Diritto alla Storia, Il Feudo di Paterno conteso

Diritto alla Storia - Capitolo 13

Nell’anno 1295 Roberto, terzogenito di re Carlo II d’Angiò detto lo Zoppo, dopo sette anni trascorsi come ostaggio in mano aragonese, aveva potuto far ritorno a Napoli dove, nel 1297, fu designato erede al trono di Sicilia. Il giovane, con l’intento di porre fine all’ormai annosa contesa che contrapponeva Angioini ed Aragonesi, nel 1298, sebbene tredicenne, sposò Iolanda d’Aragona, sorella di Giacomo II, il quale in suo favore rinunciò all’isola.

I Siciliani però, pur di non ricadere sotto il dominio francese, non riconobbero l’accordo ed elessero re dell’isola Federico II d’Aragona, terzogenito di Pietro III, il che provocò una violenta reazione da parte di Roberto d’Angiò, con la conseguente recrudescenza delle attività belliche.

Sul finire del XIII secolo morì Nicola Gesualdo, signore del feudo di Paterno. Non aveva avuto eredi maschi, comunque il diritto di successione feudale era esteso, come esplicitato nel formulario di investitura dell’epoca, eius heredibus utriusque sexus ex ipsius corpore legitime discententibus natis iam et etiam nascituris2.

... agli eredi di lui di ambo i sessi, generati dal suo legittimo corpo, già nati o ancora da nascere.

Alla sua vedova, Giovanna della Marra, che in seconde nozze sposò Tommaso Dragone, fu assegnata la signoria di Frigento. Ereditavano i feudi restanti, fra cui Paterno, le figlie Margherita, che aveva sposato Bertrando, visconte di Leutrico, e Roberta, che era andata sposa a Giacomo de Capua. Di una terza figlia, Giovanna, non si sa nulla in quanto forse morta in giovane età.

All’insorgere del XIV secolo le contrade irpine avevano un aspetto tutt’altro che florido. La peste nera aveva mietuto ovunque vittime e molti terreni, un tempo coltivati e fertili ed ora abbandonati, inselvatichivano. A Paterno, i mulini sul fiume Calore avevano gradualmente ridotto la propria attività fino a cessarla del tutto. La guerra in corso per il possesso della Sicilia, col suo gravame di imposte e contributi, vanificava ogni tentativo di ripresa economica.

Una schiarita parve profilarsi nel 1302. Fra il 24 ed il 31 agosto di quell’anno, a Caltabellotta in provincia di Agrigento, fu stipulato un trattato di pace in virtù del quale Federico II d’Aragona avrebbe conservato fino alla morte il possesso della Sicilia col titolo di re di Trinacria, ottenendo altresì in sposa Eleonora, sorella di re Roberto d’Angiò. Per contro, il titolo di re di Sicilia ed il diritto alla successione al trono sarebbe rimasto agli Angioini.

Ma troppi e complessi erano gli interessi che gravitavano intorno all’isola, sicché l’accordo era destinato a naufragare e la guerra non tardò a riprendere con maggiore violenza e determinazione.

Neppure Margherita e Roberta, figlie ed eredi di Nicola Gesualdo, avevano raggiunto un’intesa per la successione nei feudi di Gesualdo, Paterno e San Mango, essendo quello di Frigento detenuto dalla di loro madre Giovanna della Marra. La lite, anzi, aveva assunto ormai toni così aspri che non lasciavano intravedere possibilità di soluzione. Re Carlo II d’Angiò si vide dunque costretto ad intervenire, affidando l’incarico di derimere la questione ai due maggiori giureconsulti del tempo: Andrea d’Isernia ed Ansaldo Trara de Scala. Costoro, il 23 luglio del 1303, emisero la sentenza, a cui non dovettero essere estranee le pressioni esercitate dalla potente famiglia de Capua, a totale favore di Roberta Gesualdo1.

L’erede al trono Roberto d’Angiò, rimasto vedovo di Iolanda d’Aragona, nel 1304 sposò Sancia di Maiorca.

Pur fra molteplici difficoltà Paterno tentava di riprendersi dalla crisi di fine secolo. La popolazione superstite si era stretta intorno alle chiese, le sole in grado di esercitare un’azione di aggregazione e di riorganizzazione sociale in quanto le sole capaci di elargire conforto e di infondere speranza. Nelle cerimonie religiose, più frequenti e più frequentate che mai, immancabilmente ricorreva l’invocazio- ne: A peste, a fame, a bello, libera nos Domine2 (Dalla peste, dalla fame, dalla guerra, liberaci o Signore); e la certezza dell’aiuto divino rigenerava la volontà e la forza per sopravvivere.

Non erano le sole comunità monastiche, in territorio di Paterno, ad aver assunto un ruolo guida in questo difficile momento; oltre ad esse, infatti, una consistente classe clericale si era affermata nel borgo. Lo prova il fatto che, negli anni 1308 e 1310, per le decime che annualmente dovevano essere versate alla Santa Sede, furono pagate dai Clerici castri Paterni tar. X 3 (preti del castello di Paterno tarì 10).

Non era una somma trascurabile se si considera che né le chiese di San Quirico e di Santa Maria, né quelle di San Pietro e di Sant’Andrea, né quella di San Damiano erano soggette al pagamento delle decime in quanto i redditi da esse prodotte affluivano, rispettivamente, per le prime due al monastero di Montevergine, per le seconde al monastero di Cava, a quello dell’Incoronata di Puglia per l’ultima. Purtroppo i documenti non danno indicazioni circa il titolo delle chiese, tuttavia è presumibile che i preti sottoposti al pagamento delle decime officiassero, oltre che in quella del borgo intitolata a San Luca, pure nelle cappelle di San Felice e di Sant’Angelo, quest’ultima eretta a monte della Pescarella per cui dalla chiesa aveva assunto la propria denominazione la zona che dal monastero di Santa Maria si estendeva fino a località Pozzo, comprendendo le odierne via Garibaldi e piazza IV Novembre.

Per gli stessi anni Fontanarosa, per le chiese di San Nazzaro, Santa Maria, San Nicola e San Giovanni pagò complessivamente 24 tarì e 52 grani4, mentre non furono chiamati a corrispondere alcuna somma i religiosi di San Mango in quanto le loro chiese non avevano prodotto reddito.

Nell’anno 1309 morì re Carlo II d’Angiò e suo figlio Roberto cinse la corona del regno di Sicilia, pur rimanendo l’isola in mano aragonese. Sua moglie, la regina Sancia di Maiorca, libera del freno impostole dal suocero, potette finalmente abbandonarsi alla vita brillante e dispendiosa a cui aveva sempre aspirato, assillando il re suo consorte con richieste continue di concessione di appannaggi e di feudi.

In questi anni alla feudataria di Paterno Roberta Gesualdo venne a mancare il marito Giacomo de Capua, che aveva rivestito la carica di Gran Protonotario del Regno. Il conte Berardo Candida Gonzaga, nelle sue Memorie delle famiglie nobili meridionali, erroneamente lo indica investito di tale carica nell’anno 1339, il che lo presumerebbe ancora in vita a tale data. Altro errore, in cui autorevoli storici incorrono, è l’attribuirgli due sole figlie: Martuccia e Maria.

Un chiarimento per tutti è offerto dall’atto dell’anno 1315 in virtù del quale re Roberto d’Angiò concesse a Petrucio de Sus, filio et heredi quondam Americi de Sus militis, senioris, assensus super matrimonio cum Bartomia de Capua, filia quond. Iacobi de Capua, Iuris civilis professoris, Regni Siciliae Prothonotarii, et egregiae dominae Robertae de Gesualdo ...1

Petruccio de Sus del fu Americo de Sus, milite, il vecchio, l’assenso al matrimonio con Bartomia de Capua, figlia del defunto Giacomo de Capua, professore di diritto civile, Protonotario del Regno di Sicilia, e dell’egregia signora Roberta di Gesualdo ...

Delle altre due loro figlie, Martuccia de Capua aveva sposato Filippo Stendardo senza che dalla loro unione fossero nati figli, e Maria era andata sposa ad Errico de Capresio, restando anch’essa senza prole. Alla morte della loro madre Roberta, la baronia di Gesualdo, ivi compresi i feudi di Paterno e di San Mango, fu assegnata a Martuccia, e Maria non ebbe altro che quei possedimenti che il padre Giacomo de Capua le aveva destinati in dote.

La regina Sancia, considerato che Martuccia sembrava destinata a non avere eredi, avanzò la richiesta di essere designata alla successione nella baronia di Gesualdo. Re Roberto però si mostrò restio ad accontentarla, timoroso di arrecare offesa alla famiglia de Capua che godeva di notevole influenza, tuttavia, pressato dalla moglie, finì col prometterle il solo feudo di Paterno, con la clausola però che non avrebbe potuto prenderne possesso se non dopo la morte di Martuccia, e sempre che questa nel frattempo non avesse avuto eredi diretti.

Intanto le ingenti spese per sostenere la guerra mai interrotta contro gli Aragonesi per il possesso della Sicilia imponevano nuove tasse e collette, né si mancava di far ricorso ad iniqui espedienti pur di reperire i capitali necessari. Fu in questa ottica truffaldina che, il 6 giugno 1328, re Roberto fece coniare due nuove monete, una in argento denominata carlino, l’altra in rame detta piccolo danaro, ordinando a tutti i giustizieri del regno che vigilassero affinché queste sole fossero utilizzate, e insieme autorizzandoli a confiscare qualsiasi altra moneta d’argento o di rame avessero trovato in circolazione2.

Ne risentiva l’economia delle università. Infatti, nel 1328, per decime dovute alla Santa Sede, il clero di Paterno non pagò che 6 tarì. Meglio che in passato andarono invece le cose per San Mango il cui clero pagò tarì 5. Quello di Villamaina, al pari della chiesa di San Giovanni di Rocca San Felice, di tarì ne pagò 3, ed uno soltanto quello di Taurasi il cui arciprete però, da solo, dovette corrispondere 7 tarì e mezzo. Il clero chiamato ad una maggiore contribuzione fu quello di Fontanarosa con 22 tarì e mezzo, seguito da quello di Grottaminarda con 15 tarì. Gesualdo dal canto suo, fra l’arciprete di San Nicola ed il clero delle chiese di Sant’Antonio e di Santa Lucia, versò in tutto 13 tarì3.

Maria de Capua, rimasta vedova di Errico de Capresio, nel 1331 sposò Filippo Filangieri, barone di Candida. Quale dono di nozze, Filippus Filangerius miles consors Mariae de Capua constituit tertiariam uxori super castrum Candidae4.

Filippo Filangieri, sposo di Maria de Capua, concesse alla moglie la rendita del castello di Candida.

La nuova unione non tardò a dare i suoi frutti in quanto nacque Giacomo Antonio, denominato in alcuni documenti Cobello. Martuccia de Capua restava tuttora senza figli e sua sorella Maria avrebbe dovuto ereditarne i feudi, ad eccezione di Paterno promesso alla regina Sancia.

Quest’ultima si faceva sempre più esigente per soddisfare la smodata passione per il lusso che la divorava e per organizzare sontuosi ricevimenti a corte, tanto che re Roberto, nell’anno 1333, si vide costretto a concederle i feudi di Tomasella, figlia di Pietro de Sus, deceduta senza eredi5.

Maria de Capua, che dopo Giacomo Antonio aveva generato Riccardo, Bartolomeo, Roberta e Martuccia, preoccupata per le crescenti pretese della regina e temendo per i feudi aviti, fece esercitare pressioni sul re affinché confermasse gli impegni assunti circa la sua successione nella baronia di Gesualdo.

Re Roberto d’Angiò non volle deluderla. Datum neapoli per Iohannen grillum de Salerno juris civilis professorem viceprothonotarium regni sicilie anno domini millesimo trecentesimo quatragesimo secundo die vigesimo octobris ..., Redatto in Napoli da Giovanni Grillo di Salerno, professore di diritto civile, viceprotonotario del Regno di Sicilia, nell’anno del Signore 1342, nel ventesimo giorno di ottobre ...,

spedì il privilegio in cui si ribadiva che, nel caso in cui Martuccia de Capua, moglie di Filippo Stendardo, fosse morta senza prole, ... ad hoc assensu inclite sancie Ierusalem et Sicilie Regine Consortis nostre carissime que in et super ipsa Baronia ex concessione nostra certa iura pretendebat habere ad supplicationem quoque factam propterea nostro Culmini tam pro parte dicte Marie quam prefate Martucie ... ordinamus volumus et mandamus quod in casu pretacto iam dicta Maria seu eius legitimi liberi gradus et sexus prerogativa servata prephate martucie succedat seu succedant et succedere debeant in Baronia Jamdicta juribus et pertinentis suis omnibus supradictis castro paterni dumtaxat excepto quod in certo casu pervenire debet ad Reginam eandem ...1

... ottenuto a ciò l’assenso dell’illustre Sancia, regina di Gerusalemme e di Sicilia, nostra carissima consorte, che sulla stessa baronia di Gesualdo, per nostra concessione, pretendeva avere incontrovertibili diritti, ed anche in accoglimento della richiesta fatta in merito a ciò alla nostra persona tanto da parte di detta Maria che dalla summenzionata Martuccia ..., ordiniamo, vogliamo e disponiamo che nel caso predetto, fatti salvi i diritti della suddetta Martuccia, la già menzionata Maria, oppure i suoi legittimi figli di qualsiasi sesso ed età, succeda, oppure succedano e debbono succedere nella già detta baronia, con tutti i suoi diritti e pertinenze, con eccezione del solo castello di Paterno che in tal caso deve pervenire alle stesse condizioni alla regina ...

Il 19 gennaio 1343 morì Roberto d’Angiò. Avrebbe dovuto succedergli al trono suo figlio Carlo, duca di Calabria, ma essendo questi morto la corona fu cinta nello stesso anno 1343 dalla di lui figlia, Giovanna I d’Angiò.

Costei, sposata con Andrea d’Ungheria, allo scopo di serbare alla dinastia angioina il diritto alla successione nel regno, escluse il marito dal trono dando origine ad una conflittualità in cui si inserì come moderatore papa Clemente VI.

Morto senza eredi Filippo Stendardo, marito di Martuccia de Capua, l’ex regina Sancia si impossessò dei beni di lui ed avanzò richiesta del feudo di Paterno, in quanto promessole dal defunto re Roberto. Martuccia, dal canto suo, fece presente che Paterno, sin da tempo immemorabile, era parte integrante della baronia di Gesualdo e non ne poteva essere disgiunto se non con grave danno per l’intero possedimento.

La lite si protrasse per mesi inter quondam Inclitam dominam Sanciam Ierusalem et Sicilie Reginam ... et Martuciam de Capua dominam Baronie Gisualdi sororem eiusdem Marie coniunctam contentionis exorta materia de Castro paterni posito in provincia principatus ultra serras montorii quod de Baronia Gisualdi fore dignoscitur ...2

fra l’illustre signora Sancia, ex regina di Gerusalemme e di Sicilia ... e Martuccia de capua, signora della baronia di Gesualdo, e sua sorella Maria a lei unita nel contenzioso sorto intorno al castello di Paterno, sito nella provincia del Principato oltre Serra di Montoro, per il fatto che fosse stato distinto dalla baronia di Gesualdo ...

Alfine si addivenne ad un accordo, siglato In nomine domini nostri Ihesu Christi. Anno nativitatis eius Millesimo Trecentesimo quadragesimo tertio. Regnante Serenissima principissa et domina nostra domina Iohanna dei gratia Regina Ierusalem et Sicilie ... die vicesimo tertio mensis aprilis undecime indictionis neapoli in Reginali Castro novo civitatis ipsius ...1

In nome di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno dalla sua nascita 1343, regnando la serenissima principessa e signora nostra, signora Giovanna, regina di Gerusalemme e di Sicilia per grazia di Dio ... nel giorno 23 del mese di aprile, nell’undicesima indizione, in Napoli, nel reale Castelnuovo della stessa città ... Per effetto del compromesso, Regina mater nostra remisit et cessit ipsi Martucie omne ius omnemque actionem sibi competens et competentem competiturum et competituram in dicto castro paterni ac illius hominibus vassallis iuribus et pertinentiis suis ... si forte ipsa Martucia deciderit legitimis heredibus non relictis Castrum ipsum paternum deveniet sicut et devenire debet dicta Baronia Gisualdi ad Mariam de Capuam sororem suam et eius heredes ...2 la regina madre nostra3 rinuncia e cede alla stessa Martuccia ogni diritto ed ogni atto di sua spettanza presente e futura sul detto castello di Paterno, con tutti i diritti su uomini, vassalli e sue pertinenze ... se per caso la stessa Martuccia dovesse venire a mancare senza aver lasciato eredi legittimi, lo stesso castello di Paterno automaticamente diviene e deve divenire, in uno con la detta baronia di Gesualdo, di proprietà di Maria de Capua, sua sorella, e degli eredi di lei ...

Dal canto suo Martuccia, a cui spettavano, per dote, 90 once annue che l’ex regina Sancia era tenuta a corrisponderle sulle rendite dei possedimenti del defunto suo marito Filippo Stendardo, rinunciava ad una somma pari a 40 once, mentre per le restanti 50 riceveva il fondo di Montalbano in Basilicata4.

Preso atto dei termini in cui era stata risolta la questione de causa in et super Castro Paterni de Baronia Gisualdi (della controversia sul castello di Paterno della baronia di Gesualdo), il documento relativo all’accordo fu munito dell’assenso sovrano nell’Anno domini M°CCCXLIII° die ultimo Augusti5 (anno 1343, ultimo giorno di agosto).

Comunque Maria de Capua non sopravvisse alla sorella, morendo nell’anno 1345.

Nel settembre di quell’anno la regina Giovanna I si liberò del marito Andrea d’Ungheria, facendolo assassinare nel castello di Aversa da un gruppo di baroni a lei fedeli. Per la crudeltà con cui il delitto fu consumato un fremito di orrore e di sdegno scosse l’intera Europa. Temendo reazioni e sconvolgimenti politici, Filippo Filangieri, vedovo di Maria de Capua, si affrettò a chiedere che i propri figli fossero confermati nel diritto alla successione nella baronia di Gesualdo.

La regina Giovanna I accolse la richiesta e, richiamando il privilegio di re Roberto del 20 ottobre 1342, a favore Iacobi Antonii Riccardi et Bartholomei nec non Roberte et Martuczie filiorum et heredum quondam Marie de capue consortis almi Philippi Filangerii domine Candide ... di Giacomo Antonio, Riccardo e Bartolomeo, nonché di Roberta e Martuccia, figli ed eredi della defunta Maria de Capua, consorte dell’ottimo Filippo Filangieri signore di Candida ... confermò quanto già disposto dall’avus noster dominus Robertus dei gratia Ierusalem et Sicilie Rex Illustris ..., avo nostro signore Roberto, per grazia di Dio illustre re di Gerusalemme e di Sicilia ..., e cioè il diritto ad ereditare Baronia ipsa Gisualdi cum feudatariis subfeudatariis Iuribus rationibus et pertinentiis suis aliis omnibus quam ipsa Martucia tunc habeat et nunc etiam habet et possidet ex successione quondam Roberte Gesualde ... la stessa baronia di Gesualdo con feudatari, subfeudatari, diritti sugli affari e tutte le altre sue pertinenze, che la stessa Martuccia allora aveva ed anche ora ha e possiede per successione della defunta Roberta Gesualdo ...

L’atto fu Datum neapoli per venerabilem patrem Rogerium Barensem Archiepiscopum anno domini M.CCC.XLV. die X decembris1.

redatto a Napoli dal venerabile arcivescovo padre Ruggero Barese nell’anno del Signore 1345, il giorno 10 dicembre. Ma ciò non fu sufficiente a tranquillizzare il signore di Candida, deciso a garantire ai propri figli l’eredità materna. Così, Filippus Filangerius Castri Candide dominus fidelis noster pater et administrator legitimus Cubelli Antonii et Riccardi Bartholomei Roberte Martucie filiorum et heredum suorum ac quondam Marie de Capua consortis sue ... Filippo Filangieri, nostro fedele signore del castello di Candida, padre e legittimo tutore di Cobello (Giacomo) Antonio, e di Riccardo, di Bartolomeo, di Roberta e di Martuccia, figli ed eredi suoi e della defunta Maria de Capua, sua consorte ...

chiese alla regina Giovanna, che ne ordinò l’esecuzione, che fosse trascritta nel regio archivio la sentenza emessa il 23 luglio 1303 da Andrea di Isernia e da Ansaldo Trara de Scala a favore di Roberta Gesualdo e dei suoi eredi2.

A distanza di due anni ormai non era stata ancora fatta luce sull’assassinio di Andrea d’Ungheria. La sua vedova, regina Giovanna I d’Angiò, su cui gravavano pesanti sospetti per il delitto, nel 1347 convolò a nuove nozze con Ludovico. Disperando ormai di poter avere giustizia, Luigi I, re d’Ungheria, fratello dell’assassinato Andrea, armò una spedizione punitiva e con essa invase la Campania, seminando ovunque terrore e distruzione.

Giovanna I e Ludovico furono costretti a riparare in Provenza. Qui la regina ottenne dal papa il riconoscimento ufficiale della sua estraneità al delitto e, l’anno successivo, cioè nel 1348, fece ritorno a Napoli, dopo però che re Luigi ne fu ripartito lasciandosi tuttavia alle spalle guarnigioni ungheresi e truppe mercenarie.

Riesplose in quell’anno la terribile peste nera. Quasi nel principio della primavera ... orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti ... Nascevano nel cominciamento d’essa a maschi ed alle femmine parimenti o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo ... e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti ... E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate ... Non perciò meno d’alcuna cosa risparmiò il circostante contado nel quale, per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti (campi coltivati) e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno3.

Le bande di soldati ungheresi e le schiere mercenarie, non rientrate al seguito di Luigi I d’Un-gheria, con le loro scorribande contribuivano a diffondere tale flagello per borghi e campagne.

Di fronte a tale calamità la gente nulla poteva se non rifugiarsi nella fede e sollecitare la pietà divina con oblazioni e donazioni. Ceri, elemosine, o anche più semplicemente prodotti in natura per il sostentamento del clero erano le offerte ricorrenti, ma non mancava chi, mosso da profonda devozione e forse privo di eredi, non esitava a far dono di ogni suo avere.

Il 31 agosto 1348 Tommaso Parisio di Paterno, con strumento redatto da Angelo Maggiore di Paterno, pubblico notaio, ed alla presenza di Benedetto de Guglielmo Rosa, giudice annuale di Paterno, donò al monastero di Montevergine, tramite il Padre Priore di San Quirico, la propria casa sita nel borgo di Paterno1.

Restava la Chiesa unico punto di riferimento per le popolazioni inermi in quei tempi di anarchia e di nefandezze, in cui i baroni non riconoscevano altra legge se non quella della forza, in cui truppe mercenarie si ponevano al soldo del maggiore offerente per sostenerne i soprusi, in cui feroci bande di briganti infestavano le strade godendo della protezione di questo o di quel signore.

Nell’anno 1352 lo stesso Filippo Filangieri, vedovo di Maria de Capua, accampando diritti sul feudo di San Barbato, nequam ductus nullum ad nostre maiestatis honorem respectum habens armatus armis prohibitis una cum quamplurium hominum vassallorum eius armatorum ac malandrinorum et exterorum eius ad ista complicium atque sequacium illicita comitiva cum armis etiam prohibitis guerram publice movens in Regno ad dictum Castrum sancti barbati accessit ... da nulla indotto ad onore ed a rispetto per la nostra maestà, avendo armato con armi proibite2 una certa quantità di suoi vassalli, di armigeri, di malandrini e di persone a lui estranee, complici e seguaci di questa illecita schiera, portando apertamente guerra nel regno anche con armi proibite, entrò nel detto castello di San Barbato ...

Il castello fu espugnato, devastato, saccheggiato ed alla fine dato alle fiamme3.

Filippo Filangieri aveva sposato in seconde nozze Ilaria d’Arena, figlia di Nicola, conte d’Arena4. Signora della baronia di Gesualdo, e quindi di Paterno, continuava ad essere Martuccia de Capua.

Costei, ormai in età avanzata e pensosa della salvezza della propria anima, con atto notarile che si conserva nell’abbazia di Cava dei Tirreni, volle confermare la donazione della chiesa di San Pietro fatta dai suoi avi: In nomine domini eterni Iesu Christi. Anno a nativitate ejusdem millesimo trecentesimo quinquagesimo quarto, regnantibus serenissimis dominis nostris Ludovico et Iohanna Dei gratia Ierusalem et Sicilie rege et Regina ... die nono mensis Iunii septime indictionis apud Castrum paterni nos Franciscus Angeli de Gayrolino ejusdem terre paterni annualis Iudex Thomasius Cyris Iacobus de Taurasia de Gesualdo puplicus ... notarius et infrascripti testes videlicet Nobilis Dominus Philippus dominus Baronie candide judex nicolaus de mirabella abbas Franciscus Archipresbyter paterni, domnus Pantaleonus de Montorii abbas Nicolaus de Benedicto abbas S. Magni ... Notum facimus et testamur quod accedentibus nobis ad presentiam magnifice domine domine Martuccie de Capua Baronie Gisualdi domine ad petitionem et mandatum presentis scripture ac ad petitionem predicti et honesti viri fratris Petri de insula Monachi Monasterii terre trinitatis Cavensis ordinis sancti Benedicti et prioris sancti Petri Casalis paterni grangie ... dicta domina ... dixit non vi, non dolo, non metu ducta sed sua libera et spontanea voluntate ... dominus Guillelmus de Gisualdo ... et dominus Elias de Gisualdo ... concesserunt et obtulerunt dicto Monasterio quod ad honorem sancte et individue Trinitatis constructum est in loco Mitiliano ... Ecclesiam que ad honorem Beati Petri apostoli constructa est in pertinentiis dicte terre paterni in dicto casali cum terris, vineis, olivetis, quercietis, pascuis, tenutis et cum uno molendino in flumine Caloris constructo cum isclis et arcatoriis aquis aquarumque decursibus et cum omnibus villanis habitantibus ibidem et habitaturis cum uxoribus videlicet liberis rebus et tenutis eorum quorum fines sunt hii videlicet qualiter incipit a terra que est in loco ubi dicitur Sanctus Martinus de cerreto et deinde vadit ad flumen dicti Caloris et dividitur cum terra montis martini et deinde vadit ad terram que dicitur puteum de Castello et abinde vadit per vallonem usque ad Boscum et confinit cum alio vallone qui dicitur Grarincia et deinde pergit usque ad flumen supradictum Caloris ... In nome dell’eterno Signore Gesù Cristo, nell’anno 1354 dalla Sua nascita, regnando i serenissimi nostri signori Ludovico e Giovanna, per grazia di Dio re e regina di Gerusalemme e di Sicilia ..., nel giorno nono del mese di giugno della settima indizione, presso il castello di Paterno, noi Francesco di Angelo de Gayrolino della stessa terra di Paterno, Tommaso di Ciro giudice annuale, Giacomo de Taurasi pubblico notaio di Gesualdo, e i testi indicati nobile signore Filippo, signore della baronia di Candida, giudice Nicola di Mirabella, abate Francesco arciprete di Paterno, abate signor Pantaleone di Montoro, Nicola di Benedetto abate di San Mango ... facciamo noto ed attestiamo che a noi convenuti alla presenza della magnifica signora donna Martuccia de Capua, signora della baronia di Gesualdo, a richiesta e mandato della presente scrittura ed a richiesta del predetto onest’uomo fra’ Pietro, monaco del monastero della chiesa della Trinità di Cava dell’ordine di San Benedetto, e del priore di San Pietro della grangia di Casale di Paterno ... detta signora (Martuccia de Capua) ... affermò non con la forza, non con l’inganno, non indotta da timore ma per sua libera e spontanea volontà, ... che il signore Guglielmo di Gesualdo ... ed il signore Elia di Gesualdo suo figlio ... concessero e cedettero a detto monastero, che in onore della Santa ed Indivisibile Trinità è costruito in località Mitiliano, ... la chiesa che in onore del Beato Apostolo Pietro è costruita nelle pertinenze di detta terra di Paterno, nel detto Casale, con terreni, vigne, oliveti, querceti, pascoli, tenute e con un mulino sul fiume Calore costruito con canali ed arcate di immissione nonché con scarichi delle acque, e con tutti i villici abitanti in quel luogo, e con coloro che vi abiteranno, con le mogli e naturalmente con i figli, con i loro oggetti ed i terreni loro affidati, i cui confini sono qui specificati: ad iniziare dal terreno che è in località detta San Martino di Cerreto e di là va al fiume detto Calore , costeggia la terra di Monte Martino e si estende fino alla terra che è detta Pozzo di Castello, prosegue quindi per il vallone fino a Bosco, confina con altro vallone detto Graringia, e di là continua fino al suddetto fiume Calore ... Il documento prosegue, con la prolissità del formulario allora in uso, confermando la donazione a nome di Martuccia e di tutti i suoi successori nel feudo, e stabilendo altresì, per chi fosse venuto meno a questa sua volontà, una penale di auri unciarum centum de Karolenis argenti sexaginta per unciam computatis. cento once d’oro, da calcolarsi in sessanta carlini d’argento per oncia.

Un mulino sul Calore, una prima volta nel mese di maggio 1142, era stato donato da Guglielmo al monastero di Montevergine, unitamente alla chiesa di San Quirico.

Successivamente, nel luglio del 1145, Guglielmo ed Elia avevano ceduto al monastero di Cava la chiesa di San Pietro con i terreni ed un mulino sul Calore, e di ciò Martuccia de Capua aveva fatto trascrivere conferma, tralasciando tuttavia di evidenziare come il mulino fosse in disuso da tempo.

Nell’agosto del 1158 poi, Elia, nel donare al monastero di Santa Maria dell’Incoronata di Puglia le chiese di Santa Maria, poi detta a Canna, e di San Damiano, entrambe in territorio di Paterno, aveva concesso allo stesso un mulino sul Calore, con esclusione delle case di proprietà delle chiese di San Quirico e di San Pietro, dovendosi intendere per “case” non abitazioni ad uso civile, bensì impianti di macina con annessi magazzini e stalle.

Alfine, l’8 febbraio del 1228, il monastero dell’Incoronata di Puglia, per un debito non onorato, era stato espropriato della chiesa di Santa Maria che, insieme col mulino sul Calore di cui era proprietaria, era stata assegnata a titolo di risarcimento all’abbazia di Montevergine.

Dunque, pur se unico era stato il complesso di raccolta e di convogliamento delle acque costituito da canali, sia interrati che pensili, facenti capo alla diga sul fiume, o palata, come è chiamata nell’atto di prima concessione, quella cioè fatta all’abbazia di Montevergine in uno con la chiesa di San Quirico, gli impianti di macina con proprie vasche di deposito e canali di scolo erano, o per lo meno erano stati, tre: rispettivamente di proprietà di Montevergine, della Trinità di Cava e dell’Inco-ronata di Puglia che lo aveva ottenuto, e quindi perso, unitamente alla chiesa di Santa Maria.

In definitiva, nell’anno 1354, la chiesa di San Pietro, e quindi il monastero di Cava, non possedeva che il rudere di un mulino, mentre la vasta area su cui si era sviluppata la struttura restava di proprietà dell’abbazia di Montevergine, prima destinataria del complesso.

Deceduta Martuccia ed ereditato il feudo di Paterno dal nipote Giacomo Antonio Cobello Filangieri, il padre di lui, Filippo, in qualità di procuratore, in data 31 ottobre 1365, operò uno scambio con l’abbazia di Montevergine. A detto monastero cedette una vigna con olivi sita in località Campomarino nel casale di Montevergine, una casa in Nocera ed un appezzamento arbustivo in contrada San Biagio della stessa città, ed in cambio ricevette locum unum seu sedium positum in Casali Paterni, quod fuit alias molendinum juxta molendinum Monasterii Sancti guillelmi de gulieto, iuxta molendinum monasterii Cavensis iuxta flumen Caloris et alios confines, ut dixerunt cum aquis aquarumque decursibus, et longum tempus est annorum quinquaginta et plus, quod dictum molendinum fuit destructum, et sedium ipsum fuit et est vacuum dirutum et plenum ac totaliter complanatum, ita quod nulla remanserunt nec apparent vestigia molendini ...1

un luogo o sito ubicato nel Casale di Paterno, che un tempo fu mulino, vicino al mulino del monastero di San Guglielmo del Goleto (il riferimento è al mulino di proprietà del monastero di Santa Maria, poi detta a Canna), vicino al mulino del monastero di Cava (il riferimento è al mulino di proprietà del monastero di San Pietro), presso il fiume Calore ed altri confini, che dissero (essere fatto) con canali di affluenza e di scarico delle acque, ed è lungo tempo, da cinquanta anni e più, che detto mulino fu distrutto, e lo stesso luogo fu ed è vuoto, diruto, ricolmo e completamente spianato, sicché nulla rimase né appaiono i resti del mulino ...

Con la cessione del mulino si fece irreversibile la fase di declino del priorato di San Quirico iniziata da oltre cinquant’anni. Uno per volta, negli anni che seguirono, i possedimenti fondiari in territorio di Paterno furono quasi tutti dati in fitto dagli abati di Montevergine i quali, tuttavia, continuarono a riservarsi il diritto di inviare l’uno o l’altro monaco per l’ufficiatura della chiesa e la riscossione delle rendite2.

Quanto alla chiesa di San Damiano non ebbe mai un seppur minimo sviluppo. Di nessun interesse per il monastero di Santa Maria dell’Incoronata di Puglia che la possedeva, sopravvisse come luogo di culto al servizio di una esigua comunità rurale.

Il 15 febbraio del 1372 morì Filippo Filangieri, la cui salma fu tumulata nella chiesa degli Agostiniani di Candida3. Erede della baronia di Gesualdo, e quindi del feudo di Paterno, era suo figlio Giacomo Antonio Cobello Filangieri che aveva sposato la nobildonna Giovanna Minutolo.


2 Manfredi Palumbo: I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Gina Fasoli: La vita quotidiana nel medioevo italiano, in Nuove questioni di storia medioevale - Milano 1964.

3 Inguanez, Mattei, Cerasoli, Sella: Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV - Campania - Città del Vaticano 1942.

4 Inguanez, Mattei, Cerasoli, Sella: Rationes decimarum italiae nei secoli XIII e XIV - Campania - Città del Vaticano 1942.

1 Registri angioini.

2 Registri angioini.

3 Inguanez, Mattei, Cerasoli, Sella: Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV - Campania - Città del Vaticano 1942.

4 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

5 Registri angioini.

1 Registri angioini.

2 Registri angioini.

1 Registri angioini.

2 Registri angioini.

3 Espressione di devozione della regina Giovanna, presente e garante dell’atto. In effetti l’ex regina Sancia, a cui l’espressione è riferita, era moglie di re Roberto d’Angiò, nonno della regina Giovanna.

4 Registri Angioini.

5 Registri angioini.

1 Registri angioini.

2 Registri angioini.

3 Giovanni Boccaccio: Il Decameron - Giornata prima, Introduzione.

1 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. IV - Roma 1956.

2 Il riferimento è alle armi da fuoco che trovavano il loro primo impiego. Sono indicate come “proibite” in quanto il loro uso era vietato dal codice d’onore della cavalleria.

3 Registri angioini.

4 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

1 Archivio di Montevergine - Pergamena n. 175, vol. 115.

2 Placido Mario Tropeano: Codice Diplomatico Verginiano, Vol. III - Montevergine 1979.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

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