Diritto alla Storia - Capitolo 20
Nicolò Ludovisio, principe di Piombino e di Venosa, morì il 24 dicembre 1664 nella città di Cagliari ove risiedeva, essendo stato nominato viceré di Sardegna2. Ne ereditava i diritti feudali il figlio Giovan Battista.
L’anno successivo morì re Filippo IV e gli succedette sul trono di Spagna il figlio Carlo II di appena quattro anni.
Due anni più tardi, nel Liber 9 informationum releviorum provinciarum Principatus Ultra et Capitanatae ab anno 1650 ad 1668 (Libro 9 delle registrazioni dei relievi delle province di Principato Ultra e di Capitanata dall’anno 1650 al 1668), fu trascritta L’informatione del relevio dell’Illustre Giovan Battista Ludovisio per morte di Nicolò suo padre Principe di Venosa per l’intrate feudali di Patierno presa nell’anno 1667.
Ma era ormai un feudo spoglio ed improduttivo quello di Paterno, a cui il nuovo signore non si sentiva legato da vincoli affettivi, né dall’orgoglio che ne aveva determinato l’acquisto da parte del defunto genitore. L’economia dell’università era allo sfascio, il suolo inselvatichito vanificava i pur generosi sforzi di rilancio dell’agricoltura e, con la scomparsa dei vecchi maestri, era andato perduto il patrimonio di esperienze che ne aveva reso apprezzato l’artigianato.
Nel 1669 i commissari governativi furono incaricati di rilevare i fuochi per le nuove imposizioni fiscali, e dalle cifre emerse evidente l’enormità della tragedia. Paterno, al pari di altre terre attraversate da importanti vie di transito e per questo maggiormente esposte al contagio, risultò fra le più colpite dal morbo. Infatti la sua popolazione, che nel 1595 era stata censita per 309 fuochi ed appariva proiettata verso una costante crescita, già drasticamente ridotta a 200 fuochi nel 1648 per la paralisi dei commerci determinata dall’eruzione del Vesuvio, all’indagine si rivelò composta di sole 69 famiglie.
In eguale proporzione risultarono colpite Castelvetere, passata a 39 fuochi dai 138 del 1648, Luogosano, che da 93 era calata a 38, Montemarano, ridotta da 120 a sole 43 famiglie, e Villamaina, scesa da 60 a 21.
Altre terre, invece, erano riuscite a contenere le perdite grazie ad una posizione marginale rispetto alle principali arterie del Regno, come Castelfranci che risultò di 60 fuochi a fronte dei 159 precedenti, e Frigento che ne fu censita per 88 contro i passati 1433.
Avvantaggiata dal suo isolamento, fece registrare una presenza di 102 famiglie San Mango che, basando la propria economia sull’industria del legname di cui erano ricchi i suoi boschi, non aveva precedentemente subito decremento di popolazione, essendo stata tassata per 240 fuochi sia nel 1595 che nel 16484.
Già favorite da una consistente immigrazione in seguito all’eruzione del 1631, relativamente tutelate nel corso della recente epidemia da ubicazioni sufficientemente decentrate, accusarono perdite più contenute Gesualdo, il numero delle cui famiglie fu soltanto dimezzato riducendosi da 424 a 204, Taurasi passata da 227 a 111, Torella da 336 a 150, e Fontanarosa che vide i propri fuochi, da 314 a 209, ridotti appena di un terzo.
Sant’Angelo all’Esca alfine, che per le sue modeste dimensioni era rimasta isolata e quindi risparmiata dalla pestilenza, fu l’unica a registrare un incremento della propria popolazione, passando da 27 a 32 fuochi1.
Prima della manifestazione epidemica, la tassazione annua corrente era fissata, per ciascun fuoco, in carlini 15 ed un grano, a cui andavano aggiunti 48 grana per il mantenimento della fanteria spagnola, 17 grana per la gente d’armi ed ulteriori grana 9 per la manutenzione delle strade. Le nuove imposizioni fiscali, che ragionevolmente avrebbero dovuto essere ridimensionate per la sensibile riduzione della capacità reddituale, si rivelarono invece più gravose delle precedenti, in quanto furono maggiorate di una soprattassa di grana 2, cavalli 6 e due terzi di cavallo, a parziale copertura delle perdite derivate all’erario dalla riduzione dei fuochi2. Per molti l’inasprimento fiscale si rivelò insostenibile e non poche furono le famiglie che, impossibilitate a pagare, si videro private di tutti i loro beni.
La miseria economica si traduceva in miseria morale. Si era perduto qualsiasi rispetto per la vita umana ed i rapporti sociali erano prevalentemente regolati dalla violenza. Degli otto decessi di persone adulte verificatisi a Paterno nell’anno 1659, il 13 gennaio Massenzio Grasso era perito de mala morte, cioè di morte violenta; e ancora nel 1665, su sei decessi soltanto, Antonio de Petruzziello aveva perso la vita per le ferite infertegli nel corso di una lite3.
In tale clima di violenza e di miseria furono in molti coloro ai quali, ridotti alla disperazione, non rimase altra possibilità che quella di darsi alla macchia, andando ad ingrossare le file di un brigantaggio che ormai si era reso padrone incontrastato dell’intero territorio. Ne erano infestate le vie per la Puglia, e soprattutto quella passante per Paterno dove, data la drastica riduzione dei traffici, era stata soppressa la guarnigione militare.
Il fenomeno aveva assunto proporzioni allarmanti al punto che le autorità spagnole promettevano la grazia a quei briganti che si fossero dichiarati disposti ad arruolarsi nell’esercito regolare. Lo aveva fatto nel 1659 il capo-bandito Carlo Petrillo di Montefusco che, inviato in Irpinia a capo di venti uomini col compito di reprimervi il brigantaggio, era stato ucciso dal bandito Giovanni Cola de Lise, suo cognato.
Sulla via per la Puglia, fra Paterno e Lioni, compiva scorrerie il francescano fra’ Antonio di Sant’Angelo dei Lombardi che aveva il suo covo nei pressi del Goleto.
Le scarse simpatie di cui godeva il governo spagnolo, congiuntamente al timore di ritorsioni o vendette, avevano indotto le popolazioni irpine alla connivenza con l’apparato malavitoso, a cui non mancavano di trasmettere informazioni sugli spostamenti dei drappelli armati, né di fornire asili sicuri. Tuttavia i briganti, ben lungi dal manifestare la dovuta riconoscenza, non disdegnavano effettuare incursioni notturne contro isolati casolari di campagna, dove stupravano le donne e facevano razzia di quanto loro necessitava.
Primeggiava fra tutti, per astuzia e ferocia, l’abate di Cimitile Cesare Riccardi, divenuto fuorilegge nel 1669 per aver ucciso il nobile Alessandro Mastrilli. Spaziava il suo campo d’azione fra la pianura Campana e l’Irpinia e, forte di una nutrita schiera di malviventi, godendo di insospettate coperture e di protezioni altolocate, seminava dovunque terrore.
Sul finire del maggio 1671 fu arrestato a Forino il medico chirurgo Pietro Perrotta che aveva curato una ferita dell’abate, e a Nola fu carcerato Luca Cesarino che era uno dei fornitori del bandito. Il 28 settembre, poi, fu posto agli arresti domiciliari il principe di Forino, con l’accusa di aver avuto con l’abate rapporti atti a favorirne l’attività criminale.
In quello stesso giorno si ebbe notizia che a Salza alcuni briganti della banda del Riccardi si erano rifugiati nella casa dei Capuozzi. Don Carlo Brancaccio, funzionario della Prefettura di Montefusco, dopo havere in Avellino fatto massa di molta gente, si portò in detta terra dove gionto, fece diligenza nella suddetta casa de Capuozzi, et si accorse esservi nascosti in una cantina due banditi, coverti con la paglia, li quali vistosi scoverti, et attorniati dalla Corte, tirarono un’archibuggiata che colpì leggermente alla mano d’un terrazzano, et perché non si volevano rendere, il detto signor D. Carlo ordinò che dessero fuoco alla paglia, con che si resero, et furono condotti carcerati in Avellino assieme con li suddetti Capuozzi e tutta la gente di casa ... e doppo quattro giorni furono appiccati1.
Nonostante la caccia spietata di cui era fatto oggetto e la perdita di uomini che quotidianamente era costretto a subire, non accennava a ridursi la tracotanza del brigante. Il 10 ottobre 1671, di sabato, nel primo pomeriggio, furono portate a Napoli due teste di banditi recise. Lunedì mattino 12 detto fu portata un’altra testa, et venne pubblicato, che il medesimo abbate Cesare, unito con altri capi banditi, si fosse nella passata settimana portato a saccheggiare Paterno, dove fece grosso bottino, oltre diversi ricatti presi, da quali pretende grosse taglie2.
Sebbene l’incursione non avesse comportato perdite in vite umane3, fu l’ennesimo duro colpo per la martoriata università di Paterno. Erano stati saccheggiati per primi i casolari di campagna, devastati i raccolti, poi le bande, rese ardite dal terrore che aveva paralizzato la popolazione inerme, si erano spinte fin dentro le mura del paese. La gente, tremante, spaurita, aveva cercato scampo nella chiesa maggiore dove i banditi però avevano fatto irruzione sequestrando quattro persone per la liberazione delle quali, nei giorni successivi, furono chiesti onerosi riscatti.
In merito all’accaduto, il 23 gennaio 1674, Giuseppe Pelosi di Paterno rendeva la seguente dichiarazione: Mi ricordo benissimo che deposi che il sig. Oto de Mattia e Scipione Stefanelli arrestati dal capo de banniti Abate Cesare se ne ritornarono nella loro casa senza aver pagato denaro alcuno, e di più che, poi venuti in Paterno furno costretti li detti Oto, e Scipione a pagare la di loro rata del ricatto con lettere di Abate Cesare, e di più che due Cappuccini di tal denaro di ricatto di Oto, e di Scipione se ne volevano approfittare per le loro fatiche fatte nell’accomodo del ricatto4.
Appare confusa ed approssimativa tale testimonianza che recepiva, altresì, la maldicenza popolare che attribuiva ai frati incaricati dell’interme-diazione un tentativo di appropriazione dei soldi del riscatto.
In effetti, Nell’anno 1671 il famoso Capo de Banditi Abbate Cesare Riccardo con altri capi, e compagni, assaltarono la terra di Paterno in Provincia di Principato Ultra, e dentro la Chiesa sequestrarono, e presero a ricatti due figli del D: Filippo di Martino, il magnifico Oto di Mattia, il magnifico Scipione Stefanellis. Doppo il sequestro di circa due mesi furono poi questi liberati col loro riscatto maneggiato dall’Abbate della Terra di Montefuscoli, e fra’ Rufino Cappoccino, mediante licenza del Regio Collaterale, e di Monsignor Nunzio. Il riscatto delli Martini fù conchiuso in più migliara (di ducati), per il riscatto delli Mattia, e Stefanellis, restavano da compirsi altri docati trecento di residuo, cioè cento cinquanta docati p. (per) uno e poiché questi non l’havevano, né poteano procurarli ad impronto (mediante accensione di ipoteche) ò altro perché stavano sequestrati, fù dalle loro mogli pregato il sud.o (suddetto) D. Filippo, e D. D. Alessandro di Martino, che dovendone ancor essi di procurar denaro ad impronto, o a censo p. riscatto de loro figli, lo procurassero ancora p. di loro mariti. Cosa infatti sortì perché (In tal senso si provvide, per cui) procurato il danaro p. tutti li sequestrati, e pagato che fù alli banditi furono li suddetti sequestrati p. riscatto liberati. A capo di alcuni mesi li suddetti Martini fecero domandare alli suddetti Mattia, e Stefanellis che procurassero il danaro del loro riscatto da essi prestateli mentre essi (de Martino) si portavano il peso, et interessi con chi glie lo haveva dato a censo. Doppo menateli p. qualche tempo di buone parole (Avendo, sia i de Mattia che gli Stefanellis, per un certo periodo di tempo rabbonito i de Martino con vane promesse), e vedendo li Martini che essi Mattia, e Stefanellis non venivano a capo di sodisfarli (restituire loro) li suoi docati trecento furono forzati costringerli nella S. C. della Vic.a (furono costretti a citarli in giudizio presso la Suprema Corte della Vicaria), ove ne ebbero il decreto a loro favore, e poi pure compromessa la caosa a’ due suddetti Amici senza figuia (?) di giudicio (escludendo la sentenza la possibilità di far ricorso ad ulteriore giudizio), fù da questi (giudici) determinato che detti Mattia, e Stefanellis havessero pagati li cento cinquanta docati p. uno p. (più) le spese, et interessi di liti, et altri et in esecuzione di ciò ne stipularono istrumenti ... In particolare, non essendo Scipione Stefanellis in condizione di saldare il proprio debito, dovette cedere in garanzia una vecchia taverna di sua proprietà, nonché un cellaro e due orticelli1.
L’evento venne successivamente ricordato nel corso di una vertenza per la spartizione della proprietà degli Stefanellis fra D. Gaetano Stefanelli e la vedova Giuditta Ciampi: Nel 1671 il famoso capo de Banditi Abbate Cesare Ricciardo assieme con altri di lui compagni assalirono la T.ra (terra) di Paterno, e sorprenderono dalla d.ta T.ra (rapirono dalla detta terra) gli D. D. Gius.e, e Gaetano di Martino F.lli, col Dr. Scipione Stefanelli, col mag. (magnifico) Oto di Mattia, ed altrove gli condussero, e dopo averli seco loro trattenuti p. lo spatio di due mesi e più, furono li catturati medianti grosse summe di danaro liberati, al pagamento de quali summe fù necessario intervenisse anche licenza del Collaterale Consiglio; e perché non si poté dal sop.to (sopraddetto) Dr. Scipione Stefanelli ammanire veruna summa al suo riscatto, stante la di lui impotenza (reperire alcuna somma per il suo riscatto, essendo egli sequestrato), perciò fù di bisogno chel danaro convenuto, p. allora si pagasse dal d.o D. Alessandro di Martino, il q.le p. compire alle summe determinate (il quale per mettere insieme la somma necessaria) bisognò prender a censo molto danaro del quale docati 150 ne pagò p. conto del d.to Scipione2.
Appare privo di fondamento il documento citato da Ubaldo Reppucci circa la necessità, da parte di Alessandro e Filippo de Martino, di vendere il feudo di Poppano al fine di redimere dalle mani del capo dei banditi Abbate Cesare e compagni, così la persona di Don Giuseppe De Martino come la persona di Don Gaetano De Martino3. Infatti la vendita, a favore del barone Vincenzo Moscati, avvenne oltre cinquanta anni più tardi, il 10 marzo 1725, con atto redatto dal notaio Giuseppe Ranucci di Napoli che ebbe il formale assenso dal viceré, il cardinale de Althan, il successivo 17 aprile 1725.
Per effetto della devastante scorreria compiuta sul territorio di Paterno dalle bande capeggiate dall’abate Riccardi, l’esodo dalle campagne fu repentino e definitivo. I pochi scampati alla peste, che si erano ostinati a rimanere nei casali spopolati, raccolsero le proprie misere suppellettili e si trasferirono al borgo. Nuovi ricoveri, baracche e casaleni sorsero alle Taverne e all’Acqua dei Franci. Crebbero i borghetti di San Sebastiano, di San Vito, di Pescone, ed il sobborgo prospiciente alla porta di sopra si estese fin presso la torre. Gli abitanti del Gaudo si stabilirono lungo via Croce ove trasferirono finanche la loro chiesetta intitolata a Santa Maria delle Grazie.
Il 22 ottobre 1671 si seppe che l’abate Cesare Riccardi era stato a Dentecane dove si era imbattuto in una carovana di Ascoli composta da 17 muli. Alle bestie il bandito aveva spezzato le gambe ed ai due conducenti aveva reciso un orecchio, in quanto il Primicerio di quella città si era rifiutato di pagare un ricatto di 400 ducati.
Agli inizi di gennaio 1672 il bandito, con una squadra di 37 uomini, aggredì presso Ariano il procaccia di Bari e quello di Lecce, per portarsi subito dopo nel Napoletano. Ma ancora sul finire di febbraio tornò in Irpinia e qui, fra Lapio e Montemiletto, furono sorpresi dalla gente del posto due dei suoi compagni che, catturati, furono decapitati per portarne le teste a Napoli.
Il 2 aprile 1672 si pose sul capo del brigante una taglia di 3000 ducati. Tuttavia, ritenendo insufficiente il provvedimento, il 14 aprile successivo il Marchese di Crispano, Don Diego Soria, fu investito del titolo di Vicario Generale ed inviato, con 80 uomini armati, sulle tracce del bandito.
Sulla morte dell’abate Cesare Riccardi le versioni sono contrastanti. Di certo essa avvenne il 3 agosto 1672 presso Matera, e la sua testa fu attesa a Napoli con trepidazione e curiosità. Si vidde alla fine comparire sabbato 13 detto portata su la punta d’un palo, et accompagnata da 60 soldati di campagna tutti a cavallo, e con due trombetti avanti, andando anche con essa, ligato ad una bestiola un suo fido compagno, chiamato Pietro de Petrillo, preso vivo dall’istessa gente di Corte, qual testa, e compagno doppo essersi portati a publica vista per tutta la città, fu quella posta dentro una gabbia di ferro in un torrione fuor Porta Capuana, et l’altro rinchiuso nelle carceri di Castel nuovo per tormentarlo, et sapere i loro fautori1.
Nulla mutò con l’uccisione dell’abate Riccardi. Altri capi organizzarono bande di malavitosi che, avvalendosi di coartate complicità, si muovevano liberamente sul territorio, attentando ai beni ed alla stessa incolumità delle persone.
Nel mirino di costoro rimaneva tuttora il dottor Filippo de Martino che, limitato nei propri movimenti, il 17 agosto 1673 fu costretto ad avanzare una singolare richiesta all’arciprete della chiesa maggiore di Paterno. Egli espone come per il continuo timore delli Banditi da quali gli anni passati ha ricevuto tanta rovina, come è a tutti notorio, e che hora più che mai in maggior numero e con più libertà scorrono questo paese, non senza sospetti di qualche altra novità, come ne viene minacciato, è costretto esso a restare in privato dentro sua casa senza potere andare in Chiesa per vedere la S. Messa ... Per questa sua forzata reclusione, l’uomo era costretto con sua famiglia ascoltare la Messa dalla finestra della Cappella del Santissimo Sacramento. La finestra in parola affacciava sul cortile della sua abitazione ove egli, durante le funzioni religiose, si raccoglieva con la propria famiglia.
Tuttavia l’espediente presentava comprensibili inconvenienti, soprattutto nella stagione invernale. Per costituirsi un seppur precario riparo, egli rappresentava: Gli è necessario scendere il tetto della Chiesa verso il suo cortiglio (cortile), d’appoggiarci una pannata (copertura spiovente) per difenderli dalla pioggia, per la quale causa, coprimento, et appoggio non si cagiona danno né pregiudizio alcuno alla Chiesa, e Cappella, tanto più che stessa parte dell’acqua del tetto d’essa Chiesa, e Cappella, nel medesimo luogo scorre sopra una camera scoverta (terrazzino), e cortiglio detto2.
Nel terrore di nuove incursioni viveva pure la gente comune, ormai arroccata nel borgo e nelle aree suburbane. Il numero delle nascite si manteneva su livelli piuttosto modesti. Solo 13 furono i nati nel 1673, e 14 nell’anno successivo3, e buona parte di essi non superò neppure il primo anno di vita.
Più alto, di contro, era il numero annuale delle persone adulte decedute. Addirittura nel 1673 furono 16 i decessi, ivi compresa però Ippolita Litio di Luogosano, morta mentre transitava per Paterno, e qui sepolta su richiesta degli eredi1.
Una terra devastata dunque, con una popolazione in decremento, in cui soffrivano la povertà finanche le chiese i cui vasti possedimenti erano stati lasciati incolti e improduttivi. Allo scopo di assicurarne la sopravvivenza, il dottor Antonio de Mattia, nell’anno 1676, rilevò una delle cappelle della chiesa maggiore per la somma di 10 ducati, con l’intesa di riceverne in cambio celebrazione di messe2.
Il feudo di Paterno era diventato un peso anche per il suo signore Giovan Battista Ludovisio per cui, quando se ne presentò l’occasione, non esitò a disfarsene. Lo vendette infatti, per la somma di 3.800 ducati, a Francesco Mirelli, con atto stipulato dal notaio Giuseppe Montefusco di Napoli in data 13 dicembre 1676, munito di Regio assenso in Madrid l’11 aprile 1677.
Nella transazione però il Mirelli aveva avuto il solo ruolo di prestanome, avendo egli comprato Paterno per conto di Cesare Carafa, principe di Chiusano, che divenne l’effettivo titolare del feudo3.
Aveva mostrato di essere dotato di intuito e di lungimiranza il Carafa poiché non tardò a profilarsi, in Paterno, un’inversione di tendenza demografica. Il numero delle nascite prese a sopravanzare quello delle morti così che, nel decennio compreso fra il 1678 ed il 1687, a fronte di 243 battezzati si registrarono solo 69 decessi di persone adulte4.
Già si avvertivano i primi segnali di ripresa quando, il 5 giugno 1688, preceduto da una prima scossa, alle ore 20, un disastroso terremoto sconvolse l’Irpinia. L’epicentro fu individuato fra Ariano, Montecalvo e Mirabella che ne subirono i danni più gravi oltre che il maggior numero di vittime5. Danneggiata ne fu Paterno nel suo già precario patrimonio abitativo, ma non dovette lamentare perdita di vite umane6, né ne ebbe arrestato il processo di crescita.
Nell’anno 1690, con Lorenzo Litio e Giovanni Battista Sara che esercitava, oltre che in Paterno, nelle terre di Sant’Angelo all’Esca, Taurasi, Luogosano e Castelfranci, riprese l’attività notarile lungamente interrotta. Emerge dai capitoli matrimoniali la maggiore disponibilità economica di cui si trovava ora a godere l’università. Il 7 febbraio 1690, per mano del notaio Sara, furono stipulati quelli per il matrimonio da celebrarsi fra Ferdinando Brida, che abitava in rua dell’Inchiostro, e Giovanna Petruzziello. In tale occasione venivano promessi in dote alla sposa una vigna una con il territorio contiguo sito allo Macchione ...; item un campo di capacità di quarti tre incirca sito alli Capuani ...; item D. Livio Zoina zio ... promette fare venire la dispensa gratis, gratias et amore, e quella la dona alli detti coniugi ...; item li detti fratelli promettono la gonnella della sposa di docati dodici ...; item li promettono li panni rame e ferro ...; item un matarazzo pieno di lana usato, un saccone nuovo, una coperta di lana cardata nuova di prezzo di docati quattro o cinque, lenzola nove, dieci braccia di mesali e salvietti, due tovaglie di tela bianca guarnite, due pari di coscini di tela bianca, una catena di ferro usata, item dicesette libre di rame, una cascia di noce nova, una boffetta di noce nova, una botte usata; quali beni corredali promettono assegnarli al sig. Ferdinando la coperta ad agosto novantuno e gli altri beni il giorno della sposa.
Item esse parti vogliono patto espresso che morendo la gia: Giovanna quod absit senza figli legitimi e naturali dal suo corpo ..., il rimanente di quelle (ciò che sarebbe cioè rimasto dei beni dotali, presumendo l’usura di parte di essi) il gio: Ferdinando promette restituirle alli detti dotanti ...1.
Conscio delle potenzialità di Paterno, sulle quali, con l’acquisto del feudo, aveva investito un ingente capitale, il principe Cesare Carafa ne stimolava in tutti i modi la ripresa economica. Aveva assunto la conduzione diretta, con manodopera fatta affluire dalle terre vicine, dei beni propri della Baronal Corte, e assicurava la sua costante presenza al fine di tutelare i propri interessi ed insieme di garantire il rispetto delle leggi e l’amministrazione della giustizia.
Luogo di detenzione continuava ad essere l’antica prigione sotto la torre. Il servizio di polizia era affidato, con retribuzione a carico della comunità, ad alcune guardie, dette giannizzeri, e, nella Casa della Corte, funzionava regolarmente un tribunale presieduto dallo stesso principe o da un suo delegato.
La procedura seguita per l’acquisizione degli elementi di giudizio può essere desunta dalla dichiarazione resa al notaio Giovanni Battista Sara, il giorno 26 settembre 1690, da Sabato de Leonetto di San Mango, accusato del furto di una giovenca:
Nel mese prossimo passato, mentre che stava a padrone con il gio: Andrea di Blasi, guardava li bovi nel territorio di d.o Andrea di Paterno, un giorno del mese di luglio, verso le ventidue hore, se andeva con li buoi che esso Sabato guardava una giovenca bianca, quale il Sabato la conobbe bene che era di Biaggio di Matthia di d.a t.ra di Paterno, e la notte stiede dentro lo mantrone assieme con li buoi che guardava d.o Sabato, e doppo subbito la mattina seguente la partì dali buoi e se ne ando alli buoi di d.o Biaggio di Matthia pe esse na vacca sua e la vide similmente Antonio di Marino che stava in d.o loco a guardare li porci del signor Cesare Carafa, Barone di d.tta t.ra di Paterno il quale disse similmente che era di Biaggio di Matthia e la guardava Sarafino garzone di Biaso di Matthia co’ più buoi e bacche, e doppo pochi giorni Sabato veddio d.a giovenca dentro li buoi di d.o Biaggio a l’aria allo Cerrito territorio di d.a terra di Paterno, et Andrea di Blasi padrone di d.o Sabato non sapeva nienti, che la giovenca si era andata co’ li suoi buoi, ma il d.o Sabato non ando due giorni a ritrovarlo, ma andava con d.o Antonio di Maria suo paesano, e doppo lo terzo giorno ando a ritrovare il d.o Andrea di Blasi suo padrone e alla fontana dello sauco dove stava a mietere, ma vi ando senza li buoi e d.a giovenca e doppo pochi giorni del mese di agosto del d.o anno 90 fu pigliato d.o Sabbato carcerato, da Dom.co della Ghezza di d.a t.ra di Paterno insieme con lo giurato et un iannizzaro e l’attaccarno, e doppo lo portarro al palazzo dove stava il d.o Sig.no Illo.mo Cesare Carafa in d.a t.ra di Paterno et il d.o Sig.o vuole sapere come passava il fatto di d.a giovenca et il d.o Sabato rispose che solam.te la notte di quel giorno che se andave con li suoi buoi stiede dentro lo suo mantrone e doppo a la mattina si parti e se ne ando alli bovi di d.o m.co Biaggio, e doppo il d.o Sig.o disse a d.o Sabato, non vuoi dire come dicisti, et il d.o Sabato rispose così passa il fatto, che stiede solam.te la notte e doppo la mattina se parti et a questo ordino d.o Sig.o alo iannizzaro che l’havesse attaccato sopra una seggia e li havesse fatto dire come voleva esso Sig.o, et havendo lo attaccato sopra la seggia per forza e timore li feceno dire come d.a giovenca vi era stata otto giorni assieme con li suoi bovi il che non era la verita mentre che vi era stata solam.te la d.a notte che pero cosi havendoli fatto esaminare che vi era stata otto giorni il che non era vero, et havendo conosciuto il d.o Sabato che per d.o esame per forza fatto ne puo venire dando al d.o Andrea di Blasi olim suo padrone, spontaneamente oggi si richiede in presenza nostra sia rivocato d.o esame fatto per forza ...1.
Nel mese precedente a quello appena trascorso, essendo (il dichiarante Sabato de Leonetto) garzone presso il signor Andrea di Blasi, mentre badava ai buoi in un terreno dello (stesso) detto Andrea di Paterno, in un giorno di (quel) mese di luglio, verso le ore ventidue2, si accodava ai buoi a cui esso Sabato badava una giovenca bianca, che il detto Sabato riconobbe essere di Biagio di Mattia della detta terra di Paterno, e che la notte rimase entro il recinto insieme con i buoi a cui badava detto Sabato, e subito dopo, la mattina seguente, quella (giovenca) si allontanò dai buoi (di Andrea di Blasi) e se ne tornò presso i buoi di detto Biagio di Mattia essendo una delle sue mucche, e parimenti la vide Antonio di Marino che si trovava in quel luogo a badare ai maiali del signor Cesare Carafa, barone di detta terra di Paterno, il quale (Antonio di Marino) confermò che (la giovenca) era di Biagio di Mattia ed era affidata a Serafino, garzone presso (lo stesso) Biagio di Mattia, unitamente a più buoi e mucche; e dopo pochi giorni Sabato vide detta giovenca fra i buoi di detto Biagio (pascolare) a l’Area al Cerreto, località di detta terra di Paterno; (della vicenda) Andrea di Blasi, padrone del detto Sabato, non era a conoscenza, (cioè) che la giovenca si era accompagnata ai suoi buoi, in quanto il detto Sabato per due giorni non era andato presso di lui, ma si era accompagnato con il suddetto Antonio di Marino suo compaesano, e quando il terzo giorno si recò presso il detto Andrea di Blasi suo padrone alla fontana del sambuco dove stava mietendo, vi andò senza i buoi e detta giovenca; e trascorsi pochi giorni del mese di agosto del detto anno 1690, fu catturato il detto Sabato, e incarcerato, da Domenico della Ghezza di detta terra di Paterno insieme con il giurato ed un giannizzero, (i quali) lo legarono e quindi lo condussero al palazzo dov’era il detto signorino illustrissimo Cesare Carafa, in detta terra di Paterno, ed il detto signorino volle sapere come era andata la questione di detta giovenca, ed il detto Sabato rispose che solo la notte di quel giorno in cui aveva seguito i suoi buoi (la giovenca) era rimasta nel suo recinto, e la mattina successiva si era allontanata e se ne era tornata presso i buoi di detto magnifico Biagio; quindi il detto signorino disse al detto Sabato: “Non vuoi confermare ciò che hai precedentemente detto”, ed il detto Sabato rispose: “Così è andato il fatto”, (cioè) che (la giovenca) rimase (nel recinto) solamente quella notte e la mattina successiva se ne allontanò; e a questo (punto) detto signorino ordinò al giannizzero di legarlo su di una sedia e di costringerlo a dichiarare ciò che esso signorino voleva, ed avendolo (quindi) legato su di una sedia, per forza e per timore gli fecero dichiarare che detta giovenca era rimasta otto giorni insieme con i suoi buoi, il che non era la verità, dal momento che vi era rimasta solamente la detta notte; poiché però, avendogli in tal modo fatto confessare che vi era stata otto giorni, il che non era vero, ed avendo compreso il detto Sabato che per detta confessione estorta con la forza ne può derivare un danno al detto Andrea di Blasi a quel tempo suo padrone, spontaneamente oggi si chiede in nostra presenza (del notaio) che sia annullata detta confessione ottenuta con la forza ...
L’università aveva pienamente recuperato i suoi naturali ritmi di crescita. Da un ventennio a questa parte non si erano verificate epidemie, né carestie che pure erano piaghe endemiche del tempo, e si respirava ormai un clima di benessere generalizzato. Trentasei furono le nascite registrate nell’anno 1690 e solo sette i decessi di persone adulte, fra cui quello di Carlo Spera, morto de morte subetania ... pe’ essere stato dalli buoi dirupato da sopra il carro3.
Le tumulazioni non venivano più eseguite all’interno della cripta sotto la chiesa parrocchiale, satura dei resti degli appestati, ma nel nuovo cimitero costruito in adiacenza alla sacrestia, a margine della strada che collegava il Seggio con via della Dogana: un vano in muratura con tetto d’embrici, finestre munite di grate ed accesso diretto dalla stessa chiesa. In profonde fosse comuni, ciclicamente svuotate, che il pavimento d’assi ricopriva, i cadaveri venivano sepolti avvolti in un lenzuolo, sovrapposti gli uni agli altri e cosparsi abbondantemente di calce al duplice scopo di affrettarne la consunzione e di evitare che l’aria venisse infettata dai miasmi della decomposizione.
La diffusa disponibilità di beni allontanava dagli anziani lo spettro della solitudine. Se ne assicurava di buon grado l’assistenza al fine di ereditarne gli averi. Il 4 gennaio 1691 Livia Melchionno, sola ed in età avanzata, in cambio dei terreni di sua proprietà siti al Tuoppolo in contrada Acquara, a San Felice e al Piano, ottenne da Antonio Venuta l’impegno di essere alimentata e tenuta in casa sua, e somministrarli tutto quello che teneva di bisogno, di far celebrare dopo la sua morte, a suffragio della sua anima, trenta messe lette e sei cantate, nonché di farla seppellire insieme con gli oggetti strettamente personali1.
L’abbazia di Montevergine, nell’impossibilità materiale di amministrare il vasto patrimonio che l’estinzione di numerose famiglie al tempo della peste bubbonica aveva accresciuto a dismisura, ne aveva iniziato la graduale dismissione. Senza dubbio la famiglia più facoltosa del tempo era quella dei de Martino che non potevano non cogliere l’occasione per ampliare la propria dimora. Così Giuseppe, Tommaso ed il reverendo Don Francesco, figli di Filippo de Martino, il 5 maggio 1693 acquistarono dall’abbazia beni consistenti in case e terreni, ivi compresa una casa co’ diversi membri et stanze co’ magazzeno et cortile di detta t.ra di Paterno nel luogo detto dietro la Chiesa mag.re, confinata co’ li beni di detti f.lli di Martino da uno lato, da laltro la trasonna che tocca le case della g.no Fulvia Cuoco, et altri confini2.
Comunque non tutti i de Martino di Paterno versavano in floride condizioni economiche. In oltre cinque secoli la famiglia si era estesa con diverse ramificazioni a cui gli eventi avevano riservato destini diversi. Tutt’altro che ricca era stata Beatrice de Martino che aveva sposato nel 1691 don Battista Rizzo. Non ricca, né fortunata in quanto era morta di parto l’estate successiva nel dare alla luce il suo primo figlio, Giuseppe. Perché il bambino potesse sopravvivere, vennero a conventione D. Gio: Battista (marito della defunta Beatrice de Martino), con don Angelo dello Guoro, legitimo marito di detta Menica, di farlo lattare (il piccolo Giuseppe) dalla medesima Menica, moglie di D. Angelo, alla ragione di carlini dieci il mese, come in effetto detto pupillo in fascia è stato lattato e nodrito da detta Menica per lo spatio di dodici mesi e giorni, sino ad oggi, che importano docati dodici, e carlini tre, delli quali docati dodici e carlini tre essi coniugi Angelo e Menica non hanno in casa venuti sino a oggi, e non havendo D. Gio: Battista Rizzo danaro, don Angelo dello Guoro, nel mese di agosto 1693, a garanzia del proprio credito, si fece assegnare, col patto del retrovendendo, una quota della casa di proprietà di don Battista Rizzo, sita nel luogo detto lo pennino3.
L’8 settembre 1694, poco prima delle sei pomeridiane, la terra fu scossa da un violento terremoto. Ovunque i danni furono ingenti: Mirabella fu resa inabitabile; Sant’Angelo dei Lombardi contò 700 morti e 200 Teora; furono 280 le vittime a Guardia dei Lombardi, 50 a Torella, 10 a Rocca San Felice; crollarono a San Mango numerose case e si ebbero 20 morti, mentre di 10 vittime fu il bilancio di Villamaina4.
Consistenti furono i danni riportati dal patrimonio edilizio di Paterno, anche se in buona misura imputabili allo stato di abbandono in cui versava il maggior numero delle case. Infatti non si lamentarono vittime5, e l’economia ebbe a patire dei soli riflessi della stagnazione delle attività produttive delle terre limitrofe.
Nel 1694 il mulino feudale fu concesso in gestione, per la somma di 313 ducati l’anno, ai signori Domenico della Trezza, Domenico di Natale Zollo, Alessandro Lombardo e Giovanni Gallo6. Era stato attivo fino al 1656 il vecchio mulino lungo il vallone della Pescarella, ma ad esclusivo beneficio del monastero di Santa Maria a Canna. Dal 1365, anno in cui il feudatario Filippo Filangieri lo aveva ottenuto in permuta dall’abbazia di Montevergine, sussisteva infatti, per il resto della popolazione, l’obbligo di macina presso il mulino feudale sul fiume Calore; né d’altro canto quello di proprietà del monastero, per la limitata portata d’acqua, avrebbe potuto soddisfare le esigenze dell’intera comunità.
Morì senza prole, il 16 settembre 1697, Cesare Carafa, principe di Chiusano e signore di Paterno, e i suoi feudi furono rilevati dal fratello Fabrizio che assunse il titolo di secondo principe di Chiusano1.
Nell’anno 1700 pure re Carlo II di Spagna morì senza eredi. Nel suo testamento aveva designato a succedergli il duca d’Angiò Filippo V, dei Borboni di Francia, ma i nobili napoletani ritenevano che i propri privilegi potessero essere meglio tutelati dall’imperatore austriaco Leopoldo I e, nell’anno 1701, montarono la cosiddetta Congiura di Macchia, dal nome del principale promotore, Giacomo Gambacorta, principe di Macchia. Costoro chiesero il sostegno del popolo il quale però, memore del tradimento dei nobili al tempo della rivolta di Masaniello, tramite il suo rappresentante Saverio Panzuti, rifiutò qualsiasi appoggio.
Sfumò la congiura e re Filippo V, nell’anno 1702, potette visitare Napoli ove fu accolto con entusiasmo di folla.
Il 14 marzo 1702 un nuovo terremoto interessò l’Irpinia. La scossa principale fu preceduta da altre di minore intensità, il che consentì un notevole risparmio di vite umane. Tuttavia Mirabella ne fu distrutta e contò 200 morti, mentre Fontanarosa ne ebbe danneggiata la quasi totalità delle case2.
Non si ebbero vittime a Paterno3, anche se gli effetti disastrosi dei sismi, che negli ultimi anni si erano succeduti con insolita frequenza, vi avevano lasciato cicatrici profonde.
Si legge in un atto del 19 marzo 1698, redatto dal notaio Giovanni Battista Sara, che Giovanni de Bracchio, in qualità di Procuratore della Chiesa di San Nicola, vendeva a Carlo Cuoco una domus dirutam a terramoto, consistentem in duobus membris superioribus, sitam et positam in t.ra Paterni, in loco detto S. Francesco, justa viam publicam a parte anteriori, subtus, et super bona dotalia magnifica Stelle de Matthia, et alias fines4.
casa diruta a causa del terremoto, consistente in due camere al piano superiore, sita nella terra di Paterno, in località detta San Francesco, confinante con la strada pubblica sul davanti, al disotto ed al disopra con i beni dotali della magnifica Stella de Mattia, nonché con altri confini.
Ed ancora, nell’anno 1704, si rileva che alcuni beni immobili di proprietà dei de Martino, nel loco dove se dice S. Francesco ... prima erano case habitabili, e coverte, et oggi per li terremoti se ritrovano cascate, di modo tale che al presente in dette case, ad essi Signori di Martino loro, è rimasto l’aria di fabricare e tutto lo materiale di pietre e legnami e travi che seco portavano dette case quando erano habitabili5.
Delle tante locande site alle Taverne, un tempo apprezzate stazioni di sosta per i conducenti di muli che trafficavano fra i centri della pianura Campana e la Puglia, restava quella sola gestita da Nicola Colasanto, consistente in un cammerone grande, detto lo scarricaturo6, con sottani e stalle sotto detto cammerone, con tre altre cammere, e dipiù due altre cammere, al presente habitabili con sottani sotto, attaccati alle medesime cammere e sottani detti sopra, confinano dette case dalla parte anteriore la via publica, ... dall’altro lato verso occidente le case, seu taverne dirute delli Stefanelli7.
Il 18 febbraio 1711 morì a Napoli Fabrizio Carafa e la Gran Corte della Vicaria, il giorno 20 dello stesso mese, ne riconobbe successore il figlio Tiberio II, a cui andò il titolo di terzo principe di Chiusano1.
Paterno era avviata ormai ad un repentino recupero demografico. La natalità era in costante aumento e sopravanzava abbondantemente il numero dei decessi, ma alla crescita della popolazione non corrispondeva in misura analoga quella dell’economia, per cui venivano a determinarsi situazioni di squilibrio che sfociavano in eccessi comportamentali. Si riproponeva la violenza in termini allarmanti sicché, dei 17 decessi verificatisi nell’anno 1712, quello di Giuseppe Ferraro, il 7 di dicembre, ebbe come causa ferite riportate al capo per colpi di accetta2.
In questo nuovo clima anche la morale venne a soggiacere alla logica del bisogno. Caterina Gallo di Paterno, vedova sedotta, era stata costretta dalla necessità a scendere a compromesso con la propria dignità offesa. Il 10 settembre 1714, certamente dietro lauto compenso, si presentò al pubblico notaio per ritrattare l’accusa formulata due anni prima contro l’uomo che aveva abusato di lei: Come due anni sono a questa parte espose querela criminale contro il coniugato Giuseppe Cuoco di detta terra di Paterno, nella Rev.ma Regional Corte di Avellino, sotto pretesto che essa vidua Caterina Gallo fusse stata ingravidata da detto coniugato Giuseppe Cuoco, della quale sua gravidanza, detto Giuseppe Cuoco ne fu innocente, et innocentissimo, non havendo havuto con quello mai nessuna prattica carnale, havendo quello sempre stimato per huomo da bene, timoroso di Dio e della Santa giustizia, et esemplare a tutti, e senza dare scandalo a nessuno, e quantunque ella Caterina havesse querelato detto coniugato Giuseppe Cuoco come di sopra per detta sua gravidanza, et a quelli si havesse data la colpa, tutto ciò fece ad istigazione di malevoli di detto coniugato Giuseppe Cuoco, et accecata dal diavolo3.
Sul piano internazionale, intanto, la lotta per la successione al trono di Spagna, iniziata nel 1700 in seguito alla morte di re Carlo II, si concludeva, l’11 aprile 1713, con la pace di Ultrecht. Filippo V fu riconosciuto re di Spagna e delle Indie, previa rinuncia ai diritti sul trono di Francia; al duca di Savoia furono assegnati il Monferrato e la Sicilia, di cui divenne re; all’imperatore d’Austria Carlo VI si concessero Milano, Mantova, la Sardegna ed il regno di Napoli, la cui amministrazione fu affidata ad un viceré.
2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.
3 De Bonis: Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodici Provincie - Anno 1671. (Nella trascrizione di F. Scandone).
4 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VIII - Napoli 1804.
1 De Bonis: Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodici Provincie - Anno 1671. (Nella trascrizione di F. Scandone).
3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
1 Frammento d’un diario inedito napoletano, in Archivio storico per le province napoletane, Vol. XIV.
2 Ibidem.
3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1890.
1 Archivio privato del dott. Nicola Famiglietti di Paternopoli - Scritture della Casa de’ Sig:ri Martini raccolte da me nell’anno 1766 D. S. Famiglietti, con notamento de beni ricavato da fogli vecchi posti in fine di questo libro.
2 Archivio privato del dott. Nicola Famiglietti di Paternopoli - Scritture della Casa de’ Sig:ri Martini raccolte da me nell’anno 1766 D. S. Famiglietti, con notamento de beni ricavato da fogli vecchi posti in fine di questo libro.
3 Ubaldo Reppucci: Castel Poppano e la chiesa di S. Margherita di Scozia - Avellino 1994.
1 Frammenti d’un diario inedito napoletano, in Archivio storico per le province napoletane, Vol. XIV.
2 Archivio privato del dott. Nicola Famiglietti di Paternopoli - Scritture della Casa de’ Sig:ri Martini raccolte da me nell’anno 1766 D. S. Famiglietti, con notamento de beni ricavato da fogli vecchi posti in fine di questo libro.
3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati.
1 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
2 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS.mo Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.
3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.
4 Archivio della Parrocchia di san Nicola di Paternopli - Registri dei battezzati e Registri dei morti.
5 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.
6 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1877.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1877.
2 E’ da intendersi verso le sei pomeridiane, cioè un’ora dopo i rintocchi di ventun’ora.
3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati e Registri dei morti.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1877.
2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1877.
4 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.
5 Archivio della Parrocchia di san Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
6 Archivio di stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1882.
1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.
2 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.
3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1878.
5 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.
6 Con tale termine si indica un vasto ambiente, a piano terra, in cui accedevano i muli delle carovane per esservi liberati delle some prima del ricovero in stalla. Lo scarricaturo era dunque il luogo di deposito delle mercanzie.
7 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1878.
1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.
2 Archivio della Parrocchia di san Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1881.