Diritto alla Storia, La Romanizzazione

Diritto alla Storia - Capitolo 3

Non si era ancora dato inizio a quel tratto della regina viarum che avrebbe dovuto congiungere Capua a Benevento quando, nel 282 a.C., Taranto, minacciata di guerra da parte di Roma, chiese a propria difesa l’intervento di Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania. Questi accorse ed il primo scontro si ebbe nel 280 ad Eraclea, ove l’Epirota conseguì il suo primo successo anche grazie all’impiego di elefanti e della cavalleria tessalica. Quindi mosse alla volta di Roma attraverso la Campania ma, non essendosi verificata l’insurrezione dei Sanniti su cui aveva fidato, l’accanita resistenza dei Latini ed il sopraggiungere dell’inverno lo indussero a far ritorno a Taranto.

I due eserciti si scontrarono di nuovo, nel 279 a.C., ad Ascoli Satriano, con ingenti perdite da ambo le parti. In lunghe trattative si cercarono allora, ma inutilmente, i termini di un accordo.

Nel 277 a.C. Pirro sbarcò in Sicilia, in difesa di alcune città minacciate dai Cartaginesi, quindi risalì la penisola raggiungendo l’Irpinia dove, però, fu definitivamente vinto, nel 275 a.C., dall’esercito romano al comando di Marco Curio Dentato.

Plutarco, nella sua biografia di Pirro, scrive che fu sconfitto presso Benevento. Sextus Iulius Frontinus2 riferisce che la battaglia avvenne in Arusinis prope Beneventum. Florus Lucius Annaeus3 prima e Orosio Paolo4 poi indicano il luogo della battaglia in Arusinis, ai confini della Lucania.

Ma a quale odierna località corrispondesse l’antica Arusinis nessuno ha potuto stabilirlo con certezza. Alcuni storici, accettando per buona la collocazione lucana dello scontro, in Arusinis hanno inteso identificare il termine Acherusini, abitanti cioè di Acerenza, cittadina a ridosso delle valli dei fiumi Bradano e Fiumarella; altri invece, imputando ai trascrittori amanuensi dell’antico testo del Frontino l’omissione della lettera “T”, hanno inteso completare Arusinis in Tarusinis, per identificare quindi nei Campi Taurasini il luogo in cui il re dell’Epiro fu sconfitto.

Ma di questi ipotetici Campi Taurasini null’altro si sa se non l’accenno ad una presumibilmente sannitica Taurasia in un’epigrafe funebre. Nel 1782, sulla via Appia in Roma, fra i resti dell’imponente sepolcro degli Scipioni, famiglia patrizia romana della gens Cornelia che rivestì un ruolo di preminenza nella vita politica del III e II secolo a.C., fu rinvenuto il sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato, oggi conservato al Museo Vaticano. Sul fronte di esso è scolpita la seguente iscrizione: CORNELIUS LUCIUS SCIPIO BARBATUS GNAIUOD PATRE \ PROGNATUS FORTIS VIR SAPIENSQUE QUOIUS FORMA VIRTUTEI PARISUMA \ FUIT CONSOL CENSOR AIDILIS QUEI FUIT APUD VOS TAURASIA CISAUNA \ SAMNIO CEPIT SUBIGIT OMNE LOUCANA OBSIDESQUE ABDOVCIT1 .

Nulla si sa di Cisauna se non che molti studiosi di storia irpina, animati più da spirito campanilistico che dall’obiettività che la materia imporrebbe, manipolando il termine ed asservendolo ai propri intenti, affannosamente si sono provati a collocarla nella propria terra natale.

Quanto invece all’antica Taurasia, nessuno ha esitato ad identificarla nell’odierna Taurasi in provincia di Avellino, dilatandone a dismisura il territorio per adattarlo alle esigenze delle vicende storiche.

Dice Jannacchini: Il Della Vecchia, dissertando intorno a questi “campi”, ebbe il ticchio di sostenere ad ogni costo, che si fossero estesi da Taurasia verso le sorgenti dell’Ofanto fino a Lioni. Il Sena d’altronde l’immaginò nel suo Montemarano2 . Il Ferri scrive: Fu nel territorio di Taurasia che Pirro subì quella sanguinosa sconfitta, a tutti nota ...3 ; e ancora: La battaglia ebbe inizio e fine in quella vasta pianura del Calore che giace ai piedi dei monti circostanti all’attuale abitato diTaurasi4. A sostegno delle proprie affermazioni, il Ferri cita il Romanelli laddove sostiene che La piana ove avvenne la battaglia si trova alla diritta ed alla sinistra del fiume Calore, in quella parte in cui oggi si vede il piccolo oppido di Taurasi, che ne ritiene l’antico nome.

Ma il Romanelli non ai piedi di Taurasi suppose il campo di battaglia, bensì fra l’attuale Venticano ed Apice. Tuttavia, a parte le recenti disquisizioni, in nessun altro documento, antecedente o posteriore all’epigrafe di Scipione Barbato, si fa cenno a Taurasia.

Senza voler nulla togliere ai meriti di storici e studiosi, si fa dunque rilevare che Taurasia non dovesse essere un centro militare o politico di rilievo se gli storiografi del tempo ne hanno taciuto, né la città doveva essere tanto importante se all’artefice della sua capitolazione, peraltro presunto conquistatore di Cisauna, del Sannio e della Lucania tutta, non furono mai tributati gli onori del trionfo. Di conseguenza, i Campi Taurasini non potevano avere la supposta estensione né potettero quindi essere teatro dell’ultima decisiva battaglia che decretò la sconfitta di Pirro.

Di contro, volendo ammettere che Taurasia avesse avuto giurisdizione su di un’area che comprenderebbe oggi oltre venti comuni, tanto vasta da ospitare in seguito ben oltre quarantamila famiglie di deportati Liguri, apparirebbe quanto meno strano il ricorso all’espressione prope Beneventum per indicarne l’ubicazione.

Tutto ciò induce a riflettere: o la Taurasia di Scipione Barbato non ha nulla a che vedere con i Campi Taurasini, e quindi potrebbe essere l’odierna Taurasi; oppure Taurasia e i Campi Taurasini costituirono un’unica entità e quindi non possono, entrambi, trovare ragionevole collocazione in questa parte d’Irpinia.

Dovette trascorrere ancora oltre mezzo secolo perché l’Irpinia fosse nuovamente coinvolta in un cruento conflitto. Con l’assedio di Sagunto, città alleata dei Romani, da parte di Annibale Barca, si ruppe il patto di non belligeranza fra Roma e Cartagine. Espugnata Sagunto, nel 218 a.C. Annibale mosse verso l’Italia con un esercito di 27.000 uomini e 27 elefanti e, varcate le Alpi, sconfisse le forze romane prima sul Ticino e poi sul Trebbia. L’anno successivo superò l’Appennino e in questo fu aiutato dai Liguri Apuani5, acerrimi nemici di Roma, che in ottomila posero le proprie armi al servizio del Cartaginese.

Riportata una nuova vittoria sul Trasimeno, fu nel 216 a.C. che Annibale inflisse, a Canne, una dura sconfitta all’esercito romano.

L’evento esaltò gli Irpini e riaccese in loro il desiderio mai sopito di vendetta e di riscatto. Così ne tratteggia l’Onorato le aspirazioni non scevre da rancore ed odio profondo nei confronti del potente invasore romano: ... gli Irpini fieri della propria indipendenza contrastarono per lungo tempo, insieme ai Pentri ed ai Caudini, il possesso della regione al dominio espansionistico di Roma nella sua direttiva verso le zone dell’Italia meridionale. L’episodio del gran sacerdote Ovio Paccio e della “legio linteata”1 radunata intorno ad Aquilonia (la sannitica Akudunnia a noi nota anche dai coni monetali) testimonia dell’innato senso di libertà ed indipendenza degli Hirpini italici. Ed ancora dopo la deduzione di una colonia latina a Benevento nel 268 a.C., restò vivo e pulsante fra le popolazioni irpine il desiderio e l’anelito di libertà. Esso venne ad esplodere con violenza dopo la disfatta romana a Canne nel 216 a.C. allorquando da Compsa, per istigazione di Stazio Trebio, capo del partito antiromano, la rivolta si estese a tutta l’Irpinia che offrì facile e sicuro accesso all’esercito del Cartaginese trionfante2.

Quindi Annibale, dopo la battaglia di Canne, risalendo il corso dell’Ofanto, puntò sulla colonia romana di Conza la cui capitolazione gli venne offerta da Stazio, e qui stabilì un proprio presidio, affidandone il comando a suo fratello Magone.

Da Conza Annibale risalì l’Irpinia dove fu accolto con favore; tuttavia, ad eccezione delle città di Capua, Siracusa e Taranto, le popolazioni italiche, contrariamente alle aspettative, non si sollevarono contro Roma.

I Romani, con Fabio Massimo, adottarono la tattica della resistenza passiva evitando gli scontri frontali ed il condottiero cartaginese, ormai provato dalla lunga campagna di guerra, incapace di arginare le azioni di guerriglia che il nemico portava ora in territorio sannitico, ora irpino, ora campano, pose i suoi accampamenti presso Capua.

I rinforzi partiti dalla Spagna al comando del fratello Asdrubale vennero intercettati e dispersi sul Metauro nel 207 a.C. e Cartagine, non più in condizione di sostenere gli enormi costi di una spedizione che tuttora si rivelava dagli esiti incerti, richiamò Annibale in patria.

Roma organizzò allora un esercito che, al comando di Quinto Fabio, irruppe nel Sannio e riconquistò le terre caudine, riversandosi quindi in Irpinia. Ogni residua resistenza fu travolta. Fra le altre, fu saccheggiata e rasa al suolo l’antica Paternopoli, la sannitica Bovianum in località Serra, e furono dispersi i suoi abitanti e ridotti in cattività gli uomini idonei alle armi. Sul suo territorio fu insediato un presidio militare per il controllo dei passi delle valli del Fredane e del Calore. Conza fu espugnata.

La vendetta dei Romani fu terribile e ovunque seminarono distruzione e morte per punire gli Irpini del sostegno offerto al Cartaginese. Bande di soldataglia imperversarono per le nostre contrade, compiendo incursioni, assaltando villaggi, depredando, stuprando, massacrando, seguite e incoraggiate da mercanti rapaci, pronti ad acquistare i bottini per trarne lucro sui fiorenti mercati di Roma.

La popolazione civile fu costretta a cercare rifugio in luoghi inaccessibili e sicuri, quali monti e boscaglie, ma tante furono le vittime della rappresaglia che l’intera regione risultò irrimediabilmente spopolata, al punto che Quinto Flaminio, come testimonia Plutarco, fu mandato a Conza con nuovi coloni dietro richiesta degli stessi conzani.

A tal proposito Giuseppe de Jorio, nello scrivere di Paternopoli, così esordisce: ... fu oppido molto antico. Il suo territorio era compreso nella “Pertica Eclanense”, giusta il chiarissimo abate Guarini, e senza dubbio venne occupato colle campagne della vetusta Taurasia dai vinti Liguri-Apuani, che con 45.000 famiglie furono obbligati dai consoli Tamfilo e Publio a popolare le contrade che si estendono nelle vicinanze di Taurasia1.

Ma chi erano i Liguri Apuani? Quella cerchia di monti che si estende dal colle di Cadibona alle

sorgenti della Macra, con una stretta zona di terra serrata altronde del mare Ligustico, era anticamente abitata da una progenie di forti dell’antica schiatta italica, cioè i Liguri2.

Fieri oppositori dei Romani, nel 193 a.C. i Liguri avevano teso un agguato a Bebio Tamfilo, che con la propria truppa ne attraversava il territorio, uccidendolo, sicché, tre anni più tardi, i consoli Flaminio ed Emilio Lepido avevano effettuato contro di loro una spedizione punitiva, soggiogando i Friniati ed i Briniati, ma non gli Apuani che avevano cercato scampo fra le gole dei monti.

Nel 189 a.C. gli indomiti Liguri Apuani avevano teso una nuova imboscata all’esercito di Q. Marzio Filippo, trucidando quattromila cavalieri romani, ed il console Sempronio Tuditano era accorso per fare vendetta, bruciandone i villaggi e devastandone le campagne.

Solo nel 185 a.C. i consoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tamfilo erano riusciti a conseguire una completa vittoria sugli Apuani, facendo oltre dodicimila prigionieri; ma certi di non poter ridurre alla ragione questo popolo fiero, avevano chiesto ed ottenuto dal Senato un decreto che ne autorizzasse la deportazione in massa.

Tito Livio ce ne fa conoscere la destinazione: Vi era nei Sanniti un pubblico campo del popolo romano, che era stato un tempo dei Taurasini; in questo, volendo trasportare i Liguri Apuani, fecero un editto: che i Liguri avessero dovuto venire giù dal monte Anido con le mogli ed i figli, e portare con sé tutto quanto loro apparteneva.

Quarantamila famiglie furono deportate via mare a spese dell’erario romano, su cui l’operazione gravò per oltre 150.000 sesterzi per la compra di ciò che era loro necessario nella nuova terra, come riferisce Tito Livio.

Quattro anni più tardi, il proconsole Flacco prelevò dalle loro terre ancora settemila Apuani che sbarcò a Napoli perché fossero ricongiunti a quelli precedentemente deportati.

Da Plinio sappiamo che questi Liguri furono divisi in due distinti insediamenti che presero il nome, rispettivamente, di Corneliani e di Bebiani, dai consoli che ne avevano richiesto ed organizzato la deportazione.

Ma in quale regione furono trapiantati? Tito Livio ci dice nei Campi Taurasini, ma se questi, come sostenuto, ricadevano sotto la competenza giurisdizionale dell’odierna Taurasi, quanto estesi dovevano essere per accogliere oltre duecentomila immigrati?

Sostiene Jannacchini: Questi Liguri furono menati nell’Irpinia dagli stessi consoli che li vinsero3, e conclude che una parte almeno di essi fu insediata nei pressi di Taurasi.

Le opinioni degli studiosi circa l’ubicazione dei Campi Taurasini non si discostano da quelle già espresse in merito alla localizzazione della zona in cui Pirro aveva subito la sua definitiva sconfitta. Così il Guarino vuole i Corneliani nei pressi di Venticano dove fu rinvenuto un anello di delimitazione con la scritta FORTIS. COR. / CETHEGI, e afferma che l’area assegnata ai Bebiani si estendeva fin presso Circello, a nord di Benevento. Il Sena, dal ritrovamento in Montemarano di una moneta in bronzo con la scritta Q. BEBIO TAMFILO, deduce che i Bebiani fossero stati trasferiti in quelle zone. Il Della Vecchia argomenta che, essendo stato Pirro sconfitto nei Campi di Taurasi compresi fra la Lucania e Benevento, questi sono da individuare nel territorio di Nusco dove è stata rinvenuta una lapide che reca inciso il nome di Pirro. E il Ferri: I campi taurasini assegnati ai Liguri, occupavano tutta la riva destra e sinistra del medio Calore, a partire dalla regione del Cubante fino a quella di Torella dei Lombardi, sul versante opposto1 .

Il Nazzaro però, considerando l’enorme massa di gente deportata, così riflette: L’attuale centro abitato di Taurasi è circondato da quelli di Lapio, San Mango, Luogosano, Sant’Angelo all’Esca, Fontanarosa, Mirabella, Eclano, Calore, Venticano, Pietradefusi, Torre le Nocelle, Montemiletto e Montefalcione i cui territori messi insieme, pur essendo in maggioranza produttivi, non avrebbero potuto sfamare che una parte delle famiglie deportate la cui unica risorsa era quella agricola e della pastorizia. La configurazione stessa della zona fa opinare che i Romani sapendo di dover soddisfare i bisogni di tante bocche prescelsero il terreno più fertile, suddividendolo in lotti, approssimativamente compreso nel triangolo con ai vertici Benevento, Conza e l’antica Avellino2.

Sembra questa la voce più assennata fra le tante, ma non tiene conto che i Campi Taurasini dovevano essere una zona ben definita, un ager publicus come riferisce Tito Livio, e non la sì vasta regione supposta che comunque non avrebbe potuto trarre la propria denominazione dal modesto centro rurale quale dovette essere quello di Taurasi.

Non è azzardato supporre che più d’una fossero le terre dette Taurasine. Ovunque nel Sannio, nell’antica Campania e in Irpinia ci sono paesi e località che derivano la loro denominazione da Taurus, il che può dar luogo ad interpretazioni errate, e talvolta di comodo. Già volendo prendere in esame questa sola limitata porzione d’Irpinia, oltre ai nomi dei comuni di Taurasi e di Torella dei Lombardi, quelli delle già citate contrade di Torone presso Luogosano, Torano in agro di Fontanarosa, Toriello a ridosso di Poppano, Tuoro dei Martini in Castelvetere sul Calore e Tuoro in Paternopoli costituiscono il retaggio della colonizzazione sabina ed indicano che al Toro Sacro che aveva guidato la massiccia migrazione furono indistintamente intitolati quasi tutti i nuovi insediamenti. Inoltre Benevento, già nel V secolo a.C., coniava una propria moneta con la testa di Apollo o di Ninfa sul recto, ma invariabilmente con l’immagine di un toro sul verso.

Strafforello, scorrendo la lista pliniana delle città, cita per l’Irpinia Beneventum, Aeclanum, Abellinum, Compsa, Aquilonia, Romulea, Trivium, Equus Tuticus, Murgantia, e così conclude. Nella valle del Tamaro, affluente del Calore, a nord del territorio di Benevento, stavano i “Ligures Bebiani et Corneliani”, colonia di Liguri trapiantati, nel 180 a.C., in quelle alpestri regioni e che continuò ad esistere qual comunità separata sino ai tempi di Plinio3.

E proprio nella valle del torrente Tammarecchia, affluente del Tammaro, presso Circello, furono rinvenuti i resti di un oppido e varie iscrizioni che testimoniano la presenza di Liguri Bebiani in quelle località. La campagna di scavo, ripresa nel 1831, riportò alla luce, fra altro, una tavola di rame larga due metri e lunga circa un metro e venticinque, dello spessore di centimetri tre. Questa, detta Tavola Alimentaria4, reca elencati fondi ed immobili offerti in garanzia da Liguri Bebiani in cambio di prestiti, nonché beni acquistati con pagamenti rateizzati a tasso agevolato. Vi si citano i centri in cui gli immobili erano ubicati, tutti compresi nella vasta regione delimitata dal corso del Tammaro a nord di Benevento, il che conferma quanto indicato da Plinio.

Ben poco si conosce dei Liguri Corneliani. Una lapide che li riguarda fu scoperta presso Alife, altre, riferite alla tribù Velina, si sono rinvenute presso San Bartolomeo in Galdo, a nord del fiume Tammaro. Comunque è questa la regione, probabilmente consacrata al Taurus sabino, a cui Tito Livio fa riferimento quando annota la deportazione di Liguri Apuani nei Campi Taurasini.

Quali genti furono dunque addotte nelle contrade irpine? E’ opportuno sottolineare che qui non si trattava di deportare un popolo ostile da relegare in una regione inospitale, ma piuttosto di assegnare in premio terre feconde a chi aveva acquisito meriti nel difendere gli interessi di Roma, e nel contempo di garantire una presenza fidata in aree che ad ogni occasione si erano schierate coi nemici di essa.

Dalle lapidi rinvenute nell’Abellinate e nel Conzano si può affermare che i coloni ivi trasferiti facessero parte della tribù Galeria, originari dell’omonima regione del Lazio a nord-ovest di Roma, attraversata dal torrente che parimenti ne porta il nome.

In Eclano, invece, dalle numerose iscrizioni ritrovate, si può affermare che furono insediati coloni della gens Cornelia, la più potente e la più numerosa delle genti patrizie dell’antica Roma, che era suddivisa in molte famiglie fra cui i Lentuli, i Cethegi, i Maluginenses e, la più illustre fra tutte, gli Scipioni. Trova così giustificazione pure l’anello di delimitazione, rinvenuto presso Venticano, che fa riferimento ai Corneliani Cethegi.

Genti Corneliane, e non dunque Liguri Corneliani, furono insediate nei territori di Eclano che, ragionevolmente, oltre Venticano, comprendevano, in tutto o in parte, le terre di pertinenza delle odierne Taurasi, Luogosano, Sant’Angelo all’Esca, Fontanarosa e Grottaminarda. Essendo Paternopoli compresa nella pertica eclanense, è probabile che pure sul suo territorio furono introdotti coloni della gens Cornelia, anche se non sono da escludere genti di provenienza diversa, soprattutto in fase di ridistribuzione delle terre fra i veterani delle innumerevoli guerre.

Le terre confiscate dai Romani, comunque mai in misura superiore ad un terzo del territorio occupato in modo da garantire agli indigeni terreno agricolo e da pascolo in quantità sufficiente alle loro esigenze, venivano a costituire l’ager publicus, che non era da considerare terreno demaniale, bensì patrimonio del popolo romano, e come tale poteva essere ceduto sia individualmente per assegnazione viritana, sia per iscrizione ad una società appositamente costituita allo scopo di fondare una colonia.

Prima di insediare i nuovi destinatari, commissari che oggi potremmo definire governativi delimitavano il territorio da distribuire e definivano le aree da adibire a pascolo comune o a bosco. Il terreno impiegato per i lotti da assegnare ai coloni era suddiviso in “centuriae”, una operazione che si iniziava, come sembra suggerire Polibio, già prima che i coloni arrivassero sul posto. Teoricamente una “centuria” era un quadrato di 200 “iugera” (= circa 50 ettari); ciascun lato del quadrato era lungo 20 “actus” (= circa 708 metri) e limitato da sentieri (limites) chiamati “decumani” (se andavano da est ad ovest) o “kardines”(se da nord a sud)1.

L’appezzamento assegnato a ciascun colono poteva avere misure variabili da zona a zona. A Vibo ne furono concessi di quindici iugera2 ciascuno, mentre a Bologna e ad Aquilea di cinquanta. Comunque di superficie maggiore erano gli appezzamenti distribuiti nelle colonie rispetto a quelli dati in assegnazione viritana.

Ultimate le operazioni di suddivisione, i coloni assegnatari, preceduti da un vexillum, venivano tradotti in massa verso il luogo di destinazione, con le rispettive famiglie ed i carri carichi di suppellettili e di provviste, portando nelle nuove terre la lingua di Roma, qui destinata a soppiantare quella osca.

L’area prescelta nell’agro paternese per accogliere i nuovi coloni fu quella che appare oggi suddivisa nelle contrade Casale, San Pietro, Salici, Piano del Bosco, Pescarella, Boane, Serra, Sant’Andrea, Cerreto, e che allora era definita come unica entità territoriale rispondente al nome di Bovianum. Già una guarnigione romana vi soggiornava stabilmente a sovrintendere l’estrazione di pozzolana e la produzione di mattoni. La popolazione indigena, drasticamente ridotta nel numero per effetto della repressione patita per il sostegno concesso ad Annibale, frammentata in sparuti gruppi per lo più organizzati in clan familiari, era stata emarginata in precari insediamenti destinati a costituire il nucleo di altrettanti vici1. Non restava traccia, in quanto raso al suolo, dell’antico pago2 sannitico in località Serra-Neviera, un tempo delimitato da mura e fortificato, come d’uso, con terrapieno e palizzate di legno.

L’ultima occasione che ebbero gli Irpini di prendere le armi contro Roma fu nel corso della guerra sociale, nell’anno 90 a.C., ma avendo Silla, l’anno successivo, riconquistato Eclano, questi cessarono ogni resistenza e si dichiararono sottomessi. Fu così che, in quello stesso 89 a.C., su proposta di Plauzio Silvano Marco e Gaio Papirio Carbone, fu adottata con plebiscito la Lex Plautia Papiria che, estendendo i benefici previsti dalla Lex Julia dell’anno precedente, concedeva a più numerosi gruppi di quegli Italici che avessero rinunciato alla ribellione la possibilità di ottenere la cittadinanza romana.

Nell’anno 89 a.C. l’Irpinia, finalmente pacificata, entrò definitivamente nell’orbita politica di Roma, e per gli Hirpini, ormai cittadini romani, iniziò un lungo periodo di crescente benessere destinato a raggiungere il suo culmine nei primi secoli dell’Impero.


2 Politico e scrittore romano (30 - 101 d.C.), fu autore di due opere: De Aquis urbis Romae, sugli acquedotti di Roma, e Stratagemata, sulle astuzie tattiche di antichi condottieri.

3 Storico latino vissuto fra il I ed il II secolo d.C., compose, sotto Traiano, una storia di Roma che ci è stata tramandata nei manoscritti sotto il titolo di Epitome de Tito Livio.

4 Storico e teologo latino vissuto fra il IV ed il V secolo d.C.

1 Il Prof. Scamuzzi, in Rivista Classica, fasc. III, Torino 1957, così traduce: Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo valoroso e saggio, del quale l’aspetto fisico fu in tutto pari al valore, che fu tra voi edile, console, censore, conquistò Taurasia, Cisauna, il Sannio, sottomise tutta la Lucania e ne trasse ostaggi.

2 Angelo Michele Jannacchini: Topografia Storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

3 Antonio Ferri: Taurasi e i Campi Taurasini - Napoli 1963.

4 Antonio Ferri: Taurasi, rassegna geologica, storica, economica - 1980.

5 Popolo di ceppo ligure, insediato nella regione compresa tra i fiumi Serchio e Magra, nella zona montuosa delle Alpi Apuane.

1 Nel corso della terza guerra sannitica, nel tentativo di opporre un ultimo strenuo baluardo all’avanzata romana, con un editto si ingiunse ai giovani in grado di portare armi di convergere nei campi di Aquilonia. Accorsero in quarantamila. Fu recintato un campo quadrato di duecento piedi di lato e tutto ricoperto di teli bianchi. Nel mezzo del campo fu eretto un altare al dio Marte e presso questo il sacerdote chiamava i convenuti a giurare di morire piuttosto che arrendersi al nemico. Chi esitava nel prestare il giuramento veniva sgozzato sul posto. Fra questi in sedicimila furono selezionati a costituire truppe scelte, vestite di bianco e dotate di elmi piumati.

2 Giovanni Oscar Onorato: I centri archeologici, in Tuttitalia-Campania, Vol. II - Milano 1962.

1 Giuseppe de Jorio: Cenni Statistici, Geografici e Storici intorno al comune di Paternopoli - Milano 1969.

2 Angelo Michele Jannacchini: Topografia Storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

3 Angelo Michele Jannacchini: Topografia Storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

1 Antonio Ferri: Taurasi ed i Campi Taurasini - Napoli 1963.

2 A. M. Nazzaro: Chiusano nella Storia - Avellino 1986.

3 Gustavo Strafforello colla collaborazione di altri distinti scrittori: La Patria - Geografia dell’Italia - A.D. 1898.

4 Tale nome le fu attribuito in quanto gli interessi pagati sui prestiti ricevuti erano devoluti per il sostentamento dei bambini poveri di Roma. L’istituto era stato introdotto, nel I secolo d.C., da Traiano, che a tale scopo aveva fatto accantonare un’ingente somma di danaro.

1 E. T. Salmon: La fondazione delle colonie latine, in Vicum -Sett.\Dic. 1987.

2 Lo iugerum, pari ad un quarto di ettaro, traeva la propria denominazione da iugum (giogo), in quanto designava la superficie di terreno che una coppia di buoi era in grado di arare in una giornata di lavoro.

1 Agglomerati urbani di modesta entità. Vicum per i Latini fu un gruppo di case e viculus un piccolo borgo.

2 Agglomerato fortificato a cui era demandata l’amministrazione dei vici. I Romani definirono pago il distretto rurale, un centro etnico e territoriale con a capo un magister, un praefectus o un curator. Dalla quasi totalità degli antichi pagi si sono evoluti gli attuali centri urbani.

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