Le Fiabe - Il Cuore dell'Agnello

Viveva un tempo una coppia felice, benedetta dalla presenza di due figli amorosi legati fra loro da profondo affetto. Tina era la più grande dei due e da sempre aveva badato a Lino, di sei anni più piccolo di lei, così che, anche quando fu in età da apprendere l'arte del cucito e del ricamo, non se ne volle separare. Ogni mattina lo prendeva per mano e lo conduceva con sé a casa di Elvira, la sarta, dove ne sorvegliava i giochi e ne provvedeva ai bisogni.

Elvira era donna di pochi scrupoli, chiacchierata per i suoi atteggiamenti poco convenzionali nei confronti de­gli uomini del paese, e il fatto che non avesse trovato marito impensieriva non poche mogli e fidanzate. Ma da un po' di tempo la sarta non aveva occhi che per il padre dei due bambini, tanto che, perseguendo un suo pur vago progetto, per ingraziarseli, li colmava di gentilezze e di leccornie, al punto che essi cominciarono a preferirla alla loro stessa madre che, oberata di lavo­ro, di tempo da dedicar loro ne aveva ben poco.

Un giorno che per una monelleria la madre li aveva sgridati aspramente, mandandoli a letto senza cena, Tina e Lino, col cuore colmo di risentimento, stabilirono che sarebbe stato opportu­no cambiare madre, investendo di tale ruolo la sarta.

Il giorno successivo andarono di buon mattino dalla donna e le sottoposero la proposta a lungo rimuginata nella notte. Elvira pensò che fosse giunto il momento propizio per realizzare il sogno generato dalla sua insana pas­sione. Era eccitata e felice ma non lo dette a vedere.

"Ma voi avete già una madre", obiettò. Nella loro ingenua determinazione i bambini non avevano considerato que­sto ostacolo. Dapprima apparvero delusi, poi Tina, illuminandosi improv­visamente in volto, tutta speranzosa, interrogò:

"E se morisse, saresti disposta a farci da madre?"

Elvira a stento riuscì a celare un moto di malvagia esultanza, mascherandolo in un atteggiamento di improvvisa commozione. Li abbracciò insieme e li baciò. "Siete due bambini meraviglio­si! " esclamò. "Sarei felicissima di esse­re vostra madre".

I bambini, commossi, lusingati dalla dimostrazione di affetto della donna ed ancora risentiti per la punizione che la madre aveva loro inflitto, strin­gendosi forte a lei, promisero che tutte le sere avrebbero pregato il buon Dio di far morire la loro madre cattiva.

La sarta se li staccò di dosso e li consi­derò a lungo con aria paziente e scet­tica, scosse il capo. "Siete troppo pic­coli", osservò. "È probabile che le vostre preghiere non giungano fino a Dio". Indugiò, pensosa, alla ricerca di una soluzione diversa, poi, come ri­flettendo ad alta voce, sospirò: "Qual­cosa si potrebbe fare, ma non credo che voi bambini ne siate capaci! "

Tina si irrigidì, permalosa. "Chi ti ha detto che non ne siamo capaci?" in­sorse con una punta d'orgoglio. "Dicci cosa dobbiamo fare e vedrai che non ti deluderemo".

Elvira sorrise, poco convinta eppur condiscendente. "Pensavo che avreste potuto tirar giù il coperchio della cas­sa nel momento in cui vostra madre fosse china in essa per prenderne il pane". Si serrò nelle spalle, con indifferenza, pur scrutando i bambini, pen­sosi, per valutare l'effetto delle pro­prie parole. "Era solo un'idea", sog­giunse e scoppiò in un'allegra risata. "Macché, non pensateci più. Ora vo­glio farvi assaggiare dei dolci che ho preparato apposta per voi", e con pas­so svelto scomparve oltre l'uscio della cucina.

Ai bambini le parole della sarta, la sua voce dolce e suadente, risuonavano nel cervello, e più riflettevano, più si convincevano che la cosa era fattibile. Fu così che il mattino successivo, al momento della colazione, insolitamen­te desti, con fare complice Tina e Lino si disposero ai due lati della cassa ed attesero che la madre andasse a prendere loro del pane. Quando questa si chinò, richiusero il coperchio che le cadde pesantemente sul capo ucci­dendola sul colpo.

Si parlò di disgrazia. La sarta fu la prima ad occorrere, costernata, e tra­scorse l'intera notte nella veglia funebre ostentando un indicibile dolore, non senza aver prima fatto mangiare ed aver messo a letto i bambini.

Dopo la tumulazione della salma la sarta invitò parenti ed amici ad aste­nersi dal portare i pasti al vedovo ed ai figlioletti, impegnandosi a provveder­vi personalmente in quanto la sua pre­senza, più di ogni altra, poteva essere di conforto ai bambini.

Fu così che Elvira si introdusse di forza nella vita della sventurata fami­gliola, preparando per essa il pane, cuocendo i cibi, facendo il bucato, badando ai bambini durante le ore di lavoro del padre, fino a rendersi ben presto indispensabile.

Trascorse circa un mese ed Elvira pensò che fosse ormai tempo di mettere in atto la seconda parte del suo diabolico piano. Chiamò a sé i bambini, se li fece sedere sulle ginocchia, e con voce flautata ne chiese l'attenzione.

"Comprendo che vostro padre, da solo, non può allevare due graziosi ragazzi come voi", esordì, "ed è questo il mio unico cruccio. Finora ho cercato di darvi una mano, mala gente è pettegola e comincia a vedere con sospetto la mia presenza in casa vostra". Il tono della voce le si fece grave. "Con mio sommo rammarico debbo rinunciare a voi", annunciò. Si morse il labbro e tirò su col naso per ricacciare indietro le lacrime che le gonfiavano gli occhi. I bambini se ne commossero. "Che ti importa della gente!?" insorsero ad una voce. "Noi lo sappiamo che sei buona! "

Lei scosse la testa, risoluta. "Mi dispiace", disse. "Mi mancherete tanto! E perdonatemi se non potrò più prepararvi i tarallini nasprati, o gli strufoli, o le zeppole, o se non potrò più cucire i vestiti per la bambola".

Tina fu scossa dai singhiozzi. L'abbracciò disperatamente. "Non ci lasciare, noi ti vogliamo tanto bene", supplicò.

Lei sospirò rassegnata. "Lo so, e ciò mi rattrista; ma non ho scelta, a meno che..." Esitò, imbarazzata.

"A meno che?" sollecitò Tina, animata dallo spiraglio che si apriva alla speranza.

"A meno che vostro padre non mi sposi", profferì lei, subito aggiungendo, preoccupata di essere fraintesa: "Non che mi importi di essere sposata, si intende. Il mio sarebbe un sacrificio, malo farei volentieri per l'affetto che nutro per voi"

Quella sera a cena, dopo un lungo e teso silenzio colmo delle occhiate di incoraggiamento di Lino, Tina propose al padre tutto d'un fiato: "Perché non sposi Elvira?"

L'uomo non parve sorpreso. Non rispose; si limitò a scuotere tristemente il capo in segno di diniego.

"Ma perché?" insistette lei. "È buona e ci vuole tanto bene. E poi tu hai bisogno di una donna che ti tenga in ordine la casa e ti prepari i pasti".

L'uomo continuò a scuotere sconsolato il capo.

"Ma perché?" piagnucolò Tina, ed il fratellino a sua volta si mise a frignare: "Sposala, papà; ti prego, sposala".

Il buon uomo, attribuendo tali insistenze alla preoccupazione dei figli per la sua difficile situazione, commosso, al solo scopo di non scontentarli, abbozzò un sorriso di resa ed acconsentì: "Va bene. Visto che ci tenete tanto la sposerò, ma non prima che tutti i vestiti di vostra madre siano marciti".

Il giorno dopo i bambini riferirono ad Elvira le condizioni imposte dal padre.

"È giusto", lei convenne. "Aspetteremo, anche se dovranno passare parecchi anni prima che ciò avvenga".

"E in questi anni verrai a casa nostra?"

si informarono, speranzosi, i bambini. "Continuerai a prepararci i tuoi dolci ed a raccontarci le favole?"

"Non è possibile: la gente malignereb­be", sentenziò lei rassegnata.

Delusí, disperati, le si aggrapparono al collo. "Ti prego", presero a supplicar­la; "non devi abbandonarci".

Lei li carezzò sul capo, mestamente. "Una soluzione ci sarebbe", azzardò. "Quale?" interrogò Tina, e Lino le fece eco.

"Perché gli abiti marciscano in breve tempo dovreste farci la pipì sopra ogni giorno", spiegò.

I bambini presero a porre in atto il suggerimento con impegno ed entu­siasmo. Ogni mattina, non appena il padre si richiudeva l'uscio alle spalle per recarsi al lavoro, loro saltavano giù dal letto, tiravano fuori dalla cassa gli indumenti appartenuti alla madre, li sparpagliavano sul pavimento e quindi ci orinavano sopra.

Non trascorsero più di due mesi che i vestiti marcirono e così, un bel giorno, i bambini attesero che il padre rientrasse dal lavoro e, con fare esultante, lo guidarono verso la cassa ove erano custoditi.

"Vedi", gli dissero; "ora sono marciti. Devi sposare Elvira".

L'uomo, sia per amore verso i figli, sia per tener fede alla promessa fatta, acconsentì alle nozze.

La cerimonia fu semplice ed intima, come si addiceva ad un vedovo, e la sarta potette finalmente trasferirsi nella dimora di lui.

L'atteggiamento di Elvira nei confronti dei ragazzi non tardò a mutare radical­mente. Nel giro di pochi giorni la donna si rivelò astiosa, irascibile, insoffe­rente della loro stessa presenza, e non tralasciava occasione per rimproverarli aspramente.

"È solo per amor tuo che li sopporto", si lamentava sempre più spesso col marito mentre gli ammanniva coccole e moine. "Sono indisponenti, dispet­tosi, bugiardi. Oh, caro, se non ci fos­sero...!"

L'uomo ne era turbato ed infelice, diviso fra l'amore per i figli e la passio­ne che la donna gli scatenava dentro. Passò più di un anno. Una bambina, Lisa, era venuta alla luce. Tina si era trasformata in una graziosa signorinetta, seppure triste e immusonita. Lino si era legato sempre più alla so­rella che identificava con la figura materna. Le proteste e le lamentele della matrigna erano divenute un pervicace ritornello. Ormai ogni sera la donna, dopo aver fatto le fusa al marito come una gattina innamorata, cominciava a sciorinare i motivi del proprio scontento che alimentavano in lui il rancore verso i figli.

E venne il giorno in cui Elvira ritenne che fosse giunto il momento di pro­porre al marito quanto da tempo an­dava rimuginando. A sera, dopo aver imposto ai ragazzi di non muoversi dalla propria stanza, lo attese sconvolta sull'uscio di casa e, imponendogli con gesti concitati e perentori di non tradire la propria presenza, lo guidò fin nella camera da letto dove, stringendoglisi contro, simulò in un pianto disperato lo sfogo di un pesante fardello di amarezza che la opprimeva dentro.

"Sono allo stremo della sopportazione", disse. "Ho sempre evitato di parlartene per non farti soffrire, ma ora non posso più tacere: mi odiano e soprattutto odiano Lisa. Ho paura per la nostra bambina. So che le faranno del male, lo sento. Perdonami, amore, ma in questa casa non posso più vivere".

La passione accecava ormai l'uomo che neppure per un istante dubitò della donna. Pure l'affetto per i figli si sovrapponeva al terrore di perdere la compagna fino a moderarne il risentimento, a renderlo conciliante.

"Calmati, cara; cerca di non pensarci", provò a tranquillizzarla. "Parlerò io con loro: vedrai che mi daranno ascolto".

Lei si ritrasse, decisa. "No, è inutile", disse. "Non permetterò che si faccia del male a nostra figlia. Andrò via domani stesso". Poi di nuovo scoppiò in un pianto dirotto, gli si buttò fra le braccia e nei singhiozzi soggiunse: "A meno che non siano loro a lasciare questa casa. Tina è grande ormai e può badare a se stessa e al fratello".

"Ma come posso fare! ?" protestò l'uomo, visibilmente scosso, lisciandole teneramente i capelli.

"Puoi abbandonarli nel bosco", suggerì lei e, sentendo che l'uomo si irrigidiva, si affrettò a soggiungere: "Sono cresciuti ormai, e se sono venuti su ribelli e irresponsabili la colpa è anche mia che li ho sempre viziati". Lo guardò dritto negli occhi, a sollecitargli un rimprovero o forse ad attestargli la sincerità dei propri sentimenti. "È nel loro interesse porli al cospetto delle difficoltà della vita", argomentò; "e tu sai quanto male mi faccia, a me che li ho amati come figli". E pianse ancora più forte, disperata e indifesa.

L'uomo, a cui quel pianto doleva in petto, sospirò rassegnato. "Farò come vuoi", concesse. "Domani li accompagnerò nel bosco. Ma ora non piangere, ti prego. Il tuo dolore mi rattrista".

Intanto Tina, consapevole che si stava tramando contro di loro, bocconi sul letto, piangeva in silenzio. Lino invece, che pur si era insospettito per l'insolito comportamento della matrigna, era sgusciato fuori dalla stanza e si era portato dietro l'uscio della camera da letto dove si era trattenuto ad origliare. Aveva così udito ogni cosa. Senza farne parola con la sorella, corse in cucina e riempì le tasche di cenere del focolare, dopo di che andò a letto vestito.

Il giorno successivo il padre li destò che albeggiva, invitandoli a seguirlo nel bosco a raccogliere legna. Si incamminarono in silenzio nel mattino freddo e lattiginoso. L'uomo li precedeva a lunghi passi, taciturno, incupito. Tina gli si manteneva dappresso, sopraffatta da un senso d'angoscia, intimorita dal suo tetro mutismo. Lino li seguiva facendo fatica a tener loro dietro nel terreno impervio e fradicio dell'umidità della notte, tuttavia non trascurava di lasciarsi alle spalle una sottile traccia di cenere che di volta in volta attingeva dalle tasche.

Dopo aver a lungo camminato, quan­do furono dove più fitta era la vegeta­zione, il padre ordinò loro di fermarsi e di attenderlo ché egli sarebbe andato in cerca del posto migliore per racco­gliere fascine. Il tono era perentorio. I ragazzi capirono che a nulla sarebbe servito protestare; sedettero ed in si­lenzio si disposero all'attesa.

Passarono le ore e Lino cominciò ad avvertire i morsi della fame. "Voglio mangiare", piagnucolò, rompendo il lungo silenzio carico di sospetto e di oppressione.

Tina si scosse. Ormai era certa che erano stati abbandonati, ma non osava parteciparlo al fratellino. Era lei la più grande, doveva farsi forza e provvede­re a lui. Si alzò e prese a raccogliere fragole, more, lamponi, tutto ciò che di commestibile le capitava sotto mano, ed ogni cosa offriva al bambino che mangiò avidamente fino a saziarsi.

Intanto le ombre della sera comincia­vano ad addensarsi sul bosco.

"Ho freddo", disse Lino.

Lei lo strinse, tremante, a sé per riscal­darlo col proprio corpo.

"Ho paura", egli prosegui lamentoso. "Non ti preoccupare", cercò di fargli coraggio Tina. "Ci sono qua io a proteggerti".

Ma il bambino non voleva intendere ragioni e continuava a frignare: "Ho paura. Voglio tornare a casa".

"Non possiamo", lei disse, cercando di farlo ragionare. "Non conosciamo la strada del ritorno e, prima o poi, vedrai che nostro padre tornerà a pren­derci".

"Ma io la conosco", lui disse.

Tina lo guardò, incredula eppure ani­mata da improvvisa speranza. "Come puoi conoscerla?" chiese.

Lino, esitante per il timore che gli venisse rimproverato l'espediente adottato, confessò: "Ho lasciato cadere una traccia di cenere lungo il cam­mino".

Tina lo abbracciò e lo baciò in un impeto di riconoscenza e, ridendo di gioia, improvvisamente libera dall'oppressione che le aveva gravato l'ani­mo, prese a seguire di corsa la labile traccia, trascinandosi dietro il fratelli­no che teneva per mano.

Quella sera, in casa, la tavola era inso­litamente imbandita. C'era di tutto, dal prosciutto ai fichi secchi, dalla frittura di patate e carne al formaggio pecorino, dal pane di mais con uva passa alle nocciole, ma l'uomo non aveva toccato quasi nulla, oppresso dal rimorso e tormentato dal pensiero dei figli abbandonati nel bosco. Eppu­re, quando si spalancò l'uscio ed i ragazzi, pavidi, laceri, affamati appar­vero sulla soglia, non si senti affatto sollevato e non osò guardare in viso la moglie di cui avvertiva le occhiate so­spettose ed infuriate. Comunque, in un silenzio carico di tensione, si lasciò che i bambini mangiassero con voracità e, satolli, si ritirassero nella loro stanza a dormire.

Quando furono di nuovo soli, Elvira ruppe il silenzio per rivolgersi al mari­to in tono astioso e accusatorio. "E questo come lo spieghi?" domandò.

Egli allargò le braccia in un gesto di sconforto. "Devi credermi", farfugliò. "Ho fatto tutto come mi avevi chiesto. Li ho lasciati nel bosco e non capisco come possano essere tornati".

Stava per aggiungere altro, ma lei lo fermò con atteggiamento gelido e perentorio. "Non mi interessano le tue ragioni. Fa' in modo che sin da domattina spariscano per sempre da questa casa". Ciò detto si ritirò nella stanza da letto, sbattendo la porta che richiuse a chiave.

Dopo una notte insonne trascorsa seduto, immobile presso la tavola lasciata ingombra, il volto serrato fra le mani quasi a contenerne la muta angoscia, l'uomo accese il fuoco e destò i ragazzi che albeggiava, invitandoli a seguirlo. Lino, insospettito, fece per raccogliere un po' di cenere, ma il fuoco ardeva violento nel camino. Si guardò allora intorno, ansioso, e, adocchiato il sacco della crusca, di soppiatto se ne riempì le tasche.

In cammino attraverso il bosco, come il mattino precedente, non visto, il bimbo provvide a segnare con la crusca la strada percorsa così che, alcune ore dopo, quando il padre raccomandò loro di attenderlo assicurando che sarebbe tornato di li a poco, egli potette lanciare un'occhiata rassicurante alla sorella.

Appena soli i ragazzi si misero alla ricerca della traccia, ma non tardarono a scoprire che la crusca era stata tutta asportata dalle formiche. La disperazione si impadronì di loro. Cominciarono a vagare senza meta, seguendo sentieri presto soffocati dalla fitta vegetazione, aprendosi a fatica il varco fra i rovi, guadando torrenti che si illudevano di riconoscere e a cui attribuivano, con sempre minor convinzione, nomi familiari.

Si accasciarono al suolo, esausti, affamati, solo quando la notte inghiottì gli alberi e destò il volo delle civette e dei gufi. Si avvinghiarono l'uno all'altra e, tremanti, si disposero a trascorrere la notte all'addiaccio, sussultando ad ogni fruscio, stringendosi ancor più con vigore ad ogni gemito, ad ogni battito d'ali, ad ogni scricchiolio. Poi, d'improvviso, a distanza, una tenue luce tremolò nella notte. Tina la indicò al fratello.

"Lì c'è qualcuno", gli disse. "Te la senti di camminare ancora un poco? Laggiù troveremo riparo e forse non ci negheranno un pezzo di pane".

Il bambino era allo stremo delle forze, tuttavia si levò in piedi e si incamminò dietro di lei. La sterpaglia ne ostacolava il cammino, i pruni penetravano le carni, le felci umide elargivano gelide carezze, eppure loro proseguivano, scivolando e rialzandosi, senza un gemito di dolore, verso quella luce flebile, sempre lontana ed irraggiungibile. "Ho sete", piagnucolò Lino ad un tratto.

"Laggiù potrai bere", gli promise la sorella. "Cammina e non parlare".

Il bambino si concentrò nello sforzo, ma l'ansimo gli essiccava la bocca, gli bruciava in gola. "Ho sete", supplicò in un lamento ancor più fievole.

"Cammina", lo esortò la sorella, prendendolo per mano e trascinandolo. Mala luce appariva sempre debole e lontana.

Procedettero in silenzio finché non intesero uno scroscio d'acqua davanti a loro e Lino, divincolatosi dalla presa della sorella, corse avanti e fu presso una fonte che sgorgava da una roccia. "Aspetta", lo fermò Tina preoccupata, ricordando i racconti degli anziani a proposito di fonti stregate disseminate per il bosco. "Potrebbe essere non buona".

"Ho sete", egli insistette e stava per avvicinare la bocca al getto d'acqua, mala ragazza lo afferrò per le spalle e lo tirò indietro.

"Fontana, fontanella", interrogò, "se beve mio fratello, cosa succede?"

"Diventa una lepre", rispose una voce argentina che sembrava sgorgare direttamente dalle viscere della terra.

Sorpreso e contrariato, Lino lasciò che la sorella lo trascinasse via, mala sete lo ossessionava, acuiva la fatica. Sempre guidati dalla flebile luce camminarono ancora a lungo finché giunsero presso una seconda fontana. Anche qui la ragazza trattenne il bambino a viva forza, anche qui interrogò: "Fontana, fontanella, se beve mio fratello cosa succede?"

Come prima una voce remota le rispose: "Diventa un'oca".

Ripresero il cammino che Lino impuntava ormai i piedi, gemeva, si appellava alla pietà di lei che lo trascinava irremovibile e, dopo tanto, furono presso una terza fontana. Ancora Tina domandò:

"Fontana, fontanella, se beve mio fratello cosa succede?"

"Diventa un agnello", fu la risposta; ma il bambino, vinto dall'arsura, si liberò con uno strattone dalla presa della sorella e, prima che questa potesse fermarlo, offrì al getto d'acqua la bocca spalancata e bevve a lungo, avidamente.

L'incantesimo si compi. Lino fu tramutato in agnello. Tina scoppiò in un pianto dirotto, abbracciò la bestiola, la scosse quasi a volerle strappare di dosso il morbido vello, supplicò la fontana, ma tutto fu vano. L'agnello le strofinava il musetto umido sulle guance e con la lingua ne tergeva le lacrime nel tentativo di consolarla. La ragazza pianse a lungo finché comprese che era inutile continuare a disperarsi. La notte era ancora lunga e la luce appariva lontana. Si asciugò le lacrime col dorso della mano, tirò su col naso e, seguita dall'agnellino, riprese il cammino.

Cominciava ad albeggiare quando attraversarono il vasto parco fiorito sotto lo sguardo fiero di enormi statue che fiancheggiavano il viale ghiaioso, salutati dal chiassoso risveglio degli uccelli e dallo scroscio armonioso di cento' fontane a zampillo. La luce che li aveva guidati filtrava da una delle finestre del meraviglioso palazzo, ornato di colonne di marmo, che si stagliava al disopra delle chiome di alberi secolari.

Il portone era in robusto rovere scolpito con scene di caccia. Soggezionata, intimidita da tanta ricchezza eppure resa audace dalla stanchezza e dalla fame, Tina bussò ed attese. Una cameriera venne ad aprire.

"Cosa desiderate?" le domandò.

La ragazza si guardò i vestiti laceri e sporchi, le gambe e le braccia graffiate dai rovi, le carni illividite dal freddo e, incapace di una qualsiasi risposta, scoppiò in un pianto disperato.

Commossa, la cameriera la prese per mano e la introdusse nel salone che fungeva da atrio, lasciando che l'agnellino la seguisse. "Aspetta qui", le raccomandò. "Ora avverto il padrone. È una persona molto buona, vedrai che ti aiuterà".

Tina smise di piangere, rincuorata. Appena sola, si guardò intorno, stupita. Un grosso lampadario pendeva dal soffitto e la luce veniva diffusa dallo sfavillio di gocce sfaccettate di cristallo, alle pareti teste di cervi e di cinghiali, in terra un soffice tappeto con esotiche rappresentazioni, disposti in bella mostra su mobili laccati o intarsiati anfore d'argento e vasi decorati in oro, e in fondo una scala imponente, tutta in marmi pregiati, che conduceva ai piani superiori.

Dall'alto di essa una voce gentile la richiamò alla realtà. "Chi siete?" la interpellò. Era un giovane alto e forte, dai lunghi capelli neri e dallo sguardo dolce e comprensivo.

Lei si curvò in un inchino impacciato e goffo. "Scusatemi", disse. "Mi sono smarrita nel bosco e sono così stanca. Vorrei ospitalità per qualche giorno". Poi, temendo di aver osato troppo, si affrettò a soggiungere: "Mi basta un cantuccio nella stalla ed un pezzo di pane. Lavorerò per compensarvi del fastidio della mia presenza".

Il giovane sorrise bonario e schioccò le dita: la cameriera accorse. "Accompagna la signorina in una delle stanze degli ospiti ",ordinò. "Dalle dei vestiti puliti e fa' in modo che venga lavata e rífocillata".

Tina avvampò in viso, grata, confusa da tanta magnanimità, ma temette che la separassero dall'agnellino. "Signore, vi ringrazio", disse, "ma non voglio abusare della vostra bontà. Mi è sufficiente un cantuccio nella stalla, anche perché per nessuna ragione al mondo mi separerei dal mio agnellino".

Egli sorrise di nuovo, condiscendente. "Non temete", la tranquillizzò: "Nessuno vi toglierà la vostra bestiola". Poi, rivolto alla cameriera: "Fai in modo che nella stanza della signorina venga allestito un angolo adatto ad ospitare il suo agnello".

Commossa, la ragazza gli si buttò ai piedi, gli afferrò entrambe le mani e gliele baciò a lungo fra le lacrime.

Passarono i giorni. Tina trascorreva il suo tempo facendo delle lunghe passeggiate nel parco, sempre accompagnata dall'amato agnellino. Ora indossava dei vestiti lussuosi che le sarte avevano appositamente cucito per lei ed era rispettata e riverita dalla servitù che, per la sua mitezza, per la sua bontà d'animo, le manifestava un profondo affetto.

Alderigo, era questo il nome del giovane signore del castello, si intratteneva volentieri con lei. Era bella Tina, soprattutto ora che aveva ritrovato la propria serenità, ed il giovane non tardò ad innamorarsene.

Fu una sera, nel parco, in cui erano rimasti insieme, in silenzio, ad osservare il tramonto, che Alderigo le sfiorò i capelli con un bacio per poi sussurrarle in un orecchio: "Mi vuoi sposare?"

Per l'improvvisa emozione Tina non fu capace di profferire parola, però si infiammò in viso e gli occhi le si accesero di felicità e di gratitudine, sì che lui la strinse teneramente fra le braccia e la baciò a lungo sulla bocca.

Si sposarono e per loro iniziò una vita tranquilla e serena. Di solito sedevano nel parco oppure, in inverno, presso il fuoco del camino. Tina ricamava ed Alderigo le leggeva i versi degli antichi poeti o le leggende di popoli lontani e sconosciuti. Quando invece lui si concedeva una battuta di caccia, lei si spingeva fino ai casolari più remoti a far visita ai coloni, non trascurando di portar dolci o abitini per i figli di essi. Passarono gli anni e la notizia della fortuna toccata alla ragazza smarrita nel bosco e dello strano sentimento che la legava al suo agnello si diffuse per tutto il regno, sino a giungere all'orecchio di Elvira. Il folle sogno d'amore della donna si era infranto ben presto. All'infatuazione si era venuta gradualmente a sostituire l'insofferenza per la monotona quotidianità, gravosa di sacrifici. Sopraffatto dal rimorso, il marito aveva cominciato a bere, trascurando il lavoro, sicché in breve si era visto costretto a vendere il podere ed a contrarre debiti fino ad ipotecare la loro stessa dimora. Gli stenti esacerbavano gli animi. La miseria generava continui, violenti litigi. Ora poi che per Lisa si era fatta prossima l'età in cui avrebbe dovuto prendere marito, il rancore era acuito dalla disperazione di non possedere di che farle il corredo e costituirle una dote, tanto che i giovani del paese le giravano al largo.

Elvira íntuì che la ragazza di cui si diceva altri non doveva essere che la propria figliastra e che, di conseguenza, l'agnello non poteva essere che Lino, vittima di qualche sortilegio. Rosa dall'invidia e tentata di trarre vantaggio dalla situazione, non tardò a concepire un diabolico piano che trovò l'entusiasta condiscendenza di Lisa. Cucì alla figlia un vestito nuovo, le racimolò qualche provvista e le consigliò di mettersi subito in viaggio. Al momento del commiato le disse: "Se riuscirai nell'intento, fammi avere il cuore dell'agnello ed io capirò".

Lisa assicurò che non l'avrebbe delusa e, senza dir niente al padre, che oltretutto si interessava poco o nulla delle due donne, partì al seguito di una carovana di mercanti.

Dopo solo un giorno ed una notte di cammino, giunse al margine opposto del bosco e bussò al portone del lussuoso palazzo. Quando fu al cospetto della sorellastra, le si buttò fra le braccia. "Tina, sorella mia!" esclamò al colmo dell'emozione. "Quanto desiderio avevo di conoscerti. È da quando ho saputo di te e del nostro amato fratello che vi cerco in ogni angolo del regno".

Tina avvertì un tuffo al cuore. I ricordi dell'infanzia la investirono in un turbinio di sensazioni dolci e dolorose. Si fece forza per vincere la commozione. "Dunque sei Lisa!" arguì, visibilmente sorpresa ma contenta. Poi di nuovo il cuore le si colmò d'affetto e di rimpianto: "E nostro padre?" si informò. "Dimmi di lui. Sta bene?"

Lisa si fece triste. "È invecchiato, sai! Da quando siete scomparsi nel bosco non è stato più lo stesso uomo. Vi hanno cercato tanto lui e mia madre". Poi scosse il capo, come a liberarsi del peso di una pena antica e profonda. Arretrò di un passo per osservarla meglio. "Quanto sei bella!" esclamò ammirata. "Sei proprio come ti ho sempre immaginata". Esitò un istante. "Ma dimmi, che ne è stato di nostro fratello?"

Di colpo Tina si rattristò. Aveva a lungo tenuto in serbo il segreto dell'antico sortilegio ma con lei sapeva di non poter tacere. In fondo Lino era anche suo fratello e l'affetto che l'aveva spinta a cercarli le dava il diritto di conoscere la tragica verità.

Le raccontò tutto e Lisa pianse sconsolata. Neppure Tina riuscì a trattenere le lacrime, tuttavia dovette farle coraggio e alfine, quando si fu calmata, le cinse amorevolmente le spalle. "Vieni", le disse. "Ti mostrerò il palazzo. Questa sera poi ti farò conoscere Alderigo che ora è a caccia nel bosco. È un uomo buono, ti piacerà". Le fece visitare ogni stanza ed infine la guidò nei sotterranei dove invecchiavano vini pregíati. Una sola porta non le aprì: era di rovere massiccio, serrata con un robusto catenaccio di ferro.

"Cosa c'è di là?" si informò Lisa incuriosita.

Tina scosse il capo. "Non è prudente avvicinarsi a quella porta", confidò. "Da oltre un secolo vi è rinchiuso un feroce drago vinto dal trisavolo del mio sposo che comunque volle risparmiargli la vita, imprigionandolo. A nessuno è consentito varcare quella soglia".

"Un drago!" esclamò Lisa presa da improvviso entusiasmo, quasi infantile. "Da sempre ho desiderato vederne uno. Ti prego, sorellina, dischiudi quella porta, solo di poco, quanto basta a sbirciare dentro".

Tina cercò di farla desistere. "È pericoloso", disse. "Neppure io l'ho mai visto".

"Ti prego, sorellina!" insistette Lisa eccitata. "Solo una sbirciatina breve, te lo prometto".

Tina esitò indecisa. Paventava le tragiche conseguenze che avrebbe potuto comportare la sua trasgressione, ma nel contempo non se la sentiva di deludere la sorella appena ritrovata. Di malavoglia scelse dal mazzo una grossa chiave e piano, con prudenza, la girò nella toppa e, tendendo l'orecchio per cogliere un eventuale segno di pericolo, dischiuse la pesante porta. Con un balzo Lisa le fu alle spalle e con un violento spintone la fece ruzzolare oltre l'uscio che prontamente richiuse. Un ruggito inumano prevalse sulle grida d'orrore di Tina, e poi fu di nuovo silenzio. Lisa si fregò le mani soddisfatta, si volse per tornare sui suoi passi e nell'ombra colse lo sguardo dell'agnello colmo di impotente disperazione. Per nulla turbata, corse di sopra e si rifugiò nella stanza da letto che era stata di sua sorella, tirò le tende alle finestre e si infilò sotto le coltri, al buio. Nell'oscurità Alderigo non si sarebbe accorto della sostituzione e lei, confidando nelle subdole arti della seduzione di cui si sentiva naturalmente dotata, era certa di riuscire, anche in una sola notte di passione, ad ammaliare il cognato al punto che non avrebbe avuto rimpianti per la scomparsa della sposa. Di Tina avrebbe detto che era fuggita per il timore che gli si rivelasse il matricidio di cui si era macchiata. Solo l'agnello era stato testimone del misfatto, ma già aveva in mente di come disfarsene. Suonò il campanello. Alla cameriera che accorse disse di non sentirsi bene e chiese di non essere disturbata.

A sera, di ritorno dalla caccia, Alderigo non trovò la moglie ad attenderlo come era solita fare e se ne informò presso la servitù. Appena seppe che Tina stava male, corse di sopra e, preoccupato, sedette sul letto accanto a lei.

"Amore, cosa ti senti? Vuoi che ti chiami il medico?" la interrogò allarmato.

"No, no", rifiutò Lisa con un fil di voce, serrando ancor più le coltri sul capo.

"Cosa posso dunque fare?" insistette Alderigo premuroso. "Vuoi che ti faccia preparare un brodo caldo?" "No, ti prego, non parlarmi di brodo", implorò lei. "Sto male".

"Vuoi un po' di cacciagione?" egli suggerì. "Ci sono lepri e starne appena uccise"

"Non è cacciagione che desidero", lei gemette.

"Dimmi cosa vuoi. Metterò a soqquadro il regno perché tu guarisca!"

Lisa sospirò: "Sei molto caro", disse. Esitò un istante, quindi in tono rassegnato soggiunse: "Penso che possa giovare alla mia salute un pezzetto di cuore arrostito del mio agnello".

Alderigo apparve sconcertato. Era tale l'affetto che legava sua moglie all'animale che temette di averne frainteso le parole. "Il cuore del tuo agnellino, hai detto?"

"So che può sembrarti crudele", ammise lei, dolente, "ma purtroppo sento che è l'unico cibo che può ridarmi salute".

Alderigo non stette su a pensarci. La salute di Tina era la cosa più importante in quel momento. Chiamò i servi ed impartì loro l'ordine di sgozzare l'agnello e di metterne sulla brace una porzione di cuore.

Questi, sebbene stupiti, non osarono replicare. Si munirono di coltelli ed andarono alla ricerca dell'animale. L'agnello, come li vide, capì che stavano per ammazzarlo ed accadde il prodigio. Esso che non aveva mai emesso alcun verso, terrorizzato, inseguito, si dette alla fuga attraverso le stanze del palazzo implorando in un lamentoso belato: "Sorella, mia sorella, ora affilano i coltelli per ammazzare tuo fratello. Tu sei in bocca ad un dragone e non mi puoi salvare".

Fuggiva e ripeteva la sua angosciata invocazione finché non fu udito da Alderigo il quale, colto da atroce sospetto, fermò i servi, si precipitò giù nel sotterraneo, spalancò la pesante porta di rovere ed affrontò il drago in tono minaccioso.

"Restituiscimi la mia sposa se non vuoi che ti apra il ventre con la mia lama", intimò.

Il drago, intimidito dalla determinazione dell'uomo, spalancò le fauci e rigettò la povera Tina, sconvolta ma viva, che si rifugiò fra le braccia del marito narrandogli, fra i singhiozzi, l'inganno perpetrato dalla perfida sorellastra.

Pazzo di furore, Alderigo raggiunse di corsa la stanza da letto e si scagliò su Lisa che, ignara, se ne stava rannicchiata sotto le coltri, colpendola più volte col pugnale fino a finirla. Poi, non ancora placato, ridusse la ragazza in pezzi che introdusse in un sacco, ponendone il cuore in evidenza. Consegnò alfine il sacco al suo messaggero più veloce affinché lo portasse alla sarta quale dono di Lisa.

Elvira, alla vista del cuore, giubilò convinta che fosse dell'agnello e, per festeggiare il successo del suo criminoso disegno, lo mise senza indugio a cuocere.

Non aveva mai mangiato con tanto gusto. Attratta dal profumo appetitoso, la gatta accorse e le miagolò intorno, maligna, reclamando la propria parte. "Dammene un boccone che ti confido un segreto", propose; ma Elvira, stizzita, l'allontanò con una pedata.

Quando fu satolla, la donna si levò da tavola e prese a tirar fuori e a riporre i pezzi di carne finché, nel ritrovarsi la testa di Lisa fra le mani, inorridì e comprese di essere stata tremendamente punita per la sua malvagità.

Le Fiabe - La Ciola

Quando la madre annunciò loro che, per la settima volta, era in attesa, spe­rarono ardentemente che nascesse una femmina. Erano sei maschi, più il pa­dre, e tutti lavoravano di buona lena la terra, ma a sera, al ritorno dai campi, non sempre la cena era in tavola. So­vente, poi, o non erano state ritirate dal calzolaio le scarpe portate a risuo­lare, o non erano state rammendate le calze che lasciavano a nudo i calcagni anneriti dalle zolle, e quasi mai le ca­micie erano lavate e stirate. Quanti incontri galanti sfumati, quante occa­sioni perdute, non potendosi mostra­re in giro come zotici o straccioni! No, quella povera donna, da sola, proprio non ce la faceva ad accudire sette ma­schi, e serpeggiava il malcontento che spesso sfociava in furiosi litigi.

Ma ora che la madre era di nuovo in attesa, la speranza di una femmina che, seppure col tempo, avrebbe po­tuto dare una mano, stemperava i dissapori. Tanta era la fiducia che tutti loro riponevano nella divina provvi­denza, che pian piano il desiderio fini col mutarsi in certezza.

Passarono i mesi e già l'evento incom­beva. Ora, ogni mattina, prima di la­sciare la casa, i giovani non trascurava­no di raccomandare alla madre: "Se succede oggi, metti fuori dell'uscio una scopa e una gerla, così, già da lontano, noi potremo capire".

"Non fatevi troppe illusioni", ammo­niva la madre, cercando di spegnerne i facili entusiasmi. "Potrebbe anche essere un altro maschio".

"In quel caso metti fuori una zappa ed un paio di stivali", le dicevano i ragazzi e, fatti i più svariati scongiuri, partiva­no per il podere.

Accadde di pomeriggio inoltrato. La bambina era rosea e paffuta, un vero amore! Dall'orto vicino, dove era in­tenta ad irrigare i pomodori, la comare accorse ai primi vagiti, portandosi die­tro la zappa che, insieme con gli stivali infangati, lasciò fuori dell'uscio prima di entrare. Nell'eccitazione, nel tram­busto, la puerpera dimenticò di di­sporre per i figli il segnale convenuto. Al tramonto, come sempre vociando, spintonandosi, ridendo, eppure tesi, pervasi da un'insolita trepidazione, i giovani rientravano. In vista della casa si fecero attenti, d'un tratto silenziosi e seri. Procedendo piano, non tardarono a scorgere gli stivali e la zappa lasciati dall'ignara comare. Fu come una gelida doccia, una frustata che lacerò le carni. Si immobilizzarono, incupiti, inabissati nell'amarezza, prostrati dalla delusione. Poi un sordo risentimento emerse dal silenzio interiore, colmò gli animi: si sentirono traditi, dal destino, dalla loro stessa madre.

Fu il primo dei fratelli a scuotersi, a riaversi in una reazione di rabbia. Si tolse il cappello e lo scaraventò in terra, calpestandolo. "A casa non ci torno", disse.

"Giusto!" gli fecero eco gli altri; "neanch'io!" e, disorientati, muti, si allontanarono, senza una meta, verso un ignoto destino.

Lisetta, fu questo il nome imposto alla bimba, crebbe in quella casa vuota, circondata, come nessun'altra, dall'affetto e dalle cure dei genitori. Ad undici anni era una donnina saggia ed accorta, proprio come l'avrebbero voluta i fratelli. Di loro non sapeva molto, in quanto la madre non ne parlava volentieri. Le rare volte in cui lei gliene aveva chiesto notizie, aveva ottenuto solo risposte evasive, se non addirittura silenzi colmi di angoscia.

In quel mattino di primavera il sole si era levato in un cielo limpido ed il tepore dell'aria invitava ad uscire. Lisetta era felice. La madre le aveva fatto indossare il vestito nuovo e, per renderla più civettuola, aveva confezionato un fiocco di nastro rosso chele aveva appuntato fra i capelli.

"Visto che vai fuori", le disse, "potresti arrivare fino al fosso a buttare 1'immondízia?"

La bambina assenti. L'impegno non le avrebbe preso troppo tempo e dopo sarebbe stata libera di incontrare le amiche. Prese il secchio dei rifiuti e con esso attraversò lo spiazzo che fungeva da aia. Fu a questo punto che una ciola[1], attratta dal colore del fiocco, si abbassò in volo e, afferratolo col becco, glielo portò via dal capo.

Lisetta, indispettita, lasciò cadere il secchio e rincorse il volatile, decisa a recuperare l'ornamento di cui si sentiva tanto fiera. Svolazzando, il grosso uccello si allontanò per i campi. Lei, mordendosi le labbra per impedirsi di piangere, lo seguì, illusa dalle frequenti soste che esso si concedeva.

Guadarono un torrente. Risalirono una collina per poi discenderne il versante opposto. Lisetta non desisteva, procedendo con cautela, pronta a ghermirla, quando la cornacchia si posava; rincorrendola fino ad averne il fiato mozzo non appena si levava in volo. Intestardita, non si rendeva conto del trascorrere del tempo. Si inoltrarono in un bosco.

Già calava il sole all'orizzonte, quando la bambina vide la cornacchia introdursi, attraverso un'angusta apertura circolare, nel sottotetto di una casa che sorgeva al margine di una piccola radura. Contenta di essere giunta al termine del lungo inseguimento, bussò con discrezione alla porta. Questa, pur sotto la lieve pressione dei colpi, si dischiuse, ma dall'interno nessuno rispose.

"C'è qualcuno?" interrogò allora con voce trepida.

Non ebbe risposta. Spinse piano l'uscio e, in punta di piedi, trattenendo il respiro, si addentrò in casa fino alla scala di legno che, attraverso un'apertura praticata nel soffitto, conduceva al sottotetto. Vi si arrampicò, cauta, trasalendo ad ogni scricchiolio delle vecchie assi.

Sopra, l'ambiente era vasto ed ingombro. Vi stagnava un gradevole profumo di frutta lasciata a maturare. Da un angolo buio e protetto la cornacchia, spaventata, volò via lasciando nel nido di sterpi il fiocco rosso che lei si affrettò a recuperare. Era esausta, spossata, ma soddisfatta. Pensò di concedersi qualche minuto di riposo. Invitante, sul pavimento di tavole, un mucchietto di paglia: vi si distese. Aveva fame e non esitò a mangiare qualche mela, dopo di che, vinta dalla fatica, si assopi. Fu destata da un rumore di stoviglie. Con prudenza, carponi, scivolò fin presso la botola. Si affacciò. Un giovane era intento a disporre sul tavolo piatti e posate. Il fuoco era stato acceso nel camino e le fiamme lambivano una grossa pentola annerita, sospesa alla catena. Fuori annottava. Lei ebbe paura. Si ritrasse, piano, e si rannicchiò in silenzio sul giaciglio di paglia. Non trascorse molto tempo chela stanza, di sotto, si animò di voci e rumori. Nuovamente la curiosità la indusse a spiare. Altri cinque giovani erano sopraggiunti e, tutti, sedevano intorno alla tavola. Si erano serviti di abbondanti porzioni che mangiavano con voracità.

"Domani tocca a Peppino", disse qualcuno.

"Zuppa di ceci", preannunciò quello che doveva essere Peppino.

Gli fece eco un corale mugugno di disappunto che una voce, intono scherzoso, tradusse in commento: "Peppi', la tua zuppa di ceci fa schifo solo a pensarci! "

"Zuppa di ceci ho detto e zuppa di ceci sarà!" tagliò corto Peppino.

Andarono presto a letto ed anche Lisetta si addormentò. Quando la mattina fu sveglia, il silenzio regnava nella casa. Timidamente si sporse a guardare. La stanza era vuota. Nella tinozza una pila di piatti da lavare. Ovunque disordine e sporcizia.

Sebbene convinta di essere sola, discese la scala procurando di non far rumore. Aveva fame. Frugò nella credenza e vi trovò del pane rappreso che mangiò con appetito, poi, quasi a voler ripagare i giovani della seppure inconsapevole ospitalità, lavò le stoviglie, rassettò la stanza, cercò la farina ed impastò due grosse pagnotte che lasciò a lievitare; quindi usci per il bosco alla ricerca di finocchietto selvatico e di altre piante aromatiche. Al ritorno infornò il pane, accese il fuoco nel camino e preparò una gustosa zuppa di ceci, insaporita con erbe e lardo tritato, come sua madre era solita fare. Quando, nel pomeriggio, Peppino rincasò, avverti un appetitoso profumo di vivande mescolarsi agli odori del bosco. Una volta dentro, poi, il suo stupore crebbe difronte alla tavola imbandita. Si sforzò di capire, ma tutti i suoi interrogativi rimasero senza risposta.

Quella sera i fratelli mangiarono di gusto, tanto da complimentarsi col cuoco che, in atteggiamento compiaciuto e schivo, preferì tacere sull'accaduto.

Al momento di andare a dormire, qualcuno si informò: "E tu, Luca, che ci prepari domani?"

"È venerdì, lo hai forse dimenticato? Si mangia di magro: perciò verdura e focaccia di mais", fu la risposta.

Il giorno successivo, Lisetta trascurò i vizzi prodotti dell'orticello per selezionare gustose verdure selvatiche, e per Luca, che pure tacque, fu un insolito successo.

Si andò avanti così, per cinque giorni, finché venne il turno del più giovane dei fratelli. "Ce la metterò tutta, domani", questi promise; "ma non vi aspettate granché. Non sempre gli gnocchi riescono".

"Siamo rassegnati, Dona'! Lo sappiamo che non fai differenza fra gnocchi e colla", gli fu obiettato, e la battuta fu accolta con una risata generale.

Puntuale, Lisetta preparò gli gnocchi ed anche una catasta di frittelle che cosparse di miele. Ma Donato si sentiva a disagio; gli pareva disonesto attribuirsi meriti che non gli spettavano. A pranzo ultimato, imbarazzato dai complimenti, cedette al bisogno di confessare.

"Non è me che dovete ringraziare", disse. "Qualcuno ha fatto il lavoro al mio posto, ma non so chi sia".

Un silenzio colpevole, niente affatto sorpreso, più laquace di qualsiasi esplicita ammissione, accolse le sue parole. "Non è che pure a voi... ! " indagò, severo, Donato.

Controvoglia, con cenni e borbottii, gli altri dovettero confermare il sospetto.

"Ebbene, deve esserci qualche estraneo in casa", egli arguì, d'un tratto inquieto.

Si misero alla ricerca, frugando in ogni angolo, finché uno di loro non si arrampicò fin sul sottotetto. "È qui, venite", chiamò, scoprendo Lisetta, impaurita, rannicchíata in penombra.

Accorsero tutti; la circondarono, premurosi e gentili. "Chi sei?" le chiesero. "Come ti chiami?"

"Lisetta", rispose con un fil di voce la bambina, tremante.

"Non temere. Nessuno ti farà del male", la rassicurarono.

La fecero scendere di sotto ed ancora la interrogarono. Lei raccontò del fiocco rosso, che mostrò estraendolo dalla tasca, della cornacchia, della propria testardaggine che l'aveva indotta ad un lungo inseguimento, fino a smarrire la via del ritorno.

"Certo, sei finita lontana!" convennero. "Il villaggio più vicino è a diverse ore di cammino".

"È strano però che dopo tanti giorni nessuno l'abbia cercata!" considerò Luca.

"I miei genitori sono anziani", spiegò lei. "Avevo dei fratelli: loro sì che mi avrebbero cercata, ma andarono via da casa tanti anni fa".

Tacquero, assorti, turbati. Un dubbio sottile si insinuava nell'agitazione che aggrediva i loro pensieri.

"Quanti erano i tuoi fratelli?" domandò, trepido, Peppino.

"Sei, mi disse un giorno la mamma". Un sospiro profondo, liberatorio, li scosse. "Si chiama Lisetta, come la nonna", ricordò qualcuno.

"È nostra sorella", affermò, convinto, Donato.

Fu gioia e commozione. Trascorsero l'intera notte, seduti intorno al tavolo, travolti dalla nostalgia e dai ricordi, a parlare dei genitori, del paese, dei tanti conoscenti. Qualcuno era morto, quasi tutte le ragazze che loro conoscevano s'erano sposate, una nuova generazione stava crescendo.

Era l'alba quando si misero in cammino verso casa. Dal ramo su cui era appollaiata, la ciola gracchiò. La guardarono: sembrava felice, soddisfatta, quasi non avesse agito per istinto, ma per un arcano disegno, o forse soltanto per liberare da una scomoda presenza umana la propria dimora.



[1]Cornacchia.

Le Fiabe - La casa dei gatti

Sisina non aveva mai conosciuto sua madre, morta nel darla alla luce, né il conforto di una parola buona o il calore di una carezza, premure che la matrigna riservava ad Elvira, la sorellastra nata dalle seconde nozze di suo padre. A lei toccavano i lavori più umili e pesanti e le occhiate di riprovazione del padre che, al ritorno dal lavoro, ogni sera, la matrigna attendeva sull'uscio di casa, assumendo un'aria imbronciata e disfatta per sottolineare quanta pazienza e spirito di sopportazione occorressero con `quella ragazza infingarda e ribelle'

Così Sisina soffriva in silenzio e, talvolta, si rifugiava nei sogni in cui, sempre più spesso, si immaginava in groppa ad un grosso uccello bianco, trasportata in volo al disopra delle nuvole dove, avvolta nella luce del sole, la madre le spalancava le braccia felice. E intanto, in attesa di quel magico giorno, sgobbava dall'alba al tramonto, si nutriva dei pochi avanzi che, lasciati in tavola incustoditi, il gatto le contendeva, vestiva gli indumenti smessi da Elvira che le andavano stretti, le lasciavano scoperte le gambe lunghe e magre, le appiattivano il petto che, ormai a quindici anni, le si inturgidiva.

In quel rigido giorno d'inverno, nonostante il soffio gelido della tramontana le indolenzisse le membra, Sisina era felice di essere al lavatoio per il bucato, in quanto era questo uno dei rari momenti di libertà di cui potesse godere. L'astiosità della matrigna, le occhiate maligne di Elvira, gli imbronciati silenzi del padre apparivano come stemperati nella quiete della campagna deserta. Ma aveva freddo e le mani, e i polsi che le maniche troppo corte della camicia le lasciavano scoperti, apparivano di un colore paonazzo che si chiazzava di lividi.

Prese dal cesto il sapone male sgusciò fra le dita irrigidite. Con un tonfo finì in acqua e si inabissò. Sisina si sentì raggelare dentro, il silenzio intorno le si fece ostile. Fu pervasa da sgomento cui seguì una disperata agitazione. C'era un canneto vicino: ne strappò la canna più lunga e la immerse nell'acqua. La vasca era così profonda che non riuscì neppure a raggiungerne il fondo. Allora, disperata, ormai convinta dell'impossibilità di recuperare quell'unico pezzo di sapone, considerò sconsolata i panni sporchi che non avrebbe potuto lavare e prese a singhiozzare sommessamente.

"Perché piangi, Sisina?" la interrogò una voce premurosa e gentile. La ragazza trasalì, si volse. Una vecchina minuta, vestita di nero, ricurva su un nodoso bastone le sorrideva, enigmatica e bonaria. Imbarazzata, Sisina si asciugò frettolosamente gli occhi col dorso della mano, tirò su col naso e, con voce tremula, spiegò: "Mi è finito in acqua il sapone e se non riporto la biancheria lavata la mia matrigna mi punirà".

Di nuovo la vecchina sorrise, rassicurante. "Se è solo questo il tuo problema, non hai che da scendere nella vasca", le disse. La ragazza stava per replicare che la vasca era colma d'acqua gelida e che ne sarebbe morta, quando si avvide che si era completamente svuotata e che una scala di pietra conduceva agevolmente sul fondo. Cercò con lo sguardo la vecchina, ma non la vide. Si strinse nelle spalle e, senza più pensarci, felice, si affrettò a discendere la scala.

Il pezzo di sapone era scivolato in fondo alla vasca, fin presso un grosso portone chiuso che ne occupava quasi un'intera parete. Meravigliata, si chiese dove immettesse e, vinta dalla curiosità, bussò. Non dovette attendere molto che il portone si spalancò rivelando la presenza di un gattino piccolo e gracile. Nel vederlo così minuto, così esile, Sisína si intenerì e si chinò a lisciargli il dorso.

"Povero gattino", disse, "che ci fai tutto solo in una casa così grande ed umida?

Il gattino inarcò la schiena, grato della carezza. "Ci vivo", rispose in un miagolio, "e ci lavoro. Ora debbo rimettere ordine nella stanza e quindi spazzare e lavare il pavimento".

Per nulla sorpresa che il gatto potesse esprimersi, la ragazza lo spinse delicatamente di lato ed entrò in casa. "Tu sei così piccolo e delicato", notò in tono di rimprovero: "Non puoi faticare tanto! Lascia che sia io a rassettare". Con fare deciso, che non ammetteva repliche, si dette alacramente a riordinare, quindi scopò e lavò il pavimento. Solo quando ebbe finito si rese conto che il gattino si era allontanato. Era così bella, calda e accogliente quella casa che le venne la curiosità di sbirciare in qualche altra stanza. Si affacciò oltre un uscio socchiuso e scoprì una grande cucina dove un micio dall'aspetto delicato si affannava fra pentole e tegami. Non trovò strano che un gatto svolgesse mansioni di cuoco, piuttosto si dispiacque per la mole di lavoro che gravava su quella fragile bestiola, così si offrì di cucinare in sua vece.

Portata a termine tale incombenza, si spinse oltre e giunse nella stanza da letto dove vide un gatto indaffarato a rimettere in ordine un enorme giaciglio disfatto.

"Poverino", lo commiserò. "Lascia fare a me che sono più pratica". Ciò detto, in men che non si dica, rifece il letto. Aveva appena ultimato di spolverare comodini e poltrone che nella stanza fece il suo ingresso una grossa gatta bianca, dal pelo liscio e lucente, dall'incedere misurato, dal portamento altero, che lei pensò fosse la padrona del palazzo.

"Brava! " la complimentò la gatta in un miagolio soddisfatto. "Sei una ragazza buona e diligente".

"Non è nulla", si schermì Sisina, fra timida e compiaciuta. "Sono abituata a tale tipo di lavori". Le venne in mente il bucato da fare. "Vorrei trattenermi ancora un po' per dare una mano, ma purtroppo ho i panni da lavare e temo di aver fatto tardi", si scusò.

"Non preoccuparti", la rassicurò la gatta. "Vai pure tranquilla e vedrai che non ti succederà nulla".

Sisina accennò ad un sorriso, sebbene preoccupata, e fece per accomiatarsi. "Come ultima cortesia", pregò la gatta, "una volta uscita vorrai chiudere il portone. La chiave è custodita in un foro della parete", spiegò. "Bada però di non tirarla subito fuori. Attendi prima il raglio dell'asino e resta immobile; poi canterà il gallo e tu alzerai lo sguardo al cielo. Sarà quello il solo momento in cui ti sarà consentito prenderla".

La ragazza annuì, salutò con un leggero inchino e si affrettò verso l'uscita. Una volta fuori individuò il foro e, come le era stato chiesto, vi introdusse le mani ed attese. Un asino, lontano, emise un lungo raglio e lei, obbediente, non si mosse. Dopo un breve silenzio l'allegro chicchirichì di un gallo si levò nell'aria e lei volse lo sguardo al cielo. Una vivida scia luminosa solcò l'aria ed una stella d'oro le si posò sulla fronte. Fu a quel punto che Sisina ritrasse le mani dal foro e con grande sorpresa e gioia le vide ricolme di monete d'oro. Raggiante, ma pur sempre preoccupata per il bucato che l'atten­deva, risalì la scala che la ricondusse fuori dalla vasca e qui ebbe l'ulteriore gradita sorpresa di trovare i panni la­vati e riposti nel cesto e, su di essi, il sapone residuo avvolto in foglie di vite.

Felice, eccitata, tornò a casa. La matri­gna l'attendeva, arcigna, sulla soglia dell'uscio. "Perdigiorno, mangiapane a tradimento", la redarguì; "dove sei stata tutto questo tempo?" E già si apprestava a bastonarla col lungo cuc­chiaio di legno che aveva tenuto celato sotto il grembiule, quando la ragazza tirò fuori dalla tasca una manciata di monete d'oro e gliela mostrò, raccon­tandole quindi tutto d'un fiato l'acca­duto.

Per l'intera notte la matrigna fu rosa dalla rabbia e dall'invidia e non riuscì a chiudere occhio. La mattina si levò di buon'ora e corse a destare la pro­pria figlia, le apprestò una cesta di stracci e le ordinò di recarsi al lavatoio, raccomandandole di lasciarsi sfuggire il sapone, di fingersi disperata e di seguire le indicazioni della vecchia che le avrebbero consentito di raggiunge­re la dimora dei gatti.

Elvira, insonnolita, livida di gelosia per la buona sorte toccata alla sorella­stra, si incamminò, brontolando e ma­ledicendo, a stento reggendo il cesto in bilico sul capo in quanto non vi era avvezza.

Giunta al lavatoio, prese il pezzo di sapone e lo scagliò in acqua, quindi cominciò a frignare e a spiare intorno, impaziente, l'arrivo della vecchina.

Quando la vide comparire in fondo al viottolo ed avanzarsi, ricurva ed incer­ta, si dette a gemere più forte, a stento celando il dispetto che le provocava la lentezza del suo passo. Dovette atten­dere interminabili minuti prima che quella le fosse vicina e, con impudente gesto protettivo, le posasse la mano sporca e scarna sulla spalla, senza al­cun riguardo per l'immacolata cami­cetta di pizzo che indossava.

Contrariata, disgustata, Elvira si ri­trasse e le lanciò un'occhiata di severo rimprovero che l'anziana donna parve non cogliere in quanto la interpellò con voce dolce ed amichevole: "Per­ché piangi, ragazzina?"

Lei le indicò il sapone in fondo alla vasca. "E melo chiedi?" berciò. "Dim­mi piuttosto come fare per recuperar­lo".

La vecchina annuì condiscendente, schioccò le dita. "Ora puoi andare", disse, e riprese il suo lento cammino. La ragazza costatò soddisfatta che l'ac­qua era tutta defluita dalla vasca e si affrettò a discenderne la scala. Giunta sul fondo, cominciò a vibrare colpi impazienti col piede contro il portone. Il solito gracile micio venne ad aprire e lei, con una pedata, lo spinse di lato. Entrò: la stanza era in ordine, ma si dette un gran daffare, rimuovendo sup­pellettili ed oggetti.

"Qui è a posto", annunciò ad alta voce e corse in cucina dove, scacciato il gatto impegnato ai fornelli, prese a colmare pentole e tegami di qualsiasi cosa di commestibile le capitasse sotto mano.

"Fatto anche questo", gridò e si precipitò nella camera da letto dove palpò materassi e coperte prima di fermarsi, impaziente, ad aspettare.

La gatta bianca non si fece attendere. "Brava", le disse. "Ora che hai fatto ciò che dovevi, puoi andare".

"E la chiave per chiudere il portone!?" insorse la ragazza, aggressiva. "Non mi dici dove prenderla?"

"Già, la chiave..." miagolò in tono grave la gatta. "La troverai in un foro della parete. Rammenta, però, di levar la testa solo al canto del gallo".

Elvira, eccitata, corse fuori ed inserì le mani nel foro indicato. Il gallo cantò, ma lei non si mosse: non era una sciocca! Quella gatta maligna voleva trarla in inganno, ma lei sapeva bene, dal racconto fatto dalla sorellastra, che solo al secondo verso l'incantesimo si sarebbe compiuto.

Così attese e venne il raglio dell'asino, e lei volse lo sguardo al cielo. Una nube nera si staccò dalla plumbea calotta invernale che la sovrastava e piombò sul suo capo, piantandole sulla fronte una repellente coda di ciuco. Inorridita, Elvira ritrasse le mani e le trovò imbrattate di sterco, risalì dalla vasca e vide i suoi cenci disseminati nella mota e, in preda ad una folle disperazione, ciondolando il capo appesantito dalla coda ondeggiante, fece precipitoso ritorno a casa urlando:

"Mamma, mamma, lo 'mbooli 'mbo' [1] piglia re fuorfici e taglielo mo'» [2].

Per quanto la madre, nei giorni che seguirono, si accanisse a recidere quel

la ripugnante appendice caudale, essa ricresceva più lunga e robusta di prima.



[1] Appendice oscillante a guisa di altalena..

[2] Prendi le forbici e taglialo subito.



Lancio di palle di neve.

Le Fiabe - Angela

Angela aveva appena compiuto i dodici anni quando la madre mori. Non ebbe subito la consapevolezza della tragedia che si era abbattuta sulla sua giovane esistenza. Certo, provò un immane dolore, ma stemperato dalla pietà dei vicini e dalla solidarietà del parentado che, dopo il funerale e per tutta la settimana che seguì, le affollò la casa.

Le zie rassettavano, le facevano il bucato, le stiravano la bianchieria, ed al mattino, di buon'ora, le portavano il latte caldo, e a pranzo e a cena non le facevano mancare pollo, salame e formaggio.

Fu il giorno successivo al secondo funerale, quando suo padre la svegliò all'alba per ordinarle di preparargli la colazione e di portargliela al podere, che si rese conto di essere rimasta sola in quella casa silenziosa. Tuttavia si fece coraggio, bucciò le patate, le fece a fette, spezzettò i peperoni sotto ace­to e frisse il tutto, così che, un'ora più tardi, potette raggiungere col cesto della colazione il podere. Mangiarono in silenzio all'ombra di un fico, dopo di che lei tornò nella sua casa vuota dove l'attendevano le mille incomben­ze a cui non era stata preparata, e la predisposizione del pranzo della sera che avrebbe consumato in silenzio col padre.

Passarono lunghi e tristi mesi finché non giunse l'inverno. Una sera il pa­dre, rincasando, le elargì un insolito sorriso. "Mi risposo", le disse.

Lei non ebbe il coraggio di interrogar­lo, ma avvertì un tuffo al cuore. Appa­recchiò la tavola in silenzio e gli servì un'abbondante porzione di verdura cotta ed un trancio fumante di focac­cia di mais. Mangiarono come sempre, senza scambiare una sola parola. An­gela però era sopraffatta da un turba­mento insolito, travolta da una ridda di sentimenti contraddittori che le af­follavano la mente e le dolevano in petto. Non avrebbe saputo dire se era più contenta o spaventata dalla novità, ed il cibo stentava a scenderle giù per la gola.

Terminato il pasto frugale, il padre tracannò un ultimo sorso di vino diret­tamente dal boccale, si forbì i baffi col dorso della mano, eruttò soddisfatto e, evitando di guardarla, annunciò:

"Carmela... Tu la conosci! È vedova da più di un anno ed ha una figlia della tua età".

Angela soffocò un sospiro, rassegnato o, forse, liberatorio. Con gli occhi bas­si si diede a sparecchiare la tavola. Conosceva di vista Carmela e con Anna, la figlia, aveva frequentato il catechismo, la domenica, per un mese circa.

Quella notte non riuscì a dormire. Si rigirava nel letto in preda ad un'eccita­zione nuova, sconosciuta, che non sa­peva interpretare, e le spoglie del ma­terasso gemevano ad ogni movimento. Le nozze furono celebrate un mese più tardi. Una semplice cerimonia in chie­sa e poi Carmela ed Anna si trasferiro­no nella casa di suo padre.

Quel primo giorno Carmela, la matri­gna, fu premurosa e gentile. La inter­pellava di continuo, con voce accatti­vante, per informarsi su dove fossero le cipolle, e l'olio, e il tegame per la frittura. Anna, invece, si aggirava per casa, curiosa e invadente, senza de­gnarla di un'occhiata. Il letto di lei era stato sistemato nella sua camera, a ridosso della parete opposta a quella dov'era il suo. Ad Angela la soluzione era apparsa come una violazione della propria intimità, ma non aveva osato obiettare.

La notte Anna russò ed Angela non riuscì a chiudere occhio. All'alba fu svegliata da alcuni strattoni nervosi. Aprì gli occhi assonnati e vide la matri­gna che, china su di lei, le intimò in un sussurro: "Alzati: occorrono fascine". Lo sguardo maligno della donna le raggelò il sangue. Avvertì un gran freddo. Saltò giù dal letto e si vestì in fretta. Anna russava, il capo sotto le coltri.

Suo padre era già fuori, al podere. Lei si diresse alla credenza per prendersi un pezzo di pane.

"Mangi dopo", berciò la matrigna. "Ora vai al bosco e portami cinque fascine".

Angela non replicò. Il freddo del mattino era pungente. Rabbrividì, ma si avviò verso il bosco, mentre lacrime amare le bruciavano gli occhi. Cinque fascine! Come avrebbe fatto a raccogliere cinque fascine? E a portarle? II suo pensiero corse alla madre defunta, alla sua dolcezza, alle sue carezze, e le labbra si mossero ad implorare: "Mamma, aiutami!"

II bosco era gelido e tenebroso, umido di brina, insidioso di rovi. Una civetta emise il suo verso lamentoso e volò via con un battere di ali. Lei si spaventò, si rifugiò nella cavità del tronco di un vecchio albero, al riparo dal vento, si rannicchiò su se stessa e, il viso fra le mani, cominciò a singhiozzare in silenzio.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase in quello stato di disperato torpore da cui, ad un tratto, una voce profonda, cavernosa, la richiamò alla realtà.

"Perché piangi?" le chiese.

Lei sollevò il viso e vide l'uomo: gigantesco, dal torace robusto e muscoloso, dalla capigliatura lunga e folta, dalla fluente barba incolta che gli sfiorava il petto. Più in là, alle sua spalle, una bicocca: la sua casa, forse, che lei non aveva notato prima. L'uomo le si accoccolò accanto. "Perché piangi?" ripeté, ed il tono era gentile, amichevole.

Con voce rotta dai singhiozzi, tremula per i brividi di freddo che le scuotevano le membra, lei gli raccontò della madre morta, e della matrigna, e delle fascine che avrebbe dovuto portarle, mentre intimamente sentiva di potersi fidare di quell'omaccione.

L'uomo ascoltò paziente poi, senza profferire parola, tornò in casa e ne uscì con un grosso pezzo di focaccia che le mise fra le mani. "Mangia", le disse, "ed aspettami qui"; quindi, con passo pesante, scomparve nel bosco. Angela, alquanto rincuorata, aveva appena finito di mangiare di buon appetito che l'omone riapparve portando in spalla cinque pesanti fascine. "Andiamo", le disse, e si avviò verso il paese.

Lei lo seguì, docile, senza fare domande, fin presso la sua casa dove l'uomo, non visto, depose il fardello per subito allontanarsi verso il bosco.

La mattina successiva Angela fu nuovamente destata all'alba dalla matrigna perché provvedesse a raccogliere altre cinque fascine, e ancora la ragazza fu aiutata dall'omone in questa sua incombenza.

La storia si ripeté per molti giorni ancora, finché una mattina la matrigna ordinò ad Angela di raccogliere non cinque, ma dieci fascine, in quanto avrebbe dovuto cuocere il pane.

La ragazza, disperata, raggiunse quasi di corsa il bosco, vi si inoltrò e, non incontrando l'omone sulla sua strada, andò a bussare all'uscio della di lui bicocca. Questi venne fuori ed ascoltò la nuova richiesta della matrigna, quindi assentì gravemente.

"Posso aiutarti", assicurò; "ma in cambio voglio che tu metta a soqquadro la mia casa, che mi distrugga tavolo e sedie, che disperda per il bosco le mie provviste". Ciò detto, si allontanò.

Angela rimase perplessa per la stranezza della richiesta. Non se la sentiva di esaudire un tale desiderio. L'uomo era stato buono con lei e non le pareva giusto ricambiarlo causandogli un così grave danno. Entrò. La casa era piccola, una stamberga in cui regnava il disordine più completo. D'istinto, paventando le conseguenze della sua disobbedienza, impugnò la scopa e prese a pulire il pavimento, poi rifece il letto, lavò le stoviglie incrostate di cibo rappreso, accese il fuoco, rammendò gli indumenti laceri.

Quando l'uomo rincasò non aveva con sé le fascine. Si guardò intorno con occhio inespressivo ed Angela tremò dentro di sé temendone la collera.

"Non ho potuto", balbettò. "Mi dispiace, ma non ho potuto fare quanto mi avete chiesto". Mortificata, uscì. Un freddo vento di tramontana soffiava sul bosco.

L'uomo la seguì. "Siedi in terra", le ordinò in tono burbero. "Inserisci mani e piedi nel foro della portella[2] e volgi il viso al cielo".

Angela obbedì subito, accettando di buon grado la punizione, conscia della propria colpa. Il foro era angusto, ma non ebbe difficoltà ad ottemperare a ciò che le era stato ordinato, quindi volse gli occhi verso l'alto. Improvvisa, una vivida luce illuminò il bosco ed una stella d'oro solcò il cielo per imprimersi sulla sua fronte. Ritrasse gli arti e scoprì di avere scarpette d'oro ai piedi ed anelli con brillanti e rubini alle dita delle mani. Si sollevò prontamente e, felice, corse a casa.

Alla vista di tanta ricchezza la matrigna fu presa da stupore misto ad invidia. "Dove hai preso tutto questo?" sibilò.

"Un uomo, nel bosco", ansimò Angela, incapace di esprimersi sia per l'affanno dovuto alla lunga corsa che per l'eccitazione chele veniva dall'improvvisa fortuna.

La matrigna non volle ascoltare altro. Si precipitò in casa ed ordinò alla figlia di affrettarsi a raggiungere il bosco in cerca dell'uomo che avrebbe potuto farla ricca.

Anna non se lo fece ripetere due volte e raggiunse il bosco di corsa. Vide l'omone dinanzi alla sua bicocca e gli si parò davanti, in atteggiamento risoluto.

"Fammi ricca", gli ordinò.

Quello la fissò lungamente, pensieroso, quindi con voce stanca, rassegnata, le disse: "Entra e distruggi tutto quanto trovi in casa".

Anna che, accecata dalla cupidigia, era ansiosa di compiacerlo, raccolse un'ascia che era lì in terra e, entrata in casa, si dette di buona lena a menar colpi contro qualsiasi cosa le capitasse sotto mano, così che in breve ogni suppelletile fu demolita, ogni orcio, ogni brocca, ogni tegame ridotti in mille pezzi.

Uscì, esausta ma felice, e chiese all'uomo rimasto in attesa: "Va bene così?" "Hai meritato il premio", convenne lui. La fece sedere in terra, le fece inserire nel foro dell'usciolo gli arti e la invitò a volgere il viso verso l'alto.

Di colpo l'aria si incupì, nuvole nere solcarono il cielo, il tuono brontolò minaccioso e un fulmine illuminò sinistramente il bosco. Fu allora che una coda d'asino venne giù dall'alto e si attaccò saldamente in mezzo alla fronte di Anna, mentre gli arti le venivano imbrattati da una pioggia di fetído sterco.

La ragazza si levò in piedi, inorridita, e scappò verso casa, col capo ciondolante, appesantito dall'ingombrante appendice. E correndo piangeva, e supplicava la madre, lontana ed ignara: "Mamma, mamma, lo 'mbooli 'mbo piglia re fuorfici e taglielo mo'!"[3]


[1] Di epoca successiva alla narrazione de "La casa dei gatti", ne costituisce, forse, la rivisitazione in chiave più realistica, comunque improntata alla cultura del tempo.

[2] Tali fori, di forma circolare o quadrata, erano praticati negli uscioli, in basso, per consentire il passaggio del gatto.

[3] Mamma, mamma, l'appendice ondeggiante, prendi le forbici e recidila ora!

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