistra. Nel 1741, data che si evidenzia incisa nell’intonaco del manufatto, la volta della grotta sotto la Chiesa fu rinforzata con un nuovo arco di sostegno eretto sulla verticale del nuovo muro perimetrale. In questo periodo fu pure definitivamente murato l’ingresso della cripta, a cui fu comunque assicurato l’accesso mediante una botola ricavata nel pavimento della navata centrale, occlusa nel corso della ripavimentazione eseguita negli anni ‘70.

Durante il corso di questi ultimi lavori, nel 1740 appunto, la congregazione del Santissimo Rosario provvide a trasferire la propria cappella presso la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, essendo divenuto insufficiente lo spazio ad essa riservato all’interno della chiesa maggiore. Questo cambiamento dié aggio opportuno ad una sorpresa, perché essendo Governante del Pubblico il magn. D. Francesco Antonelli, questi stimò de facto arrogarsi il Governo della Cappella1. A sostegno delle proprie rivendicazioni, i pubblici amministratori produssero una testimonianza, all’uopo resa in data 3 gennaio 1741 al notaio Giuseppe Petruzziello dai signori Gaetano Stefanelli e Gaetano Gubello.

Il documento si proponeva di dimostrare il diritto di patronato dell’università sulle maggiori cappelle, fra qui quella del Rosario, e, seppure ispirato da faziosità, ha tuttavia il merito di contribuire a far chiarezza sul significato delle lettere “P” ed “O” presenti nello stemma del Comune che a tante dotte disquisizioni hanno dato adito nel secolo passato. A tale proposito così si esprimevano i suddetti dichiaranti laddove testificano come le quattro principali cappelle situate dentro la maggiore chiesa di questa suddetta terra, cioè in quella del SS.mo Corpo di Cristo, SS.ma Annunziata, SS.mo Rosario, e Santa Monica, per ciascheduna di esse, et non altri, li due laterali delle medesime, a destra et a sinistra in pietra di marmo in segno di Jus Patronato vi sono state, come attualmente vi sono, scolpite l’Armi, seu insegne di questa Università consistite in arbore nel mezzo, a mano destra sua del tronco la lettera P., et a mano sinistra la lettera O. che significano Paterno2, e sono l’istesse Armi, seu insegne, che questa detta terra si serve nel sugello Universale et Autentiche di tutte le scritture, così publiche, come private tutte, quale sugello anno per anno passa da sindico a sindico. In oltre li suddetti constituti testificano che le quattro cappelle stanno, e sono nel Jus Patronato di detta terra, e delli Maggiori del Governo3.

La congregazione del Rosario affidò la difesa dei propri diritti al giurista Michelangelo Cianciulli di Napoli che ampiamente dimostrò la malafede dei governanti di Paterno, interessati alle cospicue rendite della cappella più che alla prosperità della stessa, e non esitò a definire l’azione intrapresa dall’università come prodotto della crassa ignoranza di quell’idioti Amministratori4.

Più che ignoranza, quella degli amministratori era arroganza e disonestà. Favoriti da un iniquo sistema elettorale, non si facevano scrupolo di asservirlo ai propri disegni, nell’ambito di ristrette alleanze, al fine di garantirsi anacronistici privilegi. Erano gli eletti, cioè i due cittadini designati dal popolo a rappresentare gli opposti schieramenti, a proporre i candidati alla carica di sindaco ed a pilotarne l’elezione nel dispregio delle più elementari regole di democrazia e di civile convivenza. La procedura e gli abusi a cui essa era soggetta si evidenziano nell’esposto prodotto da alcuni cittadini il 30 agosto 1744.

Essi affermano, dechiarano e testificano, come questo dì trenta del corrente mese di Agosto, di questo anno 1744, in detto loco la Piazza, avanti la chiesa maggiore di detta terra, precedentino publici banni (a seguito di pubblici avvisi), secondo il solito, dalli magnifici del Governo (amministratori dell’università), et in presenza del Sig. Governante, s’è convocato Publico Parlamento (adunanza di popolo) per l’elezzione del nuovo Sindico; dal magnifico Camillo de Mattia primo eletto è stato eletto (candidato) per detta carrica di Sindico Francesco Brida, e dal magnifico 2° eletto Orazio dello Guoro è stato eletto (candidato) Ciriaco de Vito per detta carrica di Sindico, e nel mentre si stavano pigliando li voti e pareri di cittadini, li quali quasi tutti concorrevano, o davano li voti al detto Ciriaco de Vito, il detto magnifico primo eletto Camillo de Mattia imperiosamente ha levato il detto Parlamento dalle mani del Cancelliere in tempo che scriveva detti pareri, e voti di cittadini, per non fare compire detto Parlamento1, quale compendosi, certamente detto Ciriaco de Vito restava concluso da’ cittadini per Sindico dell’Università di detta terra di Paterno2.

Alle vicende politiche non era estraneo il clero che, talvolta, finiva col rendersi inviso a qualcuna delle fazioni in lotta. Fu forse questa la ragione per cui, il 16 dicembre 1743, don Carlo Rossi, quale tutore del nipote don Giuseppe Rossi, conferì la nomina di Rettore della cappella della Santissima Pietà nella chiesa maggiore, di cui i Rossi detenevano lo jus patronatus, al reverendo Don Silvano Pisano della terra di Pesco la Mazza, oggi Pesco Sannita in provincia di Benevento, con tutti l’onori, rendite, pesi annessi e connessi3.

L’anno successivo, il 6 luglio 1744, don Carlo Rossi e don Marcello Famiglietti presero in fitto, dal monastero della Santissima Trinità di Cava, i terreni della grangia di San Pietro nell’omonima contrada, per la durata di 29 anni, pagandone 120 ducati l’anno4.

Era intanto deceduto senza prole, il 9 dicembre 1742, il principe di Chiusano Tiberio Carafa II5. I feudi ed il titolo erano passati al di lui fratello Vincenzo il quale, anch’egli senza eredi diretti, il 7 aprile 1745, con atto redatto dal notaio napoletano Pietro Salernitano, destinò le sue proprietà ad Ettore Carafa, figlio secondogenito del duca d’Andria, col vincolo della trasmissione ereditaria ai secondogeniti di sesso maschile. In particolare si citava il feudo di Paterno, a lui pervenuto in virtù della disposizione testamentaria di suo zio don Cesare Carafa che lo aveva acquistato nell’anno 16766.

A richiesta dei creditori del defunto Tiberio Carafa II però, il 7 agosto 1747, il tribunale del Sacro Regio Consiglio vendette il feudo di Chiusano a Giuseppe Anastasio per 35.050 ducati. Oltre ai beni burgensatici, restavano all’ormai quasi ottantenne principe Vincenzo Carafa i soli feudi di Paterno, Campolieto e Campo di Pietra che, alla sua morte, il 13 marzo 1749, furono trasferiti, giusta sua disposizione, al duca d’Andria Ettore Carafa7.


2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1883.

3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati.

4 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

5 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei matrimoni.

6 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Ibidem.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1883.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1891.

3 Tale denominazione era attribuita a quella delle antiche cave, oggi integrate nel palazzo Famiglietti, che da piazzetta Vittorio Emanuele II si addentra fin sotto il presbiterio della chiesa maggiore.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1884.

5 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1883.

7 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1888.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1888.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1891.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1892.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1887.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1885.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1898.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1897.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1892.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1892.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1891.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1893.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1883.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notali di Paternopoli - Fasc. 1894.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1899.

2 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

4 Tiberio Carafa: Relazione della guerra in Italia nel 1733\1734, in Archivio storico per le province napoletane, Vol. VII.

1 Tiberio Carafa: Relazione della guerra in Italia nel 1733\1734, in Archivio storico per le province napoletane, Vol. VII.

2 Vol. 25 de’ processi della Regia Camera della Sommaria.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1885.

2 Misura di peso equivalente, in Campania, a Kg. 0,890.

3 Si lamenta che il bando per l’assaggio del pane, poi risultato immangiabile, andava fatto il giorno 29, allorché si era dato inizio alla panificazione mediante l’impiego della nuova partita di farina, e non ora, 31 maggio, che il pane di assaggio era esaurito ed il bando si risolveva in una pura formalità.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli Notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1893.

5 Addetto alla riscossione dei dazi ed al controllo dei prezzi. Le riscossioni di regola avvenivano in natura. Il prodotto importato in quantità più consistente era il sale di cui veniva esatto un rotolo per ogni soma. La nomina del funzionario aveva durata annuale.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1893.

7 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1898.

8 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1895.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati.

4 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri degli infanti morti.

5 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei matrimoni.

6 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

7 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1894.

8 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1886.

9 Francesco Sacco: Dizionario geografico, storico, fisico del Regno di Napoli, Tomo III - Napoli 1796.

10 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica in Paternopoli (AV).

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1886.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

4 Cono Capobianco: Descrizione di tutt’i luoghi che compongono le dodici provincie del Regno di Napoli - Napoli 1794.

5 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati.

6 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri degli infanti morti.

7 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

8 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri degli infanti morti.

1 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

2 Lo stemma di Paterno fu presumibilmente adottato negli anni immediatamente successivi al 1505, nel contesto della ridistribuzione delle terre feudali e del riassetto del sistema amministrativo. Il suo territorio, simbolicamente rappresentato dal colle di Paterno compreso fra le alture di San Felice e di Serra sovrastanti una distesa boschiva, appare riprodotto nella tavola del 1588 ai piedi dell’immagine di Maria SS. della Consolazione assisa in trono. Nella logica della simbologia araldica, i boschi erano stati riassunti in un’unica grande quercia compresa fra le lettere iniziale e terminale del nome dell’università.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1894.

4 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

1 Il primo eletto Camillo de Mattia, prospettandosi la sconfitta del candidato da lui indicato, sospese le operazioni di voto, che si espletavano con dichiarazioni verbali rese da ogni singolo cittadino al cancelliere che ne prendeva nota, in tal modo annullando le elezioni in corso.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1887.

3 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

4 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

5 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

6 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.

7 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

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