Diritto alla Storia, Verso la fine del primo millennio

Diritto alla Storia - Capitolo 7

Fallita, nell’852, la spedizione di Ludovico II contro i Saraceni in Puglia, nell’853 Adelchi, terzogenito di Radelchi, incoronato principe di Benevento, con l’aiuto di forze salernitane tentò l’assalto alla città di Bari, roccaforte degli infedeli; ma, costretto alla rotta, non potette impedire che i Saraceni si riversassero nelle terre del principato compiendovi massacri e saccheggi. A capo delle orde che imperversarono nel Sannio e in Irpinia per più di un decennio fu il sultano di Bari Mofareg-ibn-Salem. Di lui tra le popolazioni esterrefatte correvano strane voci che furono raccolte dall’Ignoto cassinese, monaco di quel tempo. Si narrava, ad esempio, che ogni giorno facesse sgozzare 500 uomini e si deliziasse di banchettare con sacri calici d’oro fra i cadaveri palpitanti1.

Invocatone da più parti l’intervento, Ludovico II preparò una nuova agguerrita spedizione e nell’866 discese nell’Italia meridionale, preoccupandosi innanzitutto di consolidare la propria autorità presso i duchi ed i due principi longobardi.

Fu nell’867 che Ludovico II mosse l’attacco ai Saraceni asserragliati in Bari, ma siccome l’assedio si preannunciava lungo, e non essendogli pervenuti dalla Francia i richiesti rinforzi, si ritirò in Benevento, ospite di Adelchi.

Nell’870, riorganizzato l’esercito, sferrò l’attacco decisivo contro Bari, riportando una completa vittoria. Il sultano Mofareg-ibn-Salem si dette prigioniero ad Adelchi ed i Saraceni in rotta trovarono rifugio in Napoli.

Ludovico II si ritirò in Benevento ove prese ad ordire la trama politico-militare che avrebbe dovuto assicurargli il completo dominio su tutta l’Italia meridionale, ma Adelchi ne intuì i disegni e lo fece imprigionare, anche se un mese più tardi, spaventato del proprio ardire e temendo la vendetta dei Franchi, gli restituì la libertà.

I Saraceni non si lasciarono sfuggire l’occasione loro offerta dalla frattura del fronte franco-longobardo e, nell’871, di nuovo invasero i principati longobardi, devastando, saccheggiando e ponendo alfine l’assedio alle città di Salerno e di Benevento.

Ludovico II ancora una volta, nell’872, discese al Sud ed inflisse dure perdite ai Saraceni per subito dopo assediare Benevento allo scopo di vendicarsi dell’offesa subita da Adelchi; ma la determinazione e il coraggio dei Longobardi lo indussero a desistere.

Morto Ludovico II nell’875, gli successe Carlo II, detto il Calvo, il quale rinunciò a consolidare il proprio potere sul Mezzogiorno d’Italia, pur fornendo sostegno al papa Giovanni VIII nella lotta contro i Saraceni che avevano ripreso le loro scorrerie in queste regioni. Purtroppo però le ambizioni del papa contribuirono ad aumentare la confusione in un’alternanza di alleanze e di tradimenti in cui gli infedeli, ben lungi dall’esserne ostacolati, erano incoraggiati a compiere atti di brigantaggio, trovando presso le diverse fazioni in lotta protezione e rifugi sicuri.

Nelle scorribande musulmane più volte il territorio di Paternopoli, particolarmente esposto per la sua posizione di confine, ebbe a patire incursioni e saccheggi. Le campagne furono nuovamente abbandonate e la popolazione inerme, terrorizzata, affamata, ridotta ormai a pochi sparuti gruppi di miserabili individui, trovò precario rifugio presso le chiese.

All’indebolimento del potere centrale faceva riscontro una sempre crescente autonomia delle signorie locali, attente esclusivamente ai propri personali e più immediati interessi. Gastaldi e conti in antico erano agenti del Principe, che esercitavano in tale qualità le loro attribuzioni militari, di polizia e di giustizia; ma fra il IX e il X secolo la maggior parte di essi erano diventati dei signori indipendenti che riconoscevano solo in modo assai vago l’autorità dei loro Principi1.

In questo clima di confusione, il territorio di Paternopoli, invero spopolato ed inselvatichito, appariva frammentato e soggetto a diverse e non ben definite autorità, in prevalenza ecclesiastiche. Paterno restava tuttora di proprietà di San Vincenzo al Volturno. In nome e per conto del monastero, l’amministrazione di quella che era stata la sala di Giovanni Marepahis era affidata ad un arimanno la cui dimora, una modesta costruzione a piano terra realizzata in legno e muratura, in parte adibita a dispensa ed a granaio, sorgeva sul luogo dell’antico romitaggio all’interno di una palizzata. Annessi all’abitazione erano la macina, il frantoio, il forno in mattoni per la cottura del pane e la stalla, tutti compresi in angusti locali dalle pareti di assi e dai tetti di paglia. Ovunque, negli spazi aperti, razzolavano anatre e polli.

Un poco discosta dalla casa padronale era la dimora per la servitù costituita dal precario assemblaggio di ambienti monofamiliari lastricati di ciottoli, divisi da sconnesse pareti di assi, protetti da tetti di paglia, utilizzati altresì come botteghe artigianali in cui si realizzavano attrezzi di legno, cesti di canne o di vimini, vasellame in argilla e, all’occorrenza, vi si lavorava il ferro o si eseguiva la riparazione delle pentole di rame.

Alle donne, a qualsiasi ceto sociale appartenessero, era affidato il compito di filare la lana o la canapa, di tessere stoffe, di confezionare vestiti.

Del tutto assenti erano le suppellettili dal momento che, a quel tempo, le stesse residenze imperiali ne erano dotate per lo stretto indispensabile. In un documento dal titolo Brevium exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales dell’anno 810 è descritto quanto contenuto in una delle ville dell’imperatore Carlo Magno: Abbiamo trovato nella proprietà imperiale di Asnapio una sala regale ottimamente costruita in pietra, tre camere, tutta la casa circondata da ballatoi, con undici camere da lavoro; nell’interno una dispensa ... e le altre dependances bene ordinate; una stalla, una cucina, un forno, due granai, tre scuderie. La corte era cinta da una robusta palizzata ... Biancheria da casa: un completo di biancheria per il letto, un tappeto per tavola, una tovaglia. Utensili: due bacili di rame, due boccali, due caldaie di rame ed una di ferro, una padella, una catena da camino, un alare, due trivelle, un candeliere, due scuri, un’ascia per tagliare la pietra, uno scalpello, una pialla grande ed una piccola, due falci, due falcetti, due badili con la pala di ferro. Utensili di legno sufficienti per i lavori1 .

A ridosso della palizzata, esterno al cortile, si era sviluppato il villaggio contadino: una manciata di capanne di rami cementati con paglia e fango che racchiudeva al suo interno i recinti per i maiali e le pecore, tutti di proprietà del signore a cui essi stessi erano asserviti in un rapporto di totale dipendenza.

Poco discosta si ergeva la chiesetta in muratura e col tetto di embrici, disadorna al suo interno ed angusta in quanto esigua era la comunità.

In questo, come in altri simili villaggi sommariamente fortificati, si veniva gradatamente introducendo quel tipo di economia curtense, sul modello carolingio, destinato a rendere ogni singola comunità del tutto autosufficiente. Per tale sistema economico ogni vico, ogni villaggio, ogni corte, in quell’universale disgregarsi della vita locale, si procurava da sé i mezzi dell’esistenza, era cioè un centro autonomo di produzione e di consumo, in cui gli operai e gli artigiani si dividevano le loro occupazioni e uffici (ministeria, cioè mestieri), ma tutti legati alla corte, in una condizione di vera dipendenza servile2 .

Il villaggio fortificato di Paterno, secondo le consuetudini del tempo, consolidò la propria denominazione di corte, nome non riscontrabile nella toponomastica ma destinato a sopravvivere fino ai nostri giorni nella tradizione orale. Infatti la memoria dell’antica corte rimane nella popolare definizione della zona a nord di essa, oggi via Nazario Sauro, comunemente conosciuta come Arreto Corte, cioè alle spalle della corte.

Sul modello della corte, le comunità monastiche di San Pietro, di San Quirico e di Santa Maria poi detta a Canna si dettero l’assetto di condome. Alle chiesette furono affiancate le pur modeste abitazioni per i monaci ed entro una spazio limitato e protetto da palizzate vennero ad essere compresi magazzini, stalle e botteghe artigianali. Il monastero viene così a configurarsi sul modello della “curtis”, con la sede centrale ove dimora il grosso della comunità e le celle3 periferiche che assicurano lo sfruttamento e la bonifica di possedimenti sempre più estesi e lontani. Casali, frantoi, mulini, mercati e industrie ruotano, secondo la propria funzione, intorno alla vita dei monasteri che assicurano quindi il sostentamento di intere popolazioni4 .

Uno dei primi nuclei periferici impegnato nel recupero di terre da coltivare fu costituito a nord-ovest di San Pietro, assumendo la generica denominazione di Casale che rimarrà nella toponomastica a sua odierna identificazione. Numerose furono poi le celle fondate in tempi diversi, di cui permane memoria nelle attuali denominazioni di contrade quali San Felice, San Nicola, Sant’Andrea.

La curtis, oppido o condoma che fosse, comprendeva la parte padronale, lavorata dai servi per conto del signore o della comunità monastica, e la parte tributaria, suddivisa in mansi, concessa a contadini in cambio di tributi in natura. Non mancavano, tuttavia, piccole proprietà private, non soggette cioè a vincoli, dette allodiali, per lo più relegate ai margini del territorio.

Tuttavia sarebbe errato ritenere rapida e immune da soluzioni di continuità l’evoluzione del villaggio in un organizzato ed autonomo sistema economico. Al contrario questo processo di trasformazione si manterrà a lungo allo stato embrionale, risulterà lento e, negli anni difficili del IX e X secolo, nonché in quelli della prima metà dell’XI, segnati da saccheggi, pestilenze e carestie, sarà caratterizzato da un’alternanza di progressi e di regressi che rendono impossibile tracciare un quadro economico-sociale ben definito.

Nell’876 i Bizantini approdarono sulle coste calabre, con lo scopo dichiarato di combattere i Saraceni ma con la recondita intenzione di estendere il proprio dominio sull’intero meridione d’Italia. Contro di loro mosse guerra il principe di Benevento Adelchi che però, nella primavera dell’878, cadde vittima di una congiura.

Per la successione, al primogenito Radelchi fu preferito il nipote Gaiderisio, ma già nell’880 Radelchi vide riconosciuti i propri diritti. Fu breve però il suo principato perché, dopo soli tre anni, una sommossa popolare portò al trono suo fratello Aione che nell’888 fu costretto a sottomettersi a Bisanzio.

Aione morì nell’890 e, proclamato principe il figlio Orso di soli dieci anni, Benevento capitolò, nell’891, per l’attacco di forze bizantine che vi insediarono un proprio governo.

Ma poco durò il dominio greco in quanto i Longobardi, coalizzatisi, nell’894 riconquistarono il principato, che però rimase sotto l’influenza spoletina.

Nell’anno 900 era principe di Benevento Radelchi II che mal controllava la turbolenta aristocrazia, sicché i Bizantini ripresero a brigare per riaverne il possesso; ma una congiura depose Radelchi e portò sul trono Atenolfo di Capua, fervido assertore dell’indipendenza dei Longobardi meridionali.

Con Atenolfo ebbe inizio un nuovo periodo di stabilità politica, seppure caratterizzato dalla recrudescenza della interminabile guerra contro i Saraceni. Alla sua morte, avvenuta nell’agosto del 910, cinse la corona di principe di Capua e di Benevento il figlio Landolfo.

In quello stesso anno Alliku, capo dei Saraceni del Garigliano, spinse le sue scorrerie nelle contrade irpine. Frigento, Taurasi ed Avellino ne furono devastate. Non scamparono gli isolati abituri in territorio di Paternopoli alla ferocia di incontrollate frange di soldataglia.

Alliku ebbe a patire una dura sconfitta nel 915 ad opera di forze coalizzate bizantine e longobarde, ma negli anni successivi bande saracene e slave continuarono ad imperversare in Irpinia.

Landolfo morì nell’anno 943 e gli successe il figlio Landolfo II che, nell’anno 944, associò al trono il proprio figlio Pandolfo, detto Capo-di-Ferro. Tensioni e guerre caratterizzarono il lungo periodo del loro principato finchè, morto Landolfo II nel 961, Capo-di-Ferro chiese ed ottenne la protezione di Ottone I che, mosso dall’ambizioso progetto di ricostituire il Sacro Romano Impero, aveva volto la propria attenzione verso l’Italia meridionale bizantina.

Nel 967 Ottone I si portò in Benevento, ospite di Capo-di-Ferro, per trattare la sottomissione dei Bizantini da formalizzarsi col matrimonio di suo figlio Ottone II con la principessa greca Teofane. Non essendosi trovato un accordo, l’anno successivo l’imperatore sassone tornò nel sud d’Italia con minacce di guerra.

Fu in questa occasione, in Data pridie Kalendas Julias, Anno Dominicae Incarnationis DCCCCLXVIII che (noi) Ottone I, Divina favente clementia Imperator Augustus ... pro Dei amore, animarumque nostrarum remedio, per hoc nostrae confirmationis Praeceptum, pro ut justè, et legaliter possumus, confirmamus, ac penitus corroboramus in praefato Coenobio Christi Martyris Vicentii omnia Praecepta Praedecessorum nostrorum Imperatorum, et Regum, ... Mortula, Paterno, Sanctus Martinus, qui dicitur caput de Plomba ... il giorno precedente il primo luglio, nell’anno dell’incarnazione del Signore 968, noi Ottone I, per clemenza divina Augusto Imperatore, ... per amore di Dio e la salvezza della nostra anima, con questo nostro atto di conferma, perché giusto e in quanto legalmente possiamo, confermiamo al predetto Cenobio del Martire di Cristo Vincenzo (cioè al monastero di San Vincenzo al Volturno), tutti gli atti degli imperatori nostri predecessori, e dei re, ... specificatamente le donazioni di Mortula, Paterno, San Martino, che è detto testa di piombo ...

L’Actum, redatto in Monte, ubi Stabulo Regis dicitur, reca il sigillo dell’anello impresso con mano propria dall’imperatore (anulo nostro manibus propriis), seguito dal Signum Domni Ottonis Invictissimi Imperatoris1.

In quello stesso anno 968 l’esercito tedesco e le truppe al comando di Capo-di-Ferro irruppero in Puglia, infliggendo gravi perdite ai Bizantini; ma, richiamato in patria Ottone I dai doveri che l’amministrazione dell’impero gli imponeva, Capo-di-Ferro, rimasto solo ad assediare Bovino, fu travolto e fatto prigioniero.

I Bizantini risalirono l’Ofanto e quindi, percorrendo l’antica strada romana che si snodava lungo le valli del Calore e del Sabato, raggiunsero e conquistarono Avellino per spingersi, alfine, a porre l’assedio a Capua. Il territorio di Paternopoli venne a trovarsi dunque sul cammino dell’esercito greco. E’ da supporre che i suoi insediamenti, sebbene sottoposti a razzie per l’approvvigiona-mento della truppa, non ne venissero devastati; comunque questo evento dovette certamente segnare l’ennesima battuta d’arresto sulla via della già difficile ripresa economica.

Nel 970 Ottone I ridiscese in Italia con un agguerrito esercito per riconquistare le terre perdute e i Bizantini, messi alle strette, acconsentirono finalmente al matrimonio di Ottone II con la principessa Teofane. Capo-di-Ferro, riottenuta la libertà, su richiesta dei sostenitori dell’unità longobarda, accorse nel salernitano dilaniato da lotte intestine e nel 974 conquistò la città con le armi, ripristinando l’antico principato di Benevento e Salerno.

Capo-di-Ferro morì nel marzo del 981. Lasciava sei figli. Di essi, Landolfo IV ebbe Capua e Benevento, ma quest’ultima, con un colpo di mano e con il beneplacito forse dell’imperatore Ottone II, gli fu sottratta dal rivale Pandolfo, figlio di Landolfo III.

In quell’anno 891 Ottone II era a Roma, sottoposto a pressioni perché assoggettasse definitivamente i territori bizantini nel meridione della penisola. Il pretesto per un intervento militare nell’area era offerto dalla necessità di neutralizzare le bande di Saraceni che dalla Puglia minacciavano i possedimenti longobardi.

La spedizione imperiale mosse nel gennaio del 982 e non senza difficoltà riuscì ad espugnare Taranto, ma a metà luglio Ottone II fu sconfitto dalle forze musulmane e dovette riparare a Salerno.

Seguì uno stato di generale confusione, caratterizzato da lotte locali alla ricerca di nuovi equilibri. Ottone II, risalito al nord, vi morì nel dicembre del 983.

Salito al trono Ottone III, sotto reggenza in quanto minorenne, il mezzogiorno d’Italia fu lasciato a lacerarsi nelle secolari dispute fra Longobardi e Bizantini in cui trovarono spazio le oscure trame del papato. Di tale confusa situazione approfittarono i Saraceni per intensificare le loro scorrerie, spesso incoraggiati se non addirittura sostenuti dalle avverse fazioni in lotta. Nel 990, poi, un violentissimo terremoto devastò l’Irpinia e il Sannio. Ne furono gravemente colpite Benevento, Ariano e Frigento, ed addirittura Conza ne fu distrutta1. Ragionevolmente non mancò il sisma di esplicare i suoi effetti devastanti sul territorio di Paternopoli.

Intanto i legami fra i principi longobardi e l’Impero si erano sempre più allentati, sicché Ottone III avvertì la necessità di riaffermare la propria autorità su di essi e a questo scopo inviò Ademaro a ristabilire a Capua l’ordine sconvolto nel 993 da una congiura.

Nel 999 Ademaro pacificò Capua, ma già l’anno successivo il partito antitedesco ebbe il sopravvento e lo espulse, ponendo la corona sul capo di Landolfo di S. Agata, fratello di Pandolfo II, principe di Benevento. Fu questo il segnale che dette l’avvio ad una aperta rivolta. I sentimenti antitedeschi esplosero ovunque con violenza, ed anche Pandolfo II si ribellò all’imperatore.

Irritato e deciso a ristabilire la propria autorità, Ottone III, nell’anno 1001, discese contro Benevento e vi pose l’assedio. La città oppose un’accanita resistenza sicché alle truppe tedesche non rimase che sfogare la propria impotenza sui possedimenti del principato.

Fu questo l’ultimo atto di guerra dell’imperatore sassone. Afferma Giuseppe De Jorio che morì in Paterno ... Ottone III, detto il meraviglioso, giusta la testimonianza del celebre Matteo Egizio, che nella sua serie degli imperatori romani, nell’anno 1002 scrive così: Muore l’imperatore Ottone in Paterno, terra del ducato di Benevento1. Al riguardo Jannacchini non assume una propria posizione, limitandosi a riferire che: Romualdo Salernitano e Leone Ostiense sostengono che l’imperatore Ottone andando da Todi a Roma lunghesso la via infermossi e morì in Paterno presso Civita Castellana. Il Pagi fu di parere che morì in Paterno sul lago di Fucino; Cosimo Della Rena in Paterno di Perugia, mentre Matteo Egizio ed il Pratillo han voluto sostenere che si morì nel nostro Paterno2 .

Dove si concluse dunque la breve esistenza del giovane imperatore? Le fonti storiche sono laconiche, e se ne indicano il luogo non specificano in quale parte d’Italia esso fosse.

Raoul Manselli sostiene che, essendosi concluse positivamente le trattative per il suo matrimonio con una principessa bizantina, da Aquisgrana l’imperatore si mosse alla volta di Roma, quando già in vista della città eterna, lo colpì la morte, a Paterno, non lontano dal monte Soratte, il 23 gennaio del 10023.

La congettura appare poco realistica. E’ ingenuo sostenere che un imperatore che aveva avuto l’ambizione di estendere i confini del proprio impero fino alla Sicilia, armato un poderoso esercito e posto l’assedio alla città di Benevento, se ne fosse poi tornato sui propri passi dopo le prime inconcludenti scaramucce, ammettendo la propria impotenza e coprendosi di ridicolo, oltre che di fronte all’Europa tutta, presso il suo stesso popolo. Ma anche se così fosse stato, appare poco credibile che, reduce da una campagna condotta sul finire dell’anno 1001 contro Benevento, Ottone III avesse avuto il tempo di risalire al nord, di condurre trattative, che si sanno laboriose, per un suo presunto matrimonio, e di essere quindi ripartito alla volta del sud già nel gennaio del 1002. Avrebbe dovuto cioè, nell’arco di un mese o poco più, riorganizzare il proprio esercito appena disciolto per non esporsi al pericolo di attentati o congiure da parte del diffuso partito antitedesco, consolidare alleanze e concedere benefici per ottenere garanzie al suo passaggio, affrontare alfine i rigori dell’inverno che oltretutto rendevano impraticabili le strade, abbandonate e prive di manutenzione per l’assenza di una unicità politica al governo del territorio.

Ad opera di un gruppo di studiosi inglesi sappiamo che il 24 gennaio 1002 Ottone III venne stroncato a Paterno da un attacco di vaiolo. Aveva solo 22 anni. Aveva espresso il desiderio di venir sepolto nella capitale carolingia e i suoi uomini, dopo essersi aperta una strada contro i Romani ostili, riuscirono a trasportare il suo cadavere ad Aquisgrana, dove venne sepolto al centro del coro della chiesa di Santa Maria4 .

Orbene, quali resistenze romane avrebbero potuto incontrare i Tedeschi se il loro imperatore fosse morto a nord di Roma?

Più ragionevolmente, Roberto Cessi lascia intendere che la campagna beneventana non si fosse conclusa nell’anno 1001: Mentre i ducati latino-longobardi si sbizzarriscono nelle intestine congiure, promosse dalle ambizioni e dagli interessi delle clientele locali, e si governano in funzione di tali esigenze sfuggendo a qualunque influenza dei due imperi (sterile era riuscita la passeggiata fino a Benevento di Ottone III nel 1001-1002), le terre bizantine erano tormentate all’esterno dalle incursioni saracene e all’interno da una dissimulata ostilità antibizantina5.

Dunque, per questo studioso, e come logica vorrebbe, nel 1002 Ottone III era ancora nel beneventano. Ci è noto però che l’accanita resistenza opposta dalla città di Benevento aveva indotto l’imperatore a sfogare la propria impotenza sulla popolazione inerme, il che aveva comportato la penetrazione tedesca nel cuore dell’Irpinia. Ebbene, se si considera che la prassi militare, per le obiettive difficoltà di azione, imponeva la sospensione delle attività belliche durante il periodo invernale, e che le truppe fossero solite dislocare i propri accampamenti in luoghi ove i rigori dell’inverno risultassero stemperati dalla mitezza del clima e nel contempo offrissero sufficienti garanzie di sicurezza consentendo un’ampia visione del territorio circostante, non si può escludere che Ottone III, nell’inverno a cavallo degli anni 1001-1002, soggiornasse nella Paterno irpina, ivi realizzandosi pienamente tutte le condizioni richieste.

Fu dunque in questo Paterno che Ottone III morì in quel lontano 23 o 24 gennaio dell’anno 1002? Nessun dubbio ebbero gli eruditi del posto che, nel secolo scorso, attribuirono alle lettere “P.” ed “O.” presenti nello stemma del borgo il significato di “Perit Octo”.


1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 Gianna Bonis Cuaz: Ai tempi dei castelli feudali - Torino 1967.

2 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

3 Chiesa o oratorio intorno a cui raccogliere una comunità.

4 Gregorio Penco: Il monachesimo in Italia, in Nuove questioni di storia medioevale - Milano 1964.

1 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.

1 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

1 Giuseppe De Jorio: Cenni statistici, geografici e storici intorno al comune di Paternopoli - Milano 1869.

2 Angelo Michele Jannacchini: Topografia storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

3 Raoul Manselli: L’Europa medioevale, Tomo I - Torino 1979.

4 Z. N. Brooke ed altri: Storia del mondo medievale , Vol. IV - 1979.

5 Roberto Cessi: Bisanzio e l’Italia nel medioevo, in Nuove questioni di storia medievale - Milano 1964.

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