Le Fiabe - La Ciola

Quando la madre annunciò loro che, per la settima volta, era in attesa, spe­rarono ardentemente che nascesse una femmina. Erano sei maschi, più il pa­dre, e tutti lavoravano di buona lena la terra, ma a sera, al ritorno dai campi, non sempre la cena era in tavola. So­vente, poi, o non erano state ritirate dal calzolaio le scarpe portate a risuo­lare, o non erano state rammendate le calze che lasciavano a nudo i calcagni anneriti dalle zolle, e quasi mai le ca­micie erano lavate e stirate. Quanti incontri galanti sfumati, quante occa­sioni perdute, non potendosi mostra­re in giro come zotici o straccioni! No, quella povera donna, da sola, proprio non ce la faceva ad accudire sette ma­schi, e serpeggiava il malcontento che spesso sfociava in furiosi litigi.

Ma ora che la madre era di nuovo in attesa, la speranza di una femmina che, seppure col tempo, avrebbe po­tuto dare una mano, stemperava i dissapori. Tanta era la fiducia che tutti loro riponevano nella divina provvi­denza, che pian piano il desiderio fini col mutarsi in certezza.

Passarono i mesi e già l'evento incom­beva. Ora, ogni mattina, prima di la­sciare la casa, i giovani non trascurava­no di raccomandare alla madre: "Se succede oggi, metti fuori dell'uscio una scopa e una gerla, così, già da lontano, noi potremo capire".

"Non fatevi troppe illusioni", ammo­niva la madre, cercando di spegnerne i facili entusiasmi. "Potrebbe anche essere un altro maschio".

"In quel caso metti fuori una zappa ed un paio di stivali", le dicevano i ragazzi e, fatti i più svariati scongiuri, partiva­no per il podere.

Accadde di pomeriggio inoltrato. La bambina era rosea e paffuta, un vero amore! Dall'orto vicino, dove era in­tenta ad irrigare i pomodori, la comare accorse ai primi vagiti, portandosi die­tro la zappa che, insieme con gli stivali infangati, lasciò fuori dell'uscio prima di entrare. Nell'eccitazione, nel tram­busto, la puerpera dimenticò di di­sporre per i figli il segnale convenuto. Al tramonto, come sempre vociando, spintonandosi, ridendo, eppure tesi, pervasi da un'insolita trepidazione, i giovani rientravano. In vista della casa si fecero attenti, d'un tratto silenziosi e seri. Procedendo piano, non tardarono a scorgere gli stivali e la zappa lasciati dall'ignara comare. Fu come una gelida doccia, una frustata che lacerò le carni. Si immobilizzarono, incupiti, inabissati nell'amarezza, prostrati dalla delusione. Poi un sordo risentimento emerse dal silenzio interiore, colmò gli animi: si sentirono traditi, dal destino, dalla loro stessa madre.

Fu il primo dei fratelli a scuotersi, a riaversi in una reazione di rabbia. Si tolse il cappello e lo scaraventò in terra, calpestandolo. "A casa non ci torno", disse.

"Giusto!" gli fecero eco gli altri; "neanch'io!" e, disorientati, muti, si allontanarono, senza una meta, verso un ignoto destino.

Lisetta, fu questo il nome imposto alla bimba, crebbe in quella casa vuota, circondata, come nessun'altra, dall'affetto e dalle cure dei genitori. Ad undici anni era una donnina saggia ed accorta, proprio come l'avrebbero voluta i fratelli. Di loro non sapeva molto, in quanto la madre non ne parlava volentieri. Le rare volte in cui lei gliene aveva chiesto notizie, aveva ottenuto solo risposte evasive, se non addirittura silenzi colmi di angoscia.

In quel mattino di primavera il sole si era levato in un cielo limpido ed il tepore dell'aria invitava ad uscire. Lisetta era felice. La madre le aveva fatto indossare il vestito nuovo e, per renderla più civettuola, aveva confezionato un fiocco di nastro rosso chele aveva appuntato fra i capelli.

"Visto che vai fuori", le disse, "potresti arrivare fino al fosso a buttare 1'immondízia?"

La bambina assenti. L'impegno non le avrebbe preso troppo tempo e dopo sarebbe stata libera di incontrare le amiche. Prese il secchio dei rifiuti e con esso attraversò lo spiazzo che fungeva da aia. Fu a questo punto che una ciola[1], attratta dal colore del fiocco, si abbassò in volo e, afferratolo col becco, glielo portò via dal capo.

Lisetta, indispettita, lasciò cadere il secchio e rincorse il volatile, decisa a recuperare l'ornamento di cui si sentiva tanto fiera. Svolazzando, il grosso uccello si allontanò per i campi. Lei, mordendosi le labbra per impedirsi di piangere, lo seguì, illusa dalle frequenti soste che esso si concedeva.

Guadarono un torrente. Risalirono una collina per poi discenderne il versante opposto. Lisetta non desisteva, procedendo con cautela, pronta a ghermirla, quando la cornacchia si posava; rincorrendola fino ad averne il fiato mozzo non appena si levava in volo. Intestardita, non si rendeva conto del trascorrere del tempo. Si inoltrarono in un bosco.

Già calava il sole all'orizzonte, quando la bambina vide la cornacchia introdursi, attraverso un'angusta apertura circolare, nel sottotetto di una casa che sorgeva al margine di una piccola radura. Contenta di essere giunta al termine del lungo inseguimento, bussò con discrezione alla porta. Questa, pur sotto la lieve pressione dei colpi, si dischiuse, ma dall'interno nessuno rispose.

"C'è qualcuno?" interrogò allora con voce trepida.

Non ebbe risposta. Spinse piano l'uscio e, in punta di piedi, trattenendo il respiro, si addentrò in casa fino alla scala di legno che, attraverso un'apertura praticata nel soffitto, conduceva al sottotetto. Vi si arrampicò, cauta, trasalendo ad ogni scricchiolio delle vecchie assi.

Sopra, l'ambiente era vasto ed ingombro. Vi stagnava un gradevole profumo di frutta lasciata a maturare. Da un angolo buio e protetto la cornacchia, spaventata, volò via lasciando nel nido di sterpi il fiocco rosso che lei si affrettò a recuperare. Era esausta, spossata, ma soddisfatta. Pensò di concedersi qualche minuto di riposo. Invitante, sul pavimento di tavole, un mucchietto di paglia: vi si distese. Aveva fame e non esitò a mangiare qualche mela, dopo di che, vinta dalla fatica, si assopi. Fu destata da un rumore di stoviglie. Con prudenza, carponi, scivolò fin presso la botola. Si affacciò. Un giovane era intento a disporre sul tavolo piatti e posate. Il fuoco era stato acceso nel camino e le fiamme lambivano una grossa pentola annerita, sospesa alla catena. Fuori annottava. Lei ebbe paura. Si ritrasse, piano, e si rannicchiò in silenzio sul giaciglio di paglia. Non trascorse molto tempo chela stanza, di sotto, si animò di voci e rumori. Nuovamente la curiosità la indusse a spiare. Altri cinque giovani erano sopraggiunti e, tutti, sedevano intorno alla tavola. Si erano serviti di abbondanti porzioni che mangiavano con voracità.

"Domani tocca a Peppino", disse qualcuno.

"Zuppa di ceci", preannunciò quello che doveva essere Peppino.

Gli fece eco un corale mugugno di disappunto che una voce, intono scherzoso, tradusse in commento: "Peppi', la tua zuppa di ceci fa schifo solo a pensarci! "

"Zuppa di ceci ho detto e zuppa di ceci sarà!" tagliò corto Peppino.

Andarono presto a letto ed anche Lisetta si addormentò. Quando la mattina fu sveglia, il silenzio regnava nella casa. Timidamente si sporse a guardare. La stanza era vuota. Nella tinozza una pila di piatti da lavare. Ovunque disordine e sporcizia.

Sebbene convinta di essere sola, discese la scala procurando di non far rumore. Aveva fame. Frugò nella credenza e vi trovò del pane rappreso che mangiò con appetito, poi, quasi a voler ripagare i giovani della seppure inconsapevole ospitalità, lavò le stoviglie, rassettò la stanza, cercò la farina ed impastò due grosse pagnotte che lasciò a lievitare; quindi usci per il bosco alla ricerca di finocchietto selvatico e di altre piante aromatiche. Al ritorno infornò il pane, accese il fuoco nel camino e preparò una gustosa zuppa di ceci, insaporita con erbe e lardo tritato, come sua madre era solita fare. Quando, nel pomeriggio, Peppino rincasò, avverti un appetitoso profumo di vivande mescolarsi agli odori del bosco. Una volta dentro, poi, il suo stupore crebbe difronte alla tavola imbandita. Si sforzò di capire, ma tutti i suoi interrogativi rimasero senza risposta.

Quella sera i fratelli mangiarono di gusto, tanto da complimentarsi col cuoco che, in atteggiamento compiaciuto e schivo, preferì tacere sull'accaduto.

Al momento di andare a dormire, qualcuno si informò: "E tu, Luca, che ci prepari domani?"

"È venerdì, lo hai forse dimenticato? Si mangia di magro: perciò verdura e focaccia di mais", fu la risposta.

Il giorno successivo, Lisetta trascurò i vizzi prodotti dell'orticello per selezionare gustose verdure selvatiche, e per Luca, che pure tacque, fu un insolito successo.

Si andò avanti così, per cinque giorni, finché venne il turno del più giovane dei fratelli. "Ce la metterò tutta, domani", questi promise; "ma non vi aspettate granché. Non sempre gli gnocchi riescono".

"Siamo rassegnati, Dona'! Lo sappiamo che non fai differenza fra gnocchi e colla", gli fu obiettato, e la battuta fu accolta con una risata generale.

Puntuale, Lisetta preparò gli gnocchi ed anche una catasta di frittelle che cosparse di miele. Ma Donato si sentiva a disagio; gli pareva disonesto attribuirsi meriti che non gli spettavano. A pranzo ultimato, imbarazzato dai complimenti, cedette al bisogno di confessare.

"Non è me che dovete ringraziare", disse. "Qualcuno ha fatto il lavoro al mio posto, ma non so chi sia".

Un silenzio colpevole, niente affatto sorpreso, più laquace di qualsiasi esplicita ammissione, accolse le sue parole. "Non è che pure a voi... ! " indagò, severo, Donato.

Controvoglia, con cenni e borbottii, gli altri dovettero confermare il sospetto.

"Ebbene, deve esserci qualche estraneo in casa", egli arguì, d'un tratto inquieto.

Si misero alla ricerca, frugando in ogni angolo, finché uno di loro non si arrampicò fin sul sottotetto. "È qui, venite", chiamò, scoprendo Lisetta, impaurita, rannicchíata in penombra.

Accorsero tutti; la circondarono, premurosi e gentili. "Chi sei?" le chiesero. "Come ti chiami?"

"Lisetta", rispose con un fil di voce la bambina, tremante.

"Non temere. Nessuno ti farà del male", la rassicurarono.

La fecero scendere di sotto ed ancora la interrogarono. Lei raccontò del fiocco rosso, che mostrò estraendolo dalla tasca, della cornacchia, della propria testardaggine che l'aveva indotta ad un lungo inseguimento, fino a smarrire la via del ritorno.

"Certo, sei finita lontana!" convennero. "Il villaggio più vicino è a diverse ore di cammino".

"È strano però che dopo tanti giorni nessuno l'abbia cercata!" considerò Luca.

"I miei genitori sono anziani", spiegò lei. "Avevo dei fratelli: loro sì che mi avrebbero cercata, ma andarono via da casa tanti anni fa".

Tacquero, assorti, turbati. Un dubbio sottile si insinuava nell'agitazione che aggrediva i loro pensieri.

"Quanti erano i tuoi fratelli?" domandò, trepido, Peppino.

"Sei, mi disse un giorno la mamma". Un sospiro profondo, liberatorio, li scosse. "Si chiama Lisetta, come la nonna", ricordò qualcuno.

"È nostra sorella", affermò, convinto, Donato.

Fu gioia e commozione. Trascorsero l'intera notte, seduti intorno al tavolo, travolti dalla nostalgia e dai ricordi, a parlare dei genitori, del paese, dei tanti conoscenti. Qualcuno era morto, quasi tutte le ragazze che loro conoscevano s'erano sposate, una nuova generazione stava crescendo.

Era l'alba quando si misero in cammino verso casa. Dal ramo su cui era appollaiata, la ciola gracchiò. La guardarono: sembrava felice, soddisfatta, quasi non avesse agito per istinto, ma per un arcano disegno, o forse soltanto per liberare da una scomoda presenza umana la propria dimora.



[1]Cornacchia.

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