Diritto alla Storia, L'ascesa normanna

Diritto alla Storia - Capitolo 8

Alla morte di Ottone III cinse la corona dell’Impero d’Occidente Enrico II. Permanevano, forti, le tensioni fra Greci, Longobardi ed una classe emergente erudito-borghese che aspirava al riscatto sociale. I Saraceni non desistevano dalle loro scorrerie, contrastati dalle sole truppe di mercenari tedeschi al soldo del migliore offerente. I signori locali congiuravano gli uni in danno degli altri, mossi da sfrenate ambizioni. Pestilenze e carestie avevano assunto carattere endemico.

Nell’anno 1003 Adelferio II, conte di Avellino, riuscì a spodestare dal principato di Benevento Pandolfo II.

Restava immutato l’assetto del territorio di Paternopoli, tuttora ripartito fra le diverse comunità monastiche. Il De Jorio, appellandosi ad una improbabile fonte, asserisce: Nell’anno 1004 Paterno era soggetto all’abate di Montevergine, come si legge in un antico istrumento1.

L’errore è grossolano. La costruzione dell’ab-bazia non fu iniziata che nell’anno 1119 da San Guglielmo da Vercelli. In quell’anno 1004 Paterno, cioè la porzione di territorio che aveva costituito la pars dominica del signore longobardo, continuava a restare di proprietà del monastero di San Vincenzo al Volturno in quanto non era mai stata riscattata dagli eredi di Pietro Marepahis. Meraviglia che l’inesattezza sia stata accettata e confermata da innumerevoli studiosi fra cui Strafforello2, autore di una pur pregevole opera.

Nell’anno 1005 Pandolfo II rientrò in Benevento con la forza e, associato nel 1007 al nipote Pandolfo III salito al trono di Capua, si illuse di poter restaurare sui due troni la stirpe di Capo-di-Ferro.

Spontanei movimenti libertari fiorivano intanto in Puglia e, nell’anno 1009, Melo di Bari se ne pose a capo, ma la decisa reazione bizantina lo costrinse a riparare a Benevento.

Caldeggiata dal papa e sostenuta dall’imperatore, venne concretizzandosi una coalizione antibizantina. Purtroppo però Enrico II fu richiamato in Germania e con la morte di Pandolfo II, nel 1015, la coalizione automaticamente si dissolse.

In quell’anno, quell’aspirazione di libertà, di ascesa economica, sociale e politica che permeava l’Italia esplose in Benevento che si dette una prima rudimentale forma di comune, sotto la guida di nobiles e mediocres, cioè dell’aristocrazia e del popolo.

Nel 1016 il papa Benedetto VIII raccomandò ai Beneventanos Primates un gruppo di Normanni al comando di un certo Giselberto, perché lo assoldassero al fine di fornire sostegno a Melo di Bari nella lotta contro i Greci.

Non è che mercenari normanni facessero il loro primo ingresso nel sud d’Italia in quell’anno 1016. Questi valorosi soldati di ventura, originari delle regioni scandinave, diretti discendenti delle tribù vichinghe che nel 911, capeggiate da Rollone, avevano ottenuto da Carlo il Semplice di Francia la contea di Rouen dando alla regione il nome di Normandia, avevano già avuto modo di distinguersi in battaglia contro i Saraceni, pare nell’anno 1001, quando un gruppo di essi, di ritorno dalla Terra Santa, era approdato a Salerno assediata dagli infedeli.

Melo, che con l’aiuto dei principati longobardi vedeva alfine possibile la liberazione della Puglia dal giogo bizantino, stipulò accordi coi capi normanni, promettendo loro assegnazioni di terre liberate; e questi, incoraggiati, sollecitarono l’intervento di altri connazionali che accorsero numerosi, portandosi dietro finanche le mogli ed i figli. Ma i Longobardi, dilaniati da dissidi interni, non tardarono a ritirarsi dalla lega e Melo, lasciato solo, fu sconfitto e costretto alla fuga.

Morto Melo nel 1020, i Normanni preferirono sparpagliarsi sui Principati, senza riguardo a bandiera o idealità; essi erano un elemento fortissimo, ma facinoroso, torbido e manesco, e colle armi potevano crescere facilmente fra deboli e discordi: come difatti crebbero e con straordinaria rapidità1.

Di loro così scriveva, nell’anno 1125, il cronista normanno Guglielmo di Malmesbury: ... sono un popolo di guerrieri e dalle guerre difficilmente riescono a stare lontani. Audaci nell’avventurarsi contro il nemico, ma pronti ad usare ogni inganno quando la sola forza fisica non è sufficiente ... depredano i sudditi, quantunque li difendano dagli altri; pur essendo fedeli ai loro sovrani, si vendicano alla minima offesa. E nella sua storia della conquista della Sicilia ad opera del conte Ruggero d’Altavilla, così si esprimeva, intorno al 1100, Goffredo Malaterra: Questo popolo è dotato di una particolare ingegnosità. ... Si mostra nello stesso tempo generoso ed avido.

Nell’anno 1022 l’imperatore Enrico II, forte di un esercito di 60.000 uomini, discese nel meridione d’Italia per scacciarne definitivamente i Bizantini. Dal marzo all’aprile, nella definizione di un piano d’azione, insieme col Papa sostò in Benevento da dove alfine mosse e pose l’assedio alla città di Troia. Ma il clima torrido della Puglia lo costrinse a desistere dall’impresa, così dovette tornarsene in Germania, non senza però aver prima ricompensato i capi degli eserciti di ventura normanni che lo avevano affiancato nella spedizione con l’assegnazione di terre nei principati di Salerno e di Benevento.

Nell’anno 1026 fu Corrado II a cingere la corona imperiale ed a lui fecero atto di vassallaggio i capi normanni a cui fu demandato il compito di difendere i confini meridionali dell’Impero dalla minaccia bizantina.

Pandolfo IV, principe di Capua, nel novembre del 1027 assaltò ed espugnò Napoli. L’estromesso duca Sergio IV, tra la fine del 1029 ed i principi del 1030, assoldate schiere normanne capeggiate da Rainulfo Drengot, riconquistò la città ed assegnò quale compenso al capo normanno un territorio che venne a costituire la contea di Aversa.

Nel settembre del 1033 morì Landolfo V, principe di Benevento, e gli successe nel governo del principato il figlio Pandolfo III. Dal canto suo Pandolfo IV di Capua, forte di un’agguerrita schiera di Normanni al proprio soldo fra cui i fratelli d’Altavilla2, manifestava mire espansionistiche, sicché l’imperatore Corrado II, nel 1038, armò una spedizione con la quale discese in Italia ed il 13 maggio occupò Capua.

Dalla ridistribuzione delle terre che ne seguì si avvantaggiarono Rainulfo Drengot e numerosi altri capi normanni. Questi Normanni, che da un buon trentennio venivano sempre più numerosi nel Mezzogiorno, mostravano ormai di non voler più essere soltanto dei mercenari mobili, ma intendevano di fissarsi; e non solo quindi si annidavano qua e là, e si facevano dare investiture di questa e di quella terra, ma anche si mescevano con matrimoni agli indigeni3.

Nel 1039 morì l’imperatore Corrado II. Al fine di liberarsi della presenza saracena in Sicilia, caldeggiata dal Papa, si costituì una coalizione di Longobardi e Bizantini a cui aderirono i Normanni comandati dai fratelli d’Altavilla Guglielmo detto Braccio-di-Ferro, Drogone e Umfredo, figli di Tancredi e della di lui prima moglie, Muriella. Ma una rivolta antibizantina scoppiò nelle Puglie e a capo dei ribelli si pose Musando, subito affiancato da Argiro che era figlio di Melo. Quest’ultimo chiamò in proprio aiuto il normanno Rainulfo Drengot, così la spedizione organizzata per scacciare i Saraceni dalla Sicilia si rivolse contro i Greci di Puglia. Per tale impresa i diversi schieramenti normanni elessero come loro capo Atenolfo di Benevento, ma questi ne tradì la fiducia accordandosi con l’Imperatore d’Oriente.

Anche il figlio di Melo, Argiro, dal canto suo aspirava ad un compromesso con i Greci, così i Normanni, sia del Drengot che dei d’Altavilla, offrirono i propri servigi a Guaimaro IV, principe di Salerno e di Capua, il solo impegnato a continuare la guerra contro Bisanzio. Per questa loro scelta, Rainulfo Drengot e Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio-di-Ferro, ottennero la promessa di spartizione delle terre che sarebbero state conquistate.

Nell’anno 1040, parimenti al soldo del principe Guaimaro IV, erano giunti in Italia altri due figli di Tancredi, Ruggero d’Altavilla, che era il minore, ed il fratello Roberto, detto il Guiscardo, cioè l’astuto, primogenito delle seconda moglie, Fressenda. Gli scrittori coevi, seguaci e sostenitori dei Normanni, guardano quasi ammaliati codesti due fratelli; e l’audacia, il coraggio ed il fulgore onde risplendono le imprese di essi, infondono nella loro prosa il colore ed il sapore di un’epica1.

Vinti i Bizantini, a Rainulfo Drengot fu assegnato Siponto e a Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio-di-Ferro, nell’anno 1042 fu concesso il titolo di primo conte di Puglia.

Rainulfo Drengot morì nell’anno 1045. Guaimaro IV, forte del sostegno dei Normanni, aveva consolidato il suo potere su un vasto territorio che affacciava sull’Adriatico, sullo Ionio e sul Tirreno. Una sua figlia era andata in sposa a Drogone d’Altavilla che, nel 1046, subentrò al deceduto fratello Guglielmo, detto Braccio-di-Ferro, nel titolo di conte di Puglia.

Preoccupato di questa accresciuta potenza, e volendo riaffermare la propria autorità sulla Longobardia meridionale, l’imperatore Enrico III discese a Roma nel febbraio del 1047 e confermò i Normanni, della cui forza aveva da tenere debito conto, nei loro titoli e nei loro possedimenti. Ma un grave episodio venne a verificarsi: la suocera dell’Imperatore, Agnese d’Angiò, di ritorno da un pellegrinaggio al Gargano, passando per Benevento fu ingiuriata ed offesa nel corso di un tumulto popolare. Risentiti, l’Imperatore ed il papa Clemente II mossero contro la città e vi posero l’assedio, senza tuttavia poterla espugnare. Dovendone ripartire, Enrico III affidò al Papa il compito di portare Benevento alla capitolazione e assegnò parte del principato ai Normanni, legittimando, altresì, ogni loro futura conquista.

Avuta in questo modo via libera, i Normanni, incontrando scarse resistenze, si dettero ad occupare le terre del principato. Di Ariano si impossessò Gerardo di Buonalbergo, a Boiano si insediò Rodolfo e Telese fu presa da Ugo. Nel 1048, poi, occuparono Troia, aprendosi la strada verso la Calabria. Erano pochi e non avevano nulla, tranne che una dote, tanto più preziosa quanto più essa era ignota alla contrada: lo spirito d’unione che faceva di tanti mercenari un fascio di forze compatte e concordi al comando di alcuni capi, valorosi e spregiudicati insieme2.

Legittimati dal consenso imperiale, ormai non riconoscevano più alcuna autorità locale. L’eco delle loro facili conquiste non tardò a raggiungere i Paesi scandinavi da dove altre genti si mossero alla volta dell’Italia meridionale a dar man forte, ma soprattutto a depredare non solo i centri opulenti, ma anche chiese e monasteri sparsi nelle campagne.

La loro tracotanza e l’accresciuta potenza cominciavano a destare preoccupazioni anche nel Papa che vedeva minacciati i suoi stessi possedimenti. Difatti, Codesti avventurieri del secolo XI non sentirono scrupolo, durante le loro prime armi, di occupare, con le terre di questa o di quella chiesa locale, anche le terre di S. Pietro sparse, qua e là, nel paese, ove si facevano largo con impeto incontenibile1.

Esasperato, nella primavera del 1050 Leone IX corse in Germania da Enrico III, ottenendone mandato di pacificare Normanni e signorie meridionali. Con la mediazione del Papa i problemi parvero avviarsi a soluzione, anche perché in Benevento prevalse il partito pontificio; ma i Normanni, nonostante le promesse di deporre le armi, continuarono a compiere scorrerie e nefandezze di ogni genere.

Nel dicembre dell’anno 1050 papa Leone IX ottenne dall’imperatore Enrico III il dominio della città di Benevento, e ciò fu accolto con favore dai Beneventani che speravano fosse posto in tal modo un freno all’espansione normanna sulle terre del principato. Nel 1051 Leone IX dichiarò decaduta la dinastia longobarda in Benevento e pose al governo della città un proprio rappresentante col titolo di Rettore, imponendo nel contempo al longobardo Guaimaro IV, principe di Capua e di Salerno, ed a suo genere, il normanno Drogone d’Altavilla, conte di Puglia, il giuramento di sottomissione alla nuova signoria.

L’impegno estorto al conte di Puglia non fu tuttavia sufficiente a frenare le smanie normanne tanto che, nell’agosto del 1051, esasperati, i Longobardi ordirono in loro danno una congiura in cui perse la vita lo stesso Drogone d’Altavilla.

I Normanni, con l’appoggio di Guaimaro IV, elessero a loro capo Umfredo d’Altavilla che con la morte del fratello Drogone aveva assunto il titolo di conte di Puglia, e dilagarono, per vendetta, nelle terre del principato, giungendo a minacciare la stessa Benevento. Leone IX discese nel Sannio in un tentativo di pacificazione, ma le milizie pontificie furono assalite e disperse dai Normanni. Era l’anno 1052.

Il 3 giugno di quello stesso anno Guaimaro IV cadeva a Salerno vittima di una congiura che costituì nuovo pretesto di reazione per i turbolenti Normanni. Leone IX, deciso a farla finita con questi, richiese l’aiuto militare degli imperatori di Occidente e di Oriente, ed egli stesso assunse il comando dell’esercito nello scontro decisivo che ebbe luogo presso Civitate, nel Tavoliere delle Puglie, il 18 giugno 1053.

La coalizione antinormanna fu però sgominata ed il pontefice, alla cui presenza Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo e gli altri duci normanni pur si inchinarono, fu fatto prigioniero e tradotto nella città di Benevento.

Morto Leone IX il 19 aprile dell’anno 1054, e quindi anche il suo successore Vittore II, salì al soglio pontificio Stefano IX, acerrimo nemico dei Normanni che, dal novembre del 1057 al marzo del 1058, si prodigò per raccogliere nuove forze da impiegare contro di essi; tuttavia la morte lo sorprese prima che avesse potuto portare a compimento i suoi progetti.

Gli successe Niccolò II che, con spirito pragmatico, riconoscendo ormai la consolidata potenza normanna, si risolse a trattare con essi alla ricerca di un definitivo e duraturo equilibrio. A Roberto il Guiscardo, che lo aveva sostenuto nella lotta contro l’antipapa Benedetto X, riconobbe, col concordato stipulato a Melfi nell’anno 1059, il diritto di possesso delle terre occupate, col titolo di conte di Puglia e Calabria; dal canto suo il Guiscardo riconobbe la supremazia feudale della Chiesa romana, impegnandosi alla restituzione delle chiese alla diretta dipendenza della sede pontificia, ma non degli antichi possedimenti ecclesiastici per i quali si fece ricorso all’ambigua espressione di regalia Sancti Petri che gli lasciava facoltà di disporne liberamente.

In virtù di questo accordo al papato rimase la città di Benevento con i territori ad essa circostanti compresi entro un raggio di dieci miglia, mentre la parte restante del principato venne a ricadere sotto l’influenza della casa d’Altavilla.

Le mire espansionistiche normanne si volsero quindi verso l’estremo lembo della penisola. Nel 1060 Ruggero e Roberto d’Altavilla avevano raggiunto Reggio Calabria ed il saraceno Ibn at-Tmnah, signore di Siracusa e di Noto, ne richiese l’aiuto per contrastare l’atteggiamento aggressivo del suo correligionario Ibn al-Hawwas; ma solo Ruggero intervenne incisivamente in Sicilia, permanendo nella penisola gli interessi di Roberto il Guiscardo1.

Fra il 1061 ed il 1070 non mancarono sterili tentativi di ostilità nei confronti dei Normanni che comunque non distolsero il Guiscardo dalla sua progressione nei territori di Puglia ai danni dei Greci. Accorso poi in aiuto del fratello Ruggero impegnato nella conquista dell’isola, l’8 gennaio del 1072 costrinse Palermo alla resa.

Le sue ambizioni però non potevano non impensierire il Papa e i principi longobardi che, a Montecassino, formarono una lega antinormanna e sobillarono i Pugliesi alla rivolta. Domati facilmente questi fermenti, Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo volse le armi contro le residue roccaforti longobarde e bizantine.

Gregorio VI, salito al soglio pontificio, nel 1073 tentò di raggiungere un impossibile compromesso col Guiscardo che in quello stesso anno prese Amalfi.

Seguirono quattro anni di scaramucce e di ribellioni soffocate nel sangue finché, caduta Salerno nel 1077, il 19 dicembre, dopo averne saccheggiati i dintorni, l’astuto Normanno pose l’assedio a Benevento.

La pace fu conclusa col trattato di Ceprano il 29 giugno del 1080. Il principato di Benevento passò definitivamente in mano normanna e la sola città rimase alla Chiesa. Tramontava così, dopo cinque secoli, il dominio longobardo sull’Italia meridionale e vi si affermava quello normanno sotto la guida dello scaltro Roberto d’Altavilla.

Era l’inizio di una nuova era. Questi fieri e bellicosi uomini del Nord, qui sibi omnia diripientes, castella ex villis edificare ceperunt2 (i quali depredando ogni cosa, cominciarono ad edificare castelli là dove erano case di campagna), trasmettendosene quindi il possesso hereditario quasi iure, se avevano sino ad allora diffusamente praticato il brigantaggio, come presero coscienza della loro mutata condizione sociale, si impegnarono, con la stessa determinazione che avevano posto nell’uso delle armi, nel rilancio economico delle terre conquistate.

Nell’anno 1080, dunque, l’intero agro di Paternopoli era entrato a far parte dei possedimenti del normanno Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo. La popolazione si presentava frammentata in miserabili villaggi, o celle, gravitanti nelle orbite della corte di Paterno e delle condome di San Quirico, di San Pietro e di Santa Maria. Vi si praticava, con metodi arcaici, una primitiva agricoltura intesa ad assicurare l’indispensabile alla sola sopravvivenza; comunque la miseria, più che economica, era morale. Dell’antico splendore della romana Bovianum non restava traccia che nei cumuli di pietre scolpite disseminate nelle quasi incolte contrade di San Pietro, Casale, Nocellete e Sant’Andrea.

Fra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, sull’altura già sede della corte arimanna un tempo posseduta dal longobardo Giovanni Marepahis e dal di lui fratello Pietro donata al monastero di San Vincenzo al Volturno, a destra dell’attuale torre campanaria ed a margine della piazzetta detta Scala Santa, fu costruito il castello. Si indicava con tal nome un complesso urbanistico, chiuso ed autonomo, compreso entro massicce mura perimetrali sprovviste di aperture verso l’esterno, ad eccezione di elevate e strette fessure verticali realizzate in funzione difensiva ad uso esclusivo degli arcieri.

Si apriva al centro della struttura un cortile di ridotte dimensioni, probabilmente selciato, con cisterna abilitata alla raccolta delle acque piovane. L’accesso, unico, volgeva a sud ed era protetto da un pesante portone di quercia la cui tenuta era assicurata da una robusta trave che, disposta all’interno orizzontalmente con le estremità inserite in apposite cavità ricavate nella muratura degli stipiti, ne fermava i battenti in posizione di chiusura.

Gli ambienti all’estremità del cortile opposta all’ingresso costituivano la dimora padronale. Questa disponeva di grotte e di vasti locali interrati in cui custodire vino, olio e frumento, ma che in caso di necessità potevano trasformarsi in sicuri rifugi per le persone inidonee alle armi. Occupavano il piano terra la sala d’armi, la cucina e la scuderia. Una scala esterna, in legno, consentiva l’accesso al piano superiore dove erano la sala delle udienze e gli appartamenti privati. Delimitavano lateralmente il cortile gli alloggi della servitù, il frantoio e le botteghe artigiane del fabbro, del falegname, del sellaio.

Le pietre necessarie alla realizzazione dell’opera muraria furono prevalentemente ricavate dallo sventramento del fianco sud dello stesso colle che, spianato, avrebbe originato le odierne via Vittorio Emanuele ed omonima piazzetta, nonché da una serie di cave sotterranee oggi inglobate nel complesso di edifici che su quella piazzetta affaccia.

Il vasto ambiente seminterrato del castello normanno di Paterno, pur ristrutturato nei successivi adattamenti, ha sostanzialmente conservato l’originaria conformazione fino alla demolizione, susseguente al sisma del 1980, di palazzo Rossi che del castrum fu il naturale erede. Nel corso della stessa demolizione si sono appalesati, lungo il lato ovest della fortezza, un camminamento parzialmente occluso, dall’alta volta e di larghezza di poco inferiore al metro, ampi tratti della robusta muraglia in cui avevano trovato impiego enormi massi non lavorati, i resti consistenti di un contrafforte. Sul lato opposto si è evidenziata invece la cavità della cisterna a sezione quadrata.

Nei momenti di pericolo la popolazione rurale dei dintorni trovava sicuro rifugio in questi “castella”; veniva poi organizzata militarmente sotto il controllo del signore, che in breve tempo aumentò in modo considerevole il proprio potere e la propria influenza ... Vescovi e signori laici, cercando di assumere quanti più possibili “fideles et milites” (vassi), vi inclusero anche i “servi” e servi della gleba, anche se imperatori e papi proibivano l’addestramento dei servi alla guerra1.

Come già presso i Bizantini, i Normanni affidarono ciascun borgo o castello ad uno straticò2, sorta di magistrato che era investito del potere di rappresentanza del signore feudatario, ne curava gli interessi, agiva in nome e per conto di lui, amministrava la giustizia. La sua sede era il castello e del suo operato rispondeva direttamente ed esclusivamente al signore.

In Paterno lo straticò estese il proprio potere sull’intero territorio, incurante dei diritti delle chiese acquisiti in una secolare presenza, ripristinando l’integrità territoriale dell’antica Bovianum e ad essa conferendo il nome della località in cui era stato eretto il castello, cioè Paterno.

Qui, con la recuperata stabilità politica, nella certezza di una salda autorità centrale garante di duratura prosperità, un fermento di operosità involse la popolazione indigena strappandola al fatalismo in cui la conflittualità longobarda, le scorrerie saracene, il vandalico brigantaggio esercitato da gruppi o fazioni, le pestilenze introdotte da bande mercenarie la aveva precipitata. Furono ripristinate le vecchie fabbriche di mattoni, riaperte le cave di pietra, riattivate le fornaci per la produzione della calce, ripresi a sfruttare i depositi di sabbia e pozzolana.

Con la risistemazione del tracciato viario poi, ebbero nuovo impulso i commerci che, introducendo attrezzi più idonei, favorirono il rilancio dell’agricoltura, e per le greggi non più minacciate dal pericolo di razzie si iniziò il recupero dei pascoli da tempo abbandonati perché insicuri.

A riprova del repentino risveglio economico si registra, ai nostri giorni, un cospicuo ritrovamento sul territorio di monete databili all’XI e XII secolo.

 


1 Giuseppe De Jorio: Cenni statistici, geografici e storici intorno al comune di Paternopoli - Milano 1869.

2 Gustavo Strafforello: La Patria - Geografia dell’Italia - Torino 1896.

1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

2 In origine De Hauteville. Famiglia normanna stanziatasi con Tancredi, nel X secolo, nella penisola del Cotentin in Francia, dove era assegnataria di piccoli feudi.

3 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.

2 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.

1 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.

1 Illuminato Peri: I Normanni nell’Italia meridionale, in Nuove questioni di storia medioevale - Milano 1964.

2 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.

1 Karl Bosl: L’Europa meridionale, in Storia universale dei popoli e delle civiltà - Torino 1983.

2 Detto anche stradicò, straticoto o stradicoto. Indicato nei documenti come stratigotus , non di rado è tradotto dagli studiosi col termine di stratigota.

Diritto alla Storia, Verso la fine del primo millennio

Diritto alla Storia - Capitolo 7

Fallita, nell’852, la spedizione di Ludovico II contro i Saraceni in Puglia, nell’853 Adelchi, terzogenito di Radelchi, incoronato principe di Benevento, con l’aiuto di forze salernitane tentò l’assalto alla città di Bari, roccaforte degli infedeli; ma, costretto alla rotta, non potette impedire che i Saraceni si riversassero nelle terre del principato compiendovi massacri e saccheggi. A capo delle orde che imperversarono nel Sannio e in Irpinia per più di un decennio fu il sultano di Bari Mofareg-ibn-Salem. Di lui tra le popolazioni esterrefatte correvano strane voci che furono raccolte dall’Ignoto cassinese, monaco di quel tempo. Si narrava, ad esempio, che ogni giorno facesse sgozzare 500 uomini e si deliziasse di banchettare con sacri calici d’oro fra i cadaveri palpitanti1.

Invocatone da più parti l’intervento, Ludovico II preparò una nuova agguerrita spedizione e nell’866 discese nell’Italia meridionale, preoccupandosi innanzitutto di consolidare la propria autorità presso i duchi ed i due principi longobardi.

Fu nell’867 che Ludovico II mosse l’attacco ai Saraceni asserragliati in Bari, ma siccome l’assedio si preannunciava lungo, e non essendogli pervenuti dalla Francia i richiesti rinforzi, si ritirò in Benevento, ospite di Adelchi.

Nell’870, riorganizzato l’esercito, sferrò l’attacco decisivo contro Bari, riportando una completa vittoria. Il sultano Mofareg-ibn-Salem si dette prigioniero ad Adelchi ed i Saraceni in rotta trovarono rifugio in Napoli.

Ludovico II si ritirò in Benevento ove prese ad ordire la trama politico-militare che avrebbe dovuto assicurargli il completo dominio su tutta l’Italia meridionale, ma Adelchi ne intuì i disegni e lo fece imprigionare, anche se un mese più tardi, spaventato del proprio ardire e temendo la vendetta dei Franchi, gli restituì la libertà.

I Saraceni non si lasciarono sfuggire l’occasione loro offerta dalla frattura del fronte franco-longobardo e, nell’871, di nuovo invasero i principati longobardi, devastando, saccheggiando e ponendo alfine l’assedio alle città di Salerno e di Benevento.

Ludovico II ancora una volta, nell’872, discese al Sud ed inflisse dure perdite ai Saraceni per subito dopo assediare Benevento allo scopo di vendicarsi dell’offesa subita da Adelchi; ma la determinazione e il coraggio dei Longobardi lo indussero a desistere.

Morto Ludovico II nell’875, gli successe Carlo II, detto il Calvo, il quale rinunciò a consolidare il proprio potere sul Mezzogiorno d’Italia, pur fornendo sostegno al papa Giovanni VIII nella lotta contro i Saraceni che avevano ripreso le loro scorrerie in queste regioni. Purtroppo però le ambizioni del papa contribuirono ad aumentare la confusione in un’alternanza di alleanze e di tradimenti in cui gli infedeli, ben lungi dall’esserne ostacolati, erano incoraggiati a compiere atti di brigantaggio, trovando presso le diverse fazioni in lotta protezione e rifugi sicuri.

Nelle scorribande musulmane più volte il territorio di Paternopoli, particolarmente esposto per la sua posizione di confine, ebbe a patire incursioni e saccheggi. Le campagne furono nuovamente abbandonate e la popolazione inerme, terrorizzata, affamata, ridotta ormai a pochi sparuti gruppi di miserabili individui, trovò precario rifugio presso le chiese.

All’indebolimento del potere centrale faceva riscontro una sempre crescente autonomia delle signorie locali, attente esclusivamente ai propri personali e più immediati interessi. Gastaldi e conti in antico erano agenti del Principe, che esercitavano in tale qualità le loro attribuzioni militari, di polizia e di giustizia; ma fra il IX e il X secolo la maggior parte di essi erano diventati dei signori indipendenti che riconoscevano solo in modo assai vago l’autorità dei loro Principi1.

In questo clima di confusione, il territorio di Paternopoli, invero spopolato ed inselvatichito, appariva frammentato e soggetto a diverse e non ben definite autorità, in prevalenza ecclesiastiche. Paterno restava tuttora di proprietà di San Vincenzo al Volturno. In nome e per conto del monastero, l’amministrazione di quella che era stata la sala di Giovanni Marepahis era affidata ad un arimanno la cui dimora, una modesta costruzione a piano terra realizzata in legno e muratura, in parte adibita a dispensa ed a granaio, sorgeva sul luogo dell’antico romitaggio all’interno di una palizzata. Annessi all’abitazione erano la macina, il frantoio, il forno in mattoni per la cottura del pane e la stalla, tutti compresi in angusti locali dalle pareti di assi e dai tetti di paglia. Ovunque, negli spazi aperti, razzolavano anatre e polli.

Un poco discosta dalla casa padronale era la dimora per la servitù costituita dal precario assemblaggio di ambienti monofamiliari lastricati di ciottoli, divisi da sconnesse pareti di assi, protetti da tetti di paglia, utilizzati altresì come botteghe artigianali in cui si realizzavano attrezzi di legno, cesti di canne o di vimini, vasellame in argilla e, all’occorrenza, vi si lavorava il ferro o si eseguiva la riparazione delle pentole di rame.

Alle donne, a qualsiasi ceto sociale appartenessero, era affidato il compito di filare la lana o la canapa, di tessere stoffe, di confezionare vestiti.

Del tutto assenti erano le suppellettili dal momento che, a quel tempo, le stesse residenze imperiali ne erano dotate per lo stretto indispensabile. In un documento dal titolo Brevium exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales dell’anno 810 è descritto quanto contenuto in una delle ville dell’imperatore Carlo Magno: Abbiamo trovato nella proprietà imperiale di Asnapio una sala regale ottimamente costruita in pietra, tre camere, tutta la casa circondata da ballatoi, con undici camere da lavoro; nell’interno una dispensa ... e le altre dependances bene ordinate; una stalla, una cucina, un forno, due granai, tre scuderie. La corte era cinta da una robusta palizzata ... Biancheria da casa: un completo di biancheria per il letto, un tappeto per tavola, una tovaglia. Utensili: due bacili di rame, due boccali, due caldaie di rame ed una di ferro, una padella, una catena da camino, un alare, due trivelle, un candeliere, due scuri, un’ascia per tagliare la pietra, uno scalpello, una pialla grande ed una piccola, due falci, due falcetti, due badili con la pala di ferro. Utensili di legno sufficienti per i lavori1 .

A ridosso della palizzata, esterno al cortile, si era sviluppato il villaggio contadino: una manciata di capanne di rami cementati con paglia e fango che racchiudeva al suo interno i recinti per i maiali e le pecore, tutti di proprietà del signore a cui essi stessi erano asserviti in un rapporto di totale dipendenza.

Poco discosta si ergeva la chiesetta in muratura e col tetto di embrici, disadorna al suo interno ed angusta in quanto esigua era la comunità.

In questo, come in altri simili villaggi sommariamente fortificati, si veniva gradatamente introducendo quel tipo di economia curtense, sul modello carolingio, destinato a rendere ogni singola comunità del tutto autosufficiente. Per tale sistema economico ogni vico, ogni villaggio, ogni corte, in quell’universale disgregarsi della vita locale, si procurava da sé i mezzi dell’esistenza, era cioè un centro autonomo di produzione e di consumo, in cui gli operai e gli artigiani si dividevano le loro occupazioni e uffici (ministeria, cioè mestieri), ma tutti legati alla corte, in una condizione di vera dipendenza servile2 .

Il villaggio fortificato di Paterno, secondo le consuetudini del tempo, consolidò la propria denominazione di corte, nome non riscontrabile nella toponomastica ma destinato a sopravvivere fino ai nostri giorni nella tradizione orale. Infatti la memoria dell’antica corte rimane nella popolare definizione della zona a nord di essa, oggi via Nazario Sauro, comunemente conosciuta come Arreto Corte, cioè alle spalle della corte.

Sul modello della corte, le comunità monastiche di San Pietro, di San Quirico e di Santa Maria poi detta a Canna si dettero l’assetto di condome. Alle chiesette furono affiancate le pur modeste abitazioni per i monaci ed entro una spazio limitato e protetto da palizzate vennero ad essere compresi magazzini, stalle e botteghe artigianali. Il monastero viene così a configurarsi sul modello della “curtis”, con la sede centrale ove dimora il grosso della comunità e le celle3 periferiche che assicurano lo sfruttamento e la bonifica di possedimenti sempre più estesi e lontani. Casali, frantoi, mulini, mercati e industrie ruotano, secondo la propria funzione, intorno alla vita dei monasteri che assicurano quindi il sostentamento di intere popolazioni4 .

Uno dei primi nuclei periferici impegnato nel recupero di terre da coltivare fu costituito a nord-ovest di San Pietro, assumendo la generica denominazione di Casale che rimarrà nella toponomastica a sua odierna identificazione. Numerose furono poi le celle fondate in tempi diversi, di cui permane memoria nelle attuali denominazioni di contrade quali San Felice, San Nicola, Sant’Andrea.

La curtis, oppido o condoma che fosse, comprendeva la parte padronale, lavorata dai servi per conto del signore o della comunità monastica, e la parte tributaria, suddivisa in mansi, concessa a contadini in cambio di tributi in natura. Non mancavano, tuttavia, piccole proprietà private, non soggette cioè a vincoli, dette allodiali, per lo più relegate ai margini del territorio.

Tuttavia sarebbe errato ritenere rapida e immune da soluzioni di continuità l’evoluzione del villaggio in un organizzato ed autonomo sistema economico. Al contrario questo processo di trasformazione si manterrà a lungo allo stato embrionale, risulterà lento e, negli anni difficili del IX e X secolo, nonché in quelli della prima metà dell’XI, segnati da saccheggi, pestilenze e carestie, sarà caratterizzato da un’alternanza di progressi e di regressi che rendono impossibile tracciare un quadro economico-sociale ben definito.

Nell’876 i Bizantini approdarono sulle coste calabre, con lo scopo dichiarato di combattere i Saraceni ma con la recondita intenzione di estendere il proprio dominio sull’intero meridione d’Italia. Contro di loro mosse guerra il principe di Benevento Adelchi che però, nella primavera dell’878, cadde vittima di una congiura.

Per la successione, al primogenito Radelchi fu preferito il nipote Gaiderisio, ma già nell’880 Radelchi vide riconosciuti i propri diritti. Fu breve però il suo principato perché, dopo soli tre anni, una sommossa popolare portò al trono suo fratello Aione che nell’888 fu costretto a sottomettersi a Bisanzio.

Aione morì nell’890 e, proclamato principe il figlio Orso di soli dieci anni, Benevento capitolò, nell’891, per l’attacco di forze bizantine che vi insediarono un proprio governo.

Ma poco durò il dominio greco in quanto i Longobardi, coalizzatisi, nell’894 riconquistarono il principato, che però rimase sotto l’influenza spoletina.

Nell’anno 900 era principe di Benevento Radelchi II che mal controllava la turbolenta aristocrazia, sicché i Bizantini ripresero a brigare per riaverne il possesso; ma una congiura depose Radelchi e portò sul trono Atenolfo di Capua, fervido assertore dell’indipendenza dei Longobardi meridionali.

Con Atenolfo ebbe inizio un nuovo periodo di stabilità politica, seppure caratterizzato dalla recrudescenza della interminabile guerra contro i Saraceni. Alla sua morte, avvenuta nell’agosto del 910, cinse la corona di principe di Capua e di Benevento il figlio Landolfo.

In quello stesso anno Alliku, capo dei Saraceni del Garigliano, spinse le sue scorrerie nelle contrade irpine. Frigento, Taurasi ed Avellino ne furono devastate. Non scamparono gli isolati abituri in territorio di Paternopoli alla ferocia di incontrollate frange di soldataglia.

Alliku ebbe a patire una dura sconfitta nel 915 ad opera di forze coalizzate bizantine e longobarde, ma negli anni successivi bande saracene e slave continuarono ad imperversare in Irpinia.

Landolfo morì nell’anno 943 e gli successe il figlio Landolfo II che, nell’anno 944, associò al trono il proprio figlio Pandolfo, detto Capo-di-Ferro. Tensioni e guerre caratterizzarono il lungo periodo del loro principato finchè, morto Landolfo II nel 961, Capo-di-Ferro chiese ed ottenne la protezione di Ottone I che, mosso dall’ambizioso progetto di ricostituire il Sacro Romano Impero, aveva volto la propria attenzione verso l’Italia meridionale bizantina.

Nel 967 Ottone I si portò in Benevento, ospite di Capo-di-Ferro, per trattare la sottomissione dei Bizantini da formalizzarsi col matrimonio di suo figlio Ottone II con la principessa greca Teofane. Non essendosi trovato un accordo, l’anno successivo l’imperatore sassone tornò nel sud d’Italia con minacce di guerra.

Fu in questa occasione, in Data pridie Kalendas Julias, Anno Dominicae Incarnationis DCCCCLXVIII che (noi) Ottone I, Divina favente clementia Imperator Augustus ... pro Dei amore, animarumque nostrarum remedio, per hoc nostrae confirmationis Praeceptum, pro ut justè, et legaliter possumus, confirmamus, ac penitus corroboramus in praefato Coenobio Christi Martyris Vicentii omnia Praecepta Praedecessorum nostrorum Imperatorum, et Regum, ... Mortula, Paterno, Sanctus Martinus, qui dicitur caput de Plomba ... il giorno precedente il primo luglio, nell’anno dell’incarnazione del Signore 968, noi Ottone I, per clemenza divina Augusto Imperatore, ... per amore di Dio e la salvezza della nostra anima, con questo nostro atto di conferma, perché giusto e in quanto legalmente possiamo, confermiamo al predetto Cenobio del Martire di Cristo Vincenzo (cioè al monastero di San Vincenzo al Volturno), tutti gli atti degli imperatori nostri predecessori, e dei re, ... specificatamente le donazioni di Mortula, Paterno, San Martino, che è detto testa di piombo ...

L’Actum, redatto in Monte, ubi Stabulo Regis dicitur, reca il sigillo dell’anello impresso con mano propria dall’imperatore (anulo nostro manibus propriis), seguito dal Signum Domni Ottonis Invictissimi Imperatoris1.

In quello stesso anno 968 l’esercito tedesco e le truppe al comando di Capo-di-Ferro irruppero in Puglia, infliggendo gravi perdite ai Bizantini; ma, richiamato in patria Ottone I dai doveri che l’amministrazione dell’impero gli imponeva, Capo-di-Ferro, rimasto solo ad assediare Bovino, fu travolto e fatto prigioniero.

I Bizantini risalirono l’Ofanto e quindi, percorrendo l’antica strada romana che si snodava lungo le valli del Calore e del Sabato, raggiunsero e conquistarono Avellino per spingersi, alfine, a porre l’assedio a Capua. Il territorio di Paternopoli venne a trovarsi dunque sul cammino dell’esercito greco. E’ da supporre che i suoi insediamenti, sebbene sottoposti a razzie per l’approvvigiona-mento della truppa, non ne venissero devastati; comunque questo evento dovette certamente segnare l’ennesima battuta d’arresto sulla via della già difficile ripresa economica.

Nel 970 Ottone I ridiscese in Italia con un agguerrito esercito per riconquistare le terre perdute e i Bizantini, messi alle strette, acconsentirono finalmente al matrimonio di Ottone II con la principessa Teofane. Capo-di-Ferro, riottenuta la libertà, su richiesta dei sostenitori dell’unità longobarda, accorse nel salernitano dilaniato da lotte intestine e nel 974 conquistò la città con le armi, ripristinando l’antico principato di Benevento e Salerno.

Capo-di-Ferro morì nel marzo del 981. Lasciava sei figli. Di essi, Landolfo IV ebbe Capua e Benevento, ma quest’ultima, con un colpo di mano e con il beneplacito forse dell’imperatore Ottone II, gli fu sottratta dal rivale Pandolfo, figlio di Landolfo III.

In quell’anno 891 Ottone II era a Roma, sottoposto a pressioni perché assoggettasse definitivamente i territori bizantini nel meridione della penisola. Il pretesto per un intervento militare nell’area era offerto dalla necessità di neutralizzare le bande di Saraceni che dalla Puglia minacciavano i possedimenti longobardi.

La spedizione imperiale mosse nel gennaio del 982 e non senza difficoltà riuscì ad espugnare Taranto, ma a metà luglio Ottone II fu sconfitto dalle forze musulmane e dovette riparare a Salerno.

Seguì uno stato di generale confusione, caratterizzato da lotte locali alla ricerca di nuovi equilibri. Ottone II, risalito al nord, vi morì nel dicembre del 983.

Salito al trono Ottone III, sotto reggenza in quanto minorenne, il mezzogiorno d’Italia fu lasciato a lacerarsi nelle secolari dispute fra Longobardi e Bizantini in cui trovarono spazio le oscure trame del papato. Di tale confusa situazione approfittarono i Saraceni per intensificare le loro scorrerie, spesso incoraggiati se non addirittura sostenuti dalle avverse fazioni in lotta. Nel 990, poi, un violentissimo terremoto devastò l’Irpinia e il Sannio. Ne furono gravemente colpite Benevento, Ariano e Frigento, ed addirittura Conza ne fu distrutta1. Ragionevolmente non mancò il sisma di esplicare i suoi effetti devastanti sul territorio di Paternopoli.

Intanto i legami fra i principi longobardi e l’Impero si erano sempre più allentati, sicché Ottone III avvertì la necessità di riaffermare la propria autorità su di essi e a questo scopo inviò Ademaro a ristabilire a Capua l’ordine sconvolto nel 993 da una congiura.

Nel 999 Ademaro pacificò Capua, ma già l’anno successivo il partito antitedesco ebbe il sopravvento e lo espulse, ponendo la corona sul capo di Landolfo di S. Agata, fratello di Pandolfo II, principe di Benevento. Fu questo il segnale che dette l’avvio ad una aperta rivolta. I sentimenti antitedeschi esplosero ovunque con violenza, ed anche Pandolfo II si ribellò all’imperatore.

Irritato e deciso a ristabilire la propria autorità, Ottone III, nell’anno 1001, discese contro Benevento e vi pose l’assedio. La città oppose un’accanita resistenza sicché alle truppe tedesche non rimase che sfogare la propria impotenza sui possedimenti del principato.

Fu questo l’ultimo atto di guerra dell’imperatore sassone. Afferma Giuseppe De Jorio che morì in Paterno ... Ottone III, detto il meraviglioso, giusta la testimonianza del celebre Matteo Egizio, che nella sua serie degli imperatori romani, nell’anno 1002 scrive così: Muore l’imperatore Ottone in Paterno, terra del ducato di Benevento1. Al riguardo Jannacchini non assume una propria posizione, limitandosi a riferire che: Romualdo Salernitano e Leone Ostiense sostengono che l’imperatore Ottone andando da Todi a Roma lunghesso la via infermossi e morì in Paterno presso Civita Castellana. Il Pagi fu di parere che morì in Paterno sul lago di Fucino; Cosimo Della Rena in Paterno di Perugia, mentre Matteo Egizio ed il Pratillo han voluto sostenere che si morì nel nostro Paterno2 .

Dove si concluse dunque la breve esistenza del giovane imperatore? Le fonti storiche sono laconiche, e se ne indicano il luogo non specificano in quale parte d’Italia esso fosse.

Raoul Manselli sostiene che, essendosi concluse positivamente le trattative per il suo matrimonio con una principessa bizantina, da Aquisgrana l’imperatore si mosse alla volta di Roma, quando già in vista della città eterna, lo colpì la morte, a Paterno, non lontano dal monte Soratte, il 23 gennaio del 10023.

La congettura appare poco realistica. E’ ingenuo sostenere che un imperatore che aveva avuto l’ambizione di estendere i confini del proprio impero fino alla Sicilia, armato un poderoso esercito e posto l’assedio alla città di Benevento, se ne fosse poi tornato sui propri passi dopo le prime inconcludenti scaramucce, ammettendo la propria impotenza e coprendosi di ridicolo, oltre che di fronte all’Europa tutta, presso il suo stesso popolo. Ma anche se così fosse stato, appare poco credibile che, reduce da una campagna condotta sul finire dell’anno 1001 contro Benevento, Ottone III avesse avuto il tempo di risalire al nord, di condurre trattative, che si sanno laboriose, per un suo presunto matrimonio, e di essere quindi ripartito alla volta del sud già nel gennaio del 1002. Avrebbe dovuto cioè, nell’arco di un mese o poco più, riorganizzare il proprio esercito appena disciolto per non esporsi al pericolo di attentati o congiure da parte del diffuso partito antitedesco, consolidare alleanze e concedere benefici per ottenere garanzie al suo passaggio, affrontare alfine i rigori dell’inverno che oltretutto rendevano impraticabili le strade, abbandonate e prive di manutenzione per l’assenza di una unicità politica al governo del territorio.

Ad opera di un gruppo di studiosi inglesi sappiamo che il 24 gennaio 1002 Ottone III venne stroncato a Paterno da un attacco di vaiolo. Aveva solo 22 anni. Aveva espresso il desiderio di venir sepolto nella capitale carolingia e i suoi uomini, dopo essersi aperta una strada contro i Romani ostili, riuscirono a trasportare il suo cadavere ad Aquisgrana, dove venne sepolto al centro del coro della chiesa di Santa Maria4 .

Orbene, quali resistenze romane avrebbero potuto incontrare i Tedeschi se il loro imperatore fosse morto a nord di Roma?

Più ragionevolmente, Roberto Cessi lascia intendere che la campagna beneventana non si fosse conclusa nell’anno 1001: Mentre i ducati latino-longobardi si sbizzarriscono nelle intestine congiure, promosse dalle ambizioni e dagli interessi delle clientele locali, e si governano in funzione di tali esigenze sfuggendo a qualunque influenza dei due imperi (sterile era riuscita la passeggiata fino a Benevento di Ottone III nel 1001-1002), le terre bizantine erano tormentate all’esterno dalle incursioni saracene e all’interno da una dissimulata ostilità antibizantina5.

Dunque, per questo studioso, e come logica vorrebbe, nel 1002 Ottone III era ancora nel beneventano. Ci è noto però che l’accanita resistenza opposta dalla città di Benevento aveva indotto l’imperatore a sfogare la propria impotenza sulla popolazione inerme, il che aveva comportato la penetrazione tedesca nel cuore dell’Irpinia. Ebbene, se si considera che la prassi militare, per le obiettive difficoltà di azione, imponeva la sospensione delle attività belliche durante il periodo invernale, e che le truppe fossero solite dislocare i propri accampamenti in luoghi ove i rigori dell’inverno risultassero stemperati dalla mitezza del clima e nel contempo offrissero sufficienti garanzie di sicurezza consentendo un’ampia visione del territorio circostante, non si può escludere che Ottone III, nell’inverno a cavallo degli anni 1001-1002, soggiornasse nella Paterno irpina, ivi realizzandosi pienamente tutte le condizioni richieste.

Fu dunque in questo Paterno che Ottone III morì in quel lontano 23 o 24 gennaio dell’anno 1002? Nessun dubbio ebbero gli eruditi del posto che, nel secolo scorso, attribuirono alle lettere “P.” ed “O.” presenti nello stemma del borgo il significato di “Perit Octo”.


1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 Gianna Bonis Cuaz: Ai tempi dei castelli feudali - Torino 1967.

2 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

3 Chiesa o oratorio intorno a cui raccogliere una comunità.

4 Gregorio Penco: Il monachesimo in Italia, in Nuove questioni di storia medioevale - Milano 1964.

1 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.

1 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

1 Giuseppe De Jorio: Cenni statistici, geografici e storici intorno al comune di Paternopoli - Milano 1869.

2 Angelo Michele Jannacchini: Topografia storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

3 Raoul Manselli: L’Europa medioevale, Tomo I - Torino 1979.

4 Z. N. Brooke ed altri: Storia del mondo medievale , Vol. IV - 1979.

5 Roberto Cessi: Bisanzio e l’Italia nel medioevo, in Nuove questioni di storia medievale - Milano 1964.

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Diritto alla Storia, Langobardorum gens

Diritto alla Storia - Capitolo 6

Tot igitur semirutarum urbium cadavera (tanti cadaveri di città semidirute): così si esprime Sant’Ambrogio in una lettera del 387, riferendosi alla valle padana, e in questa breve, seppur colorita espressione, si può cogliere il senso della rovina dell’impero romano.

Non molto diversa era la situazione in Irpinia. Dopo il sacco di Roma del 410, i Visigoti discesero in Lucania e i Vandali, nel 455, dall’Africa sbarcarono in Campania, devastandone le città e depredandone i villaggi.

Nel 476 Odoacre, figlio dello sciro Edicone, generale di Attila, deposto l’imperatore Romolo Augustolo, si fece proclamare re d’Italia. I suoi presidi militari nel Sannio però ben poca resistenza potettero opporre agli Ostrogoti di Teodorico i quali, dopo la caduta di Ravenna nel 494, invasero l’Italia meridionale.

Nonostante seguisse un periodo di relativo benessere, ancor vivo restava il ricordo e il rimpianto dell’Impero, sicché il favore della popolazione, e non solo dell’aristocrazia, fra il 535 ed il 540, facilitò la riconquista dell’Italia da parte dell’esercito bizantino al comando di Belisario. Ben lungi però dal prodigarsi per l’attesa ripresa economica, i nuovi dominatori misero in atto un oneroso sistema fiscale col quale avviarono una scrupolosa azione di spoliazione, sicché in molte parti le popolazioni erano ridotte a cibarsi di frutta e di ghiande, e corse esagerata voce che, per sfamarsi, ricorressero taluni a cibarsi di carne umana1.

Di questa disastrata situazione si avvantaggiò Totila che, con i suoi Goti, marciò verso il Sud e, nel 545, espugnò e distrusse Benevento per invadere quindi l’Irpinia, ove pose l’assedio a Conza che comunque rimase saldamente in mano ai Greci.

A Totila, morto nel 552, successe il re Teia ed i Goti, inferociti per le numerose sconfitte inferte loro dal bizantino Narsete, si abbandonarono a stragi e saccheggi prima di trincerarsi, incalzati dai Greci, in Cuma, Taranto ed Acerenza. In seguito, in virtù di laboriose trattative, ottennero da Narsete di poter abbandonare indisturbati l’Italia, ma non tutti oltrepassarono le Alpi. Alcuni ripararono presso i Franchi e, con l’aiuto di questi, ripresero le loro scorrerie nei territori assoggettati al dominio bizantino. Leutari fu a capo delle bande indisciplinate e feroci di Goti che imperversarono nel Sannio e in Irpinia fino a quando, decimate dalla peste e dai combattimenti, ricongiuntesi alle schiere residue provenienti dalla Campania, dalla Lucania, dalla Calabria e dalla Puglia, non si asserragliarono, sotto la guida di Ragnari, nella espugnata cittadina di Conza dove resistettero circa un anno prima di arrendersi definitivamente a Narsete nel 555.

Il meridione d’Italia, tornato sotto il totale controllo dell’Impero di Oriente, appariva ora devastato, sprofondato in una spaventosa crisi economica e sociale. Le città non erano che cumuli di macerie e le campagne si presentavano spopolate ed incolte. I pochi sopravvissuti alla ferocia dei barbari, alle carestie, alle pestilenze, avevano cercato scampo nelle zone montuose. Il Beloch stima che la popolazione superstite, in tutta la penisola, superasse di poco il milione2.

In questo contesto Bisanzio tese a ristabilire il vecchio ordine imperiale con la ricostituzione dei latifondi, con l’assoggettamento degli schiavi agli antichi padroni, con una gravosa imposizione fiscale.

Come reazione alla perdita di valori, alla dilagante miseria morale, un sempre maggior numero di giovani aristocratici lasciava le città sconvolte da meschine lotte di potere, da sopraffazioni e da vendette, per ritirarsi in luoghi isolati in preghiera ed in meditazione. Nel 529 Benedetto da Norcia aveva fondato il monastero di Montecassino e, sulla di lui regola basata sul principio della preghiera e del lavoro (ora et labora), ovunque prendevano forma spontanee comunità monastiche impegnate a riorganizzare gli sparuti gruppi di sopravvissuti ed a recuperare i poderi abbandonati. L’ascetismo era tuttora diffuso. All’estremo lembo del territorio di Paternopoli, ai confini con l’agro di Montemarano, dei ruderi conosciuti come Cappella dell’Eremita testimoniano in quel luogo l’antica presenza di un asceta.

E sempre in Paternopoli giovani aristocratici, esuli dalle città, esaltati dalla rinuncia e dal sacrificio, dissodavano la terra in San Pietro, in San Quirico e nei pressi della Pescarella dove, sul filo della tradizione bizantina, era stato introdotto il culto della Madonna nera in seguito venerata col nome di Santa Maria, e vi edificavano le prime chiesette utilizzando il copioso materiale costituito dalle macerie di quella che era stata l’opulenta Bovianum, definitivamente travolta dalla furia devastatrice dei Goti.

All’antica strada romana che ascendeva il vallone delle Nocellete si era ormai sostituito un nuovo tracciato che dal ponte sul Calore risaliva i Serroni e, attraverso Chiarino, Acquara, Taverne, Fornaci, San Quirico e Pesco Cupo proseguiva per Torella e Lioni. Era questa la nuova arteria che, ricalcando nel tratto iniziale la via Napoletana e snodandosi lungo le valli del Calore e dell’Ofanto, collegava la pianura Campana alle Puglie e alla Lucania.

Sembrava che finalmente si fossero determinate le condizioni atte a favorire un rapido recupero di normalità, ma sia i tentativi dei Greci di ricostituire il vecchio ordine sociale, sia i primi timidi accenni di ripresa economica dovuti soprattutto agli sforzi compiuti dalle embrionali comunità monastiche, erano destinati a subire una brusca battuta d’arresto. Bisanzio dovette richiamare parte delle sue guarnigioni militari da opporre alle popolazioni barbare che da est e da nord ne insidiavano i confini e, nel 566, una nuova pestilenza prese a mietere vittime.

Dalle regioni germaniche, spinti dalla fame e dalle pressioni di orde asiatiche che ne saccheggiavano i territori, attratti dal miraggio delle fertili terre italiane, nel 568 oltrepassarono le Alpi i Langobardi1, o Longobardi, come furono poi detti dai Latini.

Fu questa un’invasione di popolo in quanto gli uomini in armi non raggiungevano le centomila unità e, addirittura, autorevoli studiosi sostengono che non fossero in tutto più di ventimila. Con le rispettive famiglie e le masserizie caricate sui carri, tra il 568 ed il 570 si sparsero e si insediarono nell’Italia settentrionale ed in parte di quella centrale. Da qui, in schiere disordinate, mossero verso il Sud evitando i presidi militari bizantini. Faroaldo prese Spoleto e la elesse sede del proprio ducato, mentre le schiere guidate da Zottone si spinsero fin nel Sannio dove si impossessarono della città di Benevento, forse nell’anno 570. Da essa Zottone, con azioni di guerriglia, iniziò l’espansione del proprio ducato in danno di Bisanzio che solo nel 576 inviò contro i Longobardi una spedizione militare al comando di Baduario, genero del-l’imperatore Giustino II. Questi fu però intercettato ed ucciso presso Napoli, il che indusse i Greci a desistere da ulteriori azioni offensive.

Attraverso la strada che diramava dalla via Napoletana per raggiungere l’alto Ofanto e la Puglia, i Longobardi approdarono in territorio di Paternopoli. La popolazione locale doveva essere ridotta ad un centinaio di persone o poco più, in parte raccolta presso le nascenti comunità monastiche, in parte suddivisa in gruppi familiari sparsi in zone impervie e sicure. Le abitazioni non erano ormai che precari rifugi, in prevalenza di paglia. I terreni, un tempo coltivati e fertili, si presentavano abbandonati e del tutto inselvatichiti.

Qui, l’occupazione delle terre da parte dei nuovi conquistatori dovette essere incruenta in quanto, dato lo stato di miseria e di prostrazione in cui versava la gente, è logico supporre che non fu opposta loro alcuna resistenza, né alcun atto ostile dovette essere consumato in danno dei monaci, non più figure ascetiche ma votate al dinamismo, che intorno ad una rudimentale chiesetta o ad un altare spoglio erano impegnati a riorganizzare socialmente quanto restava della disgregazione del pago e dei vici. Gli atti contro chiese e conventi, contro sacerdoti e religiosi, non avvennero né ovunque, né sistematicamente, né in grande quantità: e derivarono dall’esaltazione bellica, dalla rozzezza dei Langobardi, dalla ebbrezza della conquista o dalla rabbia della disdetta, non già dal fanatismo religioso. Essi erano bensì ariani o infetti di idolatria, ma non erano intolleranti2.

Ai nuovi barbari di provenienza nordica il territorio di Paternopoli si presentò privo di unicità di denominazione. In Bovianum si identificavano le terre ad ovest del crinale lungo la direttrice Serra-San Quirico-Pesco Cupo, in Taurum quelle ad est dello stesso, Caesinula1 definiva il versante boschivo a ridosso dell’intero basso corso del Fredane, mentre Paternum indicava la sola località sede dell’antico eremo.

Ad una famiglia di arimanni, cioè guerrieri, fu concesso dal duca il privilegio di insediarsi con una propria fara sull’altura di Paternum, con l’onere del controllo e della difesa dell’intero territorio, nonché con l’obbligo di fornitura, in caso di necessità, di uomini e carri al servizio militare. Per diritto connesso alla concessione ducale, questa famiglia si appropriò delle fertili terre del Piano e dell’Acquara, ricche di acque sorgive, e dei boschi digradanti verso il Fredane, ed assoggettò la gente che vi dimorava impiegandola nel lavoro coatto. Alle comunità sparse sulle rimanenti terre impose il tributo di un terzo dei prodotti del suolo.

Inizialmente la fara non fu che un semplice accampamento, sommariamente fortificato con una palizzata di legno. Non è dato conoscere il gastaldato sotto la cui giurisdizione essa fu posta. Solo più tardi si avranno notizie certe di un gastaldo2 insediato a Montella, dove numericamente più consistente era la popolazione scampata agli eccidi delle guerre per la montana collocazione del pago, e quindi di uno a Quintodecimo, o Eclano, che continuava ad essere il più importante nodo stradale d’Irpinia.

Alla morte di Zottone, avvenuta nel 591, re Agilulfo nominò duca di Benevento Arechis, nobile longobardo di Cividale del Friuli. Questi, quasi ininterrottamente, condusse azioni di guerra contro le città bizantine della costa nell’intento di aprirsi uno sbocco sul mare, fino ad impossessarsi di Salerno, forse nel 635.

Alla sua morte, che si vuole intorno al 641, gli successe il figlio Aione che però fu ucciso l’anno successivo mentre tentava di fermare una invasione di Slavi sul fiume Ofanto.

Dopo la morte di Aione, il correggente Radoaldo ebbe ragione degli Slavi ed ottenne la nomina a duca per un quinquennio. A lui, nel 647, successe Grimoaldo I che però, lasciata la reggenza al figlio Romoaldo, si portò a Pavia con un esercito dove, ucciso re Godeperto, ne assunse il titolo.

Nell’anno 663 l’imperatore d’Oriente Costante II, chiamato dal papa, sbarcò a Taranto e risalì verso il Sannio, distruggendo Quintodecimo e ponendo l’assedio a Benevento che dovette capitolare. Grimoaldo I lasciò Pavia ed accorse in difesa del suo ducato. Costante II, giudicandone preponderanti le forze, non lo attese, ma vana fu la sua ritirata in quanto fu intercettato e sconfitto sul fiume Calore da Trasamondo, gastaldo di Capua.

Grimoaldo I morì nel 671 e Romoaldo gli successe nel ducato, impegnandosi in ulteriori azioni di guerra contro i Bizantini.

Assume rilevanza la figura di Romoaldo per il fatto che la pia moglie Teodorada e San Barbato lo indussero alla conversione al cattolicesimo. Ebbe così inizio una nuova era. La Chiesa, non più vista come alleata di Bisanzio e quindi su posizioni di ostilità, con le sue comunità monastiche disseminate ovunque, sorretta da privilegi, rinvigorita da sempre più cospicue elargizioni, favorita da sgravi fiscali, venne a porsi come forza promotrice per una rapida ripresa economica.

Se ne avvantaggiarono parimenti le chiesette di San Pietro e di San Quirico intorno alle quali, per devozione e per bisogno di protezione, si costituirono embrionali villaggi contadini. La stessa struttura arimanna insediata sull’altura denominata Paternum, la originaria fara, dismise la sua iniziale funzione strettamente militare che ne aveva imposto la mobilità, per assumere carattere di stabilità trasformandosi in sala, cioè residenza padronale con diritto alla gestione diretta di un fondo (pars dominica), assegnato in proprietà al signore. Il termine sala non indica soltanto la casa padronale, ma l’intera proprietà di boschi, pascoli, prati, vigneti del signore1.

La pars dominica del signore longobardo di Paternum consisteva, come detto, nelle terre a nord dell’attuale centro abitato comprese fra il vallone della Pescarella, quello della Pescara ed il Fredane, con estensione quindi maggiore di quella della contrada che ai nostri giorni ne conserva, in Sala, l’antica denominazione, mentre la sua dimora non era ancora il castrum abilitato a fornire riparo e protezione alla popolazione civile in occasione di scorrerie o di aggressioni. Non va dimenticato che in Italia, all’epoca dei longobardi, vi erano guerrieri di rango elevato (appartenenti cioè al gruppo dei conquistatori e dei comandanti) che vivevano in abitazioni di un unico vano, con le pareti di legno e il tetto di paglia. Pochissime le suppellettili, pentole di terracotta o di rame, corna di bue per contenere l’olio, o da usare per bere, pelli buttate per terra per letto2.

Grimoaldo II successe, nel governo di Benevento, al padre Romoaldo nel 687 e, morto senza figli nel 689, il ducato passò al fratello Gisulfo I che non tardò a manifestare mire espansionistiche nella Campania bizantina.

Il figlio Romualdo II gli successe nel 706 e perseguì una politica di sempre maggiore autonomia dal re. Alla sua morte, nel 731, lasciando un figlio minorenne, Gisulfo, il ducato fu scosso da lotte interne per la successione, sì da offrire al re Liutprando il pretesto per intervenire e porre al governo del ducato il proprio nipote Gregorio, a cui dette in sposa sua figlia Cisalberga.

Morto Gregorio nel 738, il Consiglio di nobili beneventani, senza neppure interpellare re Liutprando, nominò duca Gotesalco, acceso fautore dell’indipendenza e dell’autonomia del ducato. Ma il re, assicuratosi l’appoggio di papa Zaccaria, mosse alla volta di Benevento costringendo Gotesalco ad una fuga precipitosa, durante la quale fu sorpreso ed ucciso da suoi oppositori beneventani.

Al governo del ducato fu insediato Gisulfo il quale, alla morte di re Liutprando, riprese la politica dei suoi predecessori che mirava ad una piena indipendenza.

In tal senso si mosse anche il figlio Liutprando, nominato duca nel 751, che in opposizione al re giunse addirittura a porsi sotto la protezione del re franco Pipino. Ma il nuovo re longobardo, Desiderio, piombò su Spoleto dove fece prigioniero il duca Alboino e quindi marciò su Benevento che saccheggiò selvaggiamente, inseguendo inutilmente fino ad Otranto il fuggitivo Liutprando.

Nel 758 re Desiderio nominò duca di Benevento Arichis II, ma non ne ebbe in cambio la riconoscenza dovutagli, tant’è che, quando nel 774 Carlo Magno sferrò l’attacco decisivo contro il regno longobardo, il ducato di Benevento si tenne neutrale, salvandosi così dalla rovina.

In quello stesso anno 774 Arichis II assunse il titolo di principe e si proclamò sovrano indipendente; ma le sue palesi ambizioni non potevano che essere avvertite come una minaccia ai possedimenti della Chiesa ed alla stessa autorità franca, così Carlo Magno, nel 786, marciò su Benevento e i suoi Franchi imperversarono, saccheggiandole, per le contrade del Sannio.

Arichis, per salvare il suo principato, fu costretto a compiere atto di sottomissione al re francese, ma già si preparava a riscattarsene quando, nel 787, morì.

La reggenza di Adelberga, vedova di Arichis, fu segnata da intrighi d’ogni sorta che videro coinvolti il papato, i Franchi, i Bizantini e l’aristo-crazia longobarda politicamente divisa, finché, nel 788, Carlo Magno, in cambio di precisi impegni di sottomissione, non consentì a Grimoaldo III di tornare a Benevento da dove, con l’aiuto dei Franchi, sconfisse forze bizantine inviate contro il suo principato.

Neppure Grimoaldo III sopportò a lungo la sua condizione di vassallo e, in risposta ad atti ostili, Carlo Magno gli inviò contro una spedizione, nel 792, che si risolse in una seppur discontinua decennale guerriglia priva di apprezzabili risultati.

Grimoaldo III morì probabilmente nell’anno 806 e la sua morte segnò l’inizio della decadenza del principato, imputabile all’indebolimento del potere centrale ed al conseguente consolidarsi in provincia di una classe nobiliare logorata da lotte intestine ed attenta più ai propri interessi che a quelli del principato.

Il titolo di principe sarebbe spettato ad Alachis, fratello del defunto, ma per dissidi, gelosie ed intrighi gli fu preferito Grimoaldo Stolesaitz che dovette sostenere una lunga guerra contro i Franchi, causa di non pochi lutti e devastazioni nel Sannio e nell’Irpinia. Stolesaitz fu ucciso in una congiura ordita da Sicone che, prevalendo sulle aspirazioni di nobili e gastaldi, gli succedette nell’anno 817.

Intanto, lo scadimento della cultura, l’inquinamento linguistico per l’incidenza di termini importati e per l’assimilazione di nuove forme espressive avevano determinato una involuzione del linguaggio e, per quel che concerne il territorio di Paternopoli, la conseguente volgarizzazione dei toponimi in Tauro e Paterno. Nel contempo, aree originariamente omogenee e quindi indicate con unicità di denominazione, per effetto di frantumazione dovuta all’interposizione di insediamenti soprattutto monastici, erano ora espresse nella loro pluralità in termini di Boviane e Cesinule.

A quel tempo, il solo Paterno, che era stata e continuava ad essere null’altro che la sede dell’antico eremo a cui il dominio longobardo aveva associato la pars dominica, faceva parte dei possedimenti della ricca e potente famiglia Marephai. Tuttavia un errore di fondo, quello cioè di voler attribuire al termine Paterno l’attuale integrità territoriale, circostanza che si concretizzerà solo in seguito all’occupazione normanna ed alla strutturazione del territorio in feudo, ha contribuito ad ingenerare non poche dubbi negli studiosi. Così se ne mostra perplesso Jannacchini: Che vi siano state delle molte terre con questo nome apparisce di leggieri da quel che diremo ... e, dopo aver ricordato numerose donazioni di ville e di borgate con tal nome nella provincia napoletana, conclude: ... e Pietro Marepai nel 817 donò allo stesso Montecassino, a San Vincenzo al Volturno e a S. Sofia in Benevento molte corti in Aquino, in Caverino e Paterno1.

Del riferimento all’antica Paternopoli è invece convinto Giuseppe De Jorio: Le notizie storiche più sicure risalgono all’anno 817, quando il potente Pietro Marepai del fu Vasone donava Paterno agli abati di Montecassino e del Volturno “pro

redemptione animae suae2 . Certo ne è pure l’anonimo Irpino: Il più antico documento nel quale è nominato questo comune è dell’anno 817; vi si legge che Pietro Marepai, figlio di Vasone, donò Paterno ai monaci di Montecassino, ed a quelli di S. Vincenzo al Volturno, “pro redemptione animae suae”3 .

Ad essi si associa Galasso: Il borgo è citato già in un atto notarile dell’817, anno in cui il potente Pietro Marepai del fu Vasone dona Paterno agli abati di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno4.

Tropeano non ha ragioni per dubitare del riferimento, pur senza cogliere la sostanziale differenza insita nel termine Paterno. Infatti, scrivendo di Paternopoli, così si esprime: ... di esso si fa menzione per la prima volta nell’817, quando Petrus Maripahis, filius quondam Vosonis, nel fare testamento lascia al monastero di San Vincenzo al Volturno l’eredità del defunto fratello Giovanni in Paterno ed altrove, con la clausola che qualora i figli voluerint ipsi emere, dent per sacerdotes pro anima ipsius Iohannis iustum precium, et rem ipsam ipsi habeant5.

 

... i figli vorranno riscattare la stessa eredità, debbono corrispondere un giusto prezzo ai sacerdoti per l’anima dello stesso Giovanni, e la stessa eredità si tengono gli stessi.

Orbene, il documento in questione è riportato in Chronicon Volturnense1 sotto il titolo di DE APULIA IN CAMERIANO, AQUILUNI, LUCANEA, FISIANO, TRIBILIANO, PATERNO, ET CUPULI, e costituisce il testo integrale del Petri Marpahis Testamentum - Anno DCCCXVI.

L’atto, redatto in Benevento dal notaio Tundipertum, esordisce: In nomine Domini. Undecimo anno Principatus Domni Grimoaldi, mense Martio, X Indictione2, e prosegue in una dettagliata descrizione dei beni di sua proprietà, nonché di quelli dei propri fratelli Johannis e Tassilonis, di cui Petrus Mariphis, filius quondam Vasonis (Pietro Marepahis, figlio del fu Vasone), fa donazione ai monasteri di Montecassino, di Santa Sofia presso Benevento e di San Vincenzo al Volturno. Per i possedimenti produttivi si specificano le colture a cui sono posti i terreni, i servizi annessi ed i servi ad essi legati. Paterno, invece, decaduto in seguito alla morte del suo signore privo di discendenti diretti, non viene più menzionato nell’atto, comprendendosi nelle generiche possessioni del defunto fratello Giovanni (quae fuerunt praefati Johannis), cedute a San Vincenzo al Volturno con l’avvertimento che se i propri figli, cioè di Pietro, avessero voluto riscattarle avrebbero dovuto corrispondere un giusto prezzo ai monaci pro anima ipsius Johannis (per l’anima dello stesso Giovanni).

Dunque non l’intero territorio di Paternopoli, come lascia intendere Jannacchini, né la suddivisione di esso fra i monasteri di Montecassino e del Volturno, come indicano, ad eccezione di Tropeano, gli altri studiosi citati, ebbe a formare oggetto di donazione, bensì la sola pars dominica, cioè la sala, svilita nel suo ruolo di centro militare ed economico in conseguenza del progressivo decadimento della già precaria rete viaria, su cui non si era ancora realizzato il borgo supposto dal Galasso.

Anche se i documenti che hanno ispirato i trattati storici sulla dominazione longobarda non fanno cenno ai Marepahis, questi dovettero costituire una ricca ed influente famiglia del secolo IX dal momento che, dal Chronicon Volturnense, risulta che Griperti Marepahis fece ingenti donazioni a San Vincenzo al Volturno nell’anno 845 e ad altre, cospicue, provvide Pandonis Marepahis nell’anno 854.

Comunque la nobiltà longobarda del tempo fu prodiga di donazioni a monasteri e a chiese, allo scopo dichiarato di voler acquisire meriti per la salvezza della propria anima, ma più spesso col recondito intento di assicurarsi l’appoggio del potente partito clericale.

Era Sicone principe di Benevento, nell’anno 819, quando i monaci di San Vincenzo al Volturno chiesero all’imperatore Ludovico I di confermare, con atto formale, tutte le donazioni fatte al loro monastero. Alla richiesta aderì l’imperatore in Data III. Idus Januarias, anno Christo propitio VI. Imperii Domni Hludovici piissimi Augusti, Indictione duodecima. Actum Aquisgrani Palatio Regio in Dei nomine feliciter. Il documento di conferma, fra l’altro, recita: Vir etiam praepotens nomine Petrus Marepahis obtulit mediam curtem in Lucania, et in Ficiniano, et in Tribiliano, et in Paterno, et in Capuli3

.

 

Il potente uomo di nome Pietro Marepahis donò mezza corte in Lucania, e le corti in Ficiniano, e in Tribiliano, e in Paterno, e in Capuli.

Quindi, nella dodicesima indizione del piissimo Augusto Ludovico, che corrisponde all’anno 819, con atto emesso dal palazzo reale di Aquisgrana, il monastero di San Vincenzo al Volturno fu confermato nel possesso della corte di Paterno.

A Sicone, morto nell’anno 832, successe il figlio Sicardo che adottò metodi repressivi per tenere compatto il principato dilaniato da lotte intestine. Ucciso questi in una congiura nell’anno 839, se ne esiliarono i figli e, fra intrighi e scontenti, si nominò principe Radelchi, parente di Sicardo. Ma i Salernitani, liberato con un colpo di mano il fratello di Sicardo, Siconolfo, lo proclamarono principe. Così, nell’anno 841, il principato longobardo si divise, con Siconolfo in Salerno e Radelchi in Benevento, e con i signori longobardi che, parteggiando per l’uno o per l’altro, finirono col farsi guerra fra loro.

Approfittando di tale caos, a partire dall’841 bande saracene sbarcarono in Puglia e in Campania ovunque devastando e saccheggiando. Ben presto fra queste, sia Siconolfo che Radelchi, assoldarono truppe mercenarie favorendone la nefasta penetrazione nel Sannio e in Irpinia le cui contrade vennero ad essere esposte alle scorrerie di una sanguinaria soldataglia.

Il papa, che vide depredati chiese e monasteri e minacciati gli stessi possedimenti romani, invocò l’intervento dei Franchi; ma Ludovico II, inviato in Italia nell’845, si dichiarò impotente a condurre un’azione proficua se prima non si fossero pacificati Siconolfo e Radelchi. Così, di necessità fatta virtù, a seguito di laboriose trattative conclusesi, pare, nell’anno 849, il principato longobardo fu definitivamente diviso fra i due contendenti.

La linea di divisione fu tracciata, per quanto concerne questa parte dell’Irpinia, lungo la metà della distanza intercorrente fra Benevento e Salerno, nonché di quella fra Benevento e Conza, in entrambi i casi corrispondente a venti miglia, passando quindi nei pressi di Atripalda da un lato e di Frigento dall’altro. Il gastaldato di Montella venne a ricadere sotto la giurisdizione salernitana e Paternopoli, assegnato a Benevento, venne a trovarsi in una posizione di confine.


1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

2 Da Die Bevolkerungsgeschichte Italiens (Storia della popolazione in Italia) dello storico tedesco Karl Julius Beloch, nato in Germania nel 1854 e morto a Roma nel 1929.

1 Lo storico longobardo Paolo Diacono, nato a Cividale nel 720 e morto a Montecassino nel 799, ne fa derivare il nome da “lang-bart”, cioè uomini dalla “lunga barba”.

2 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.

1 Da cui l’odierna Cesinelle: boschetto, da caesia (selva). La denominazione ebbe larga diffusione e non poche contrade ne detengono il nome in Cesina o Cesinali.

2 Dal longobardo gastald: ufficiale di nomina regia con funzioni sia amministrative che di coordinamento militare.

1 Karl Bosl: L’Europa Meridionale, in Storia universale dei popoli e delle civiltà - Torino 1983.

2 La nascita della civiltà, in Ulisse, Vol. II - Roma 1976.

1 Angelo Michele Jannacchini: Topografia storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

2 Giuseppe De Jorio: Cenni statistici, geografici e storici intorno al Comune di Paternopoli - Milano 1869.

3 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica in Paternopoli (Avellino).

4 Giampiero Galasso: I comuni dell’Irpinia - Atripalda 1989.

5 Placido Mario Tropeano: in nota 1 della Cartula Oblationis 271 del Codice Diplomatico Verginiano, Vol. III - Montevergine 1979.

1 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.

2 L’indizione greca, adottata nell’Italia meridionale ed in uso fino al secolo XI, fu un sistema di datazione che faceva iniziare l’anno dal primo settembre. E’ opportuno rilevare che l’anno undicesimo del principato di Grimoaldo corrisponde all’indizione IX che giustificherebbe l’anno 816 riportato nel titolo. Se invece vuol ritenersi esatta la trascrizione di X indizione, l’anno indicato nel titolo risulterebbe errato, dovendo esso essere 817.

3 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.

Diritto alla Stori, Ipotesi sulla genesi del toponimo

Diritto alla Storia - Capitolo 5

La confusione politica che aveva caratterizzato l’età imperiale non poteva che ingenerare una profonda crisi economica, destinata a trasformarsi ben presto in crisi morale. Lo smarrimento dei valori tradizionali aveva precipitato la società civile, già nel corso del terzo secolo, in uno stato di generale decadenza. Il vescovo cartaginese Tascio Cecilio Cipriano, nel suo De Lapsis, aveva individuato le cause del declino nello scadimento della pietà a tutti i livelli, sia dirigenziali che delle masse, nella corruzione dei costumi, nella pratica della frode elevata a sistema, nello spergiuro, nella calunnia, nella profonda sperequazione fra la privilegiata minoranza di ricchi e la sconfinata folla di diseredati.

La ricerca di nuovi valori a cui fare riferimento aveva favorito la diffusione del cristianesimo che, agli inizi del secondo secolo, con l’imperatore Traiano, era radicato in Oriente e tollerato in Roma. Intorno al 250 però, sotto l’impero di Decio, aveva avuto inizio una spietata persecuzione che si era protratta quasi ininterrottamente fin sotto Diocleziano, ai principi del quarto secolo. In De mortibus persecutorum, così si era espresso Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, scrittore latino convertito al cristianesimo, morto intorno all’anno 320: Dopo molti anni, a tormento della Chiesa, fece la sua comparsa Decio, bestia esecrabile ... E come se appunto per questo fosse stato innalzato alla dignità imperiale, cominciò subito ad incrudelire contro Dio, affrettando la propria rovina.

Ma nulla avrebbe più potuto fermare l’espan-sione del cristianesimo che trovava facile attecchimento nello sconnesso tessuto sociale. Nel 285 la città di Benevento aveva avuto il suo protovescovo in Ianuarius, martorizzato il 19 settembre del 305 presso la solfatara di Pozzuoli insieme con il diacono Festo ed il lettore Desiderio, entrambi della Chiesa di quella città. Ad Abellinum già nella prima metà del III secolo si era diffuso il Cristianesimo con una immissione di coloni da Antiochia, importante centro cristiano d’Oriente. Figlio di un orientale di Antiochia era S. Ippolito martorizzato tra il 303 ed il 312 insieme con altri compagni e sepolto nello “Specus Martyrum”, una catacomba allora poco fuori dalla città e oggi tramutata nella cripta della chiesa di S. Ippolito, la chiesa madre di Atripalda1.

In Oriente, intorno al 250, i primi asceti avevano lasciato il mondo per ritirarsi in solitaria contemplazione lungo la valle del Nilo. Il più famoso fra essi era stato San Paolo di Tebe di cui San Girolamo ci ha lasciato una biografia. Erano stati questi i cosiddetti Padri del deserto sul cui esempio l’abate Antonio, poi santo, spogliatosi dei propri averi, si era fatto rinchiudere in un’antica tomba scavata nella montagna. Nel 305 poi, l’abate aveva raccolto intorno a sé i primi discepoli, dando inizio a quel movimento eremitico destinato a popolare di asceti l’Egitto, l’Asia Minore, la Siria e, alfine, l’Occidente.

Soltanto nel 313 Costantino, per l’impero di Occidente, e Licinio e Massimino II, per quello d’Oriente, avevano emanato, in Milano, un editto col quale veniva concessa libertà di culto per tutti i sudditi, compresi i cristiani. Più nulla si opponeva dunque alla penetrazione del cristianesimo sicché, nel corso del quarto secolo, formata alla scuola dell’abate Antonio, potette approdare dall’Egitto al Meridione d’Italia la figura ascetico mistica propria del monachesimo cristiano, tendente a risolvere l’ideale della perfezione non in una tavola astratta di valori, ma nell’exemplum di una vita santamente vissuta.

Sempre più numerosi ormai i giovani di buona famiglia lasciavano le proprie ricchezze e le città per ritirarsi in meditazione, per cercare nell’isolamento della preghiera le ragioni dell’esistenza. Essi, come gli eremiti della valle del Nilo, assumevano il nome di Pater. Le biografie dei maggiori vennero ad essere diffuse come esempi di vita: è tipica la Vita Apollinii che è la narrazione di una straordinaria ed intensa attività predicatoria, oracolare, taumaturgica e finanche magica.

Le “Vitae Patrum” furono, e rimangono, oltre che la documentazione complessa e possente del movimento e dell’esperienza monastica, la figura sacralmente concreta dello stesso monachesimo cristiano nelle sue origini e nel suo pieno sviluppo2.

Alla fine del quarto secolo l’Irpinia, devastata dal sisma del 369, impoverita per il ristagno economico, isolata per l’abbandono e la decadenza delle antiche grandi vie di transito, spopolata dalle carestie e dalle epidemie divenute endemiche, inselvatichita nei suoi terreni una volta fertili, si candidò come la terra ideale in cui i Patres potessero trovare rifugio dalle tentazioni del mondo e quiete in cui immergersi in meditazione.

All’inizio del quinto secolo la Bovianum romana era pressoché ridotta ad un cumulo di macerie. Nei vici semideserti si praticava una stentata agricoltura, mentre la pastorizia era del tutto scomparsa in quanto gli animali da pascolo costituivano facile preda per le bande di soldati che il collasso dell’impero aveva lasciate prive di qualsiasi controllo.

Compresa nel suo territorio, in posizione centrale, una naturale collinetta si elevava a dominare le valli e le terre circostanti, e consentiva allo sguardo di spaziare da sud-est ad ovest sul superbo scenario della dorsale appenninica, di spingersi a nord fino alle brulle regioni sannitiche, di adagiarsi sui colli che ad est sovrastano l’Ufita. I pendii non agevoli che ne isolavano la sommità si presentavano come una pietraia aggredita dai rovi su cui stentava una rada vegetazione. E’ probabile che il luogo non fosse mai stato stabilmente abitato.

Sembrava il posto ideale per stabilire un contatto con Dio, ed un Pater lo elesse a propria dimora. Che avesse rinunciato ai beni del mondo, che avesse spontaneamente scelto una vita di solitudine e di sacrificio, dovette apparire inesplicabile, se non addirittura prodigioso, alla gente semplice, da sempre avvezza a difendere con l’astuzia o con la forza i propri miseri averi dall’avidità e dall’arroganza altrui. Il crollo dei valori che aveva comportato il disfacimento della società, lo sgretolamento del potere centrale, unico garante di stabilità, l’avevano lasciata senza certezze e, nel disorientamento in cui annaspava smarrita, il Pater venne a porsi come punto di riferimento, come realtà a cui aggrapparsi per non essere travolta dalla confusione della decadenza morale, della rassegnazione, del fatalismo. Ancora pagana nei costumi, nelle credenze, nelle superstizioni, nella mentalità, questa gente vide nel Pater un rinnovato strumento attraverso il quale portare avanti le proprie istanze, il rappresentante di una divinità che, per tradizione e per cultura, non poteva sentire sostanzialmente diversa da quelle fino ad allora temute ed implorate.

La fama del Pater non dovette tardare a varcare i confini della vetusta Bovianum, e Paternum fu chiamato il colle su cui esso viveva ed operava.

In tanti dovettero accorrere a Paternum dai lontani villaggi disseminati lungo le valli del Fredane e del Calore, e per farsi curare piaghe e malattie, e per intercedere per un defunto, e per supplicare il ritorno di un familiare lontano, o più semplicemente per sollecitare i buoni auspici per un raccolto. Tutti identificavano nel Pater il mago e il taumaturgo, ne ascoltavano il linguaggio erudito, ne subivano il carisma, senza tuttavia saperne cogliere il messaggio di speranza che andava oltre i bisogni immediati.

Sopravvisse il nome Paternum alla scomparsa del Pater, ad indicare il solo eremitaggio però, il colle consacrato a luogo di culto. L’intero territorio, che nel devastato pago di San Pietro-Sant’Andrea identificava il proprio centro amministrativo ed economico, continuò a serbare l’antico nome di Bovianum.

Tempi ancora più bui si apprestavano intanto per le già martoriate terre d’Irpinia: popolazioni barbare, di origine germanica e scandinava, sospinte da ondate migratorie di orde tartaro-mongole e attratte dalle ricchezze dell’impero, avevano varcato i confini fino a giungere a Roma che, nel 410, per tre giorni era stata messa al sacco dai Visigoti di Alarico.


1 Vega De Martini, in: Momenti di storia in Irpinia - Roma 1989.

2 Maurilio Adriani: La cristianità antica dalle origini alla “Città di Dio” - Roma 1972.

Diritto alla Storia, L'età Imperiale

Diritto alla Storia - Capitolo 4

Nel 29 a.C., con la conquista dell’Egitto da parte di Roma, ebbe inizio un lungo periodo di pace che, sebbene caratterizzato da congiure, intrighi e cruente lotte per il potere, non impedì lo sviluppo economico ed edilizio delle aree italiche, anche se in breve era destinato ad accentuare lo squilibrio fra ceti sociali per l’affermarsi di una piccola borghesia locale che progressivamente avrebbe accresciuto a dismisura le proprie ricchezze in danno delle più deboli popolazioni autoctone. Le guerre, combattute ormai ai lontani confini dell’Impero, ben lungi dal produrre gli effetti nefasti che ogni conflitto comporta, contribuivano a convogliare ricchezze verso la penisola.

Sotto l’imperatore Cesare Augusto, nel 22 a.C., l’Italia, con la sola esclusione delle tre isole maggiori che rimasero province, fu divisa in undici regioni, cioè distretti amministrativi, fiscali e giudiziari. Alla I regione, unitamente al Lazio, fu assegnata la Campania; il Sannio, comprendente l’Irpinia, costituì la IV regione.

Le comunità cittadine di ciascuna regione furono distinte in coloniae, laddove preponderante era la presenza di cittadini romani assegnatari di ager publicus, e municipia, costituiti da preesistenti insediamenti di alleati o sudditi.

Il pago dell’antica Paternopoli, con a capo un magister3, fu verosimilmente posto sotto la giurisdizione di Eclano. La Bovianum romana non era sorta sulle ceneri di quella sannitica, ma si estendeva a comprendere le contrade San Pietro e Sant’Andrea, in posizione pressoché centrale rispetto agli appezzamenti di terra assegnati ai nuovi coloni. Le abitazioni in mattoni, a più piani, affacciavano ordinatamente su strade ampie e lastricate.

Sebbene le terre migliori fossero state distribuite ai veterani di guerra, anche per la popolazione locale, espropriata dei beni, relegata nei vici, sembrarono profilarsi tempi migliori. Con la concessione della cittadinanza romana si era aperta per i giovani la prospettiva dell’arruolamento nelle truppe legionarie, consentito ai nullatenenti con la riforma dell’esercito operata da Caio Mario nel 107 a.C.. Sul finire dell’ultimo secolo prima dell’era cristiana la paga di un militare raggiungeva i 225 denarii1 annui che, per effetto di premi vari, poteva superare di norma i 300 denarii.

In contrada Fornaci le fabbriche di laterizi fecero registrare un notevole incremento, sia produttivo che qualitativo, determinato dalle accresciute esigenze dell’edilizia, il che comportò un maggiore impiego di manodopera specializzata locale. Oltre che di tegole e mattoni, crebbe la produzione di vasellame, di lumi e di grosse anfore panciute destinate alla conservazione di granaglie e di vini, tutti prodotti apprezzati per la loro ottima qualità ed esportati in centri anche lontani.

Di pari passo venne ad intensificarsi lo sfruttamento dei depositi di pozzolana e presso il Fredane, dove oggi si dice Scorzagalline, crebbe il numero delle fornaci per la produzione della calce.

Nei vicini territori di Gesualdo e di Fontanarosa si affermò la lavorazione della pietra, e la tecnica della soffiatura del vetro, introdotta in Siria nel primo secolo a.C. e giunta in età imperiale in Italia attraverso l’Egitto, nel secondo secolo dopo Cristo approdò in Eclano dove se ne sviluppò un’importante fabbrica.

Un operaio di queste primitive industrie veniva retribuito con un denario e due assi al giorno che, seppure per l’incidenza di festività, malattie e periodi di disoccupazione non davano un reddito superiore ai 250 denarii annui, tuttavia consentivano di assicurare ad una famiglia di media entità almeno l’indispensabile per la sopravvivenza. Se si considera poi che tale attività non era mai disgiunta da quella agricola e pastorale che impegnava i membri dell’intera famiglia, si può supporre che le condizioni di vita delle popolazioni di questa parte di Irpinia non fossero del tutto disagiate.

Ma le prospettive di un diffuso crescente benessere non erano che illusorie. Le lotte di potere che dilaniarono Roma col conseguente avvicendamento in poco più di un secolo, da Augusto a Traiano, di quattordici imperatori, e addirittura, dal 180 al 283, di ben ventotto, di cui almeno sedici assassinati, non potevano che riflettersi negativamente sulle classi più deboli. Con Traiano poi, proteso a rinvigorire le casse dello stato col ricorso alla vendita di grandi proprietà imperiali, si favorì lo sviluppo del latifondo ed il conseguente controllo dei prezzi dei prodotti agricoli da parte di un ridotto numero di capitalisti a tutto danno dei ceti più bassi.

A Paternopoli come altrove, l’accrescimento della popolazione, la frantumazione per successioni delle già esigue proprietà, le magre risorse ottenibili per i metodi arcaici impiegati in agricoltura, il progressivo abbandono delle terre da parte dei giovani che sempre più numerosi perseguivano facili arricchimenti nell’arruolamento nell’esercito e, non ultime, le siccità e le carestie costrinsero la popolazione più esposta a far ricorso a prestiti ad esosi tassi di interesse che, non pagati, comportavano la confisca di case e terreni. Si ebbe così il graduale affermarsi di un ceto medio-alto che, incamerando beni altrui, disponendo di manodopera a basso costo e molto spesso di prestazioni gratuite a copertura di interessi dovuti, venne ad accumulare ricchezze e potere.

Fu nel corso del secondo secolo d.C. che l’insediamento romano sul territorio di Paternopoli raggiunse il suo massimo splendore. Il centro urbano si era esteso a dismisura e venne ad arricchirsi di edifici e monumenti, ed insieme a dotarsi di massicce strutture difensive. Sorsero nelle campagne intorno sontuose ville di cui si serbano, soprattutto in contrada Casale, copiose tracce costituite da cumuli di travertino lavorato e da pietre squadrate riutilizzate nella muratura di case coloniche.

Dà testimonianza delle sue antiche vestigia Giuseppe De Rienzo che, nello scrivere del casale di San Pietro, lo definisce il più grande degli altri in estensione: comprova di ciò ne sono le tante fondamenta di edificj per lungo tratto, e successivamente da coloni in que’ luoghi scavate, le grandi

rovine di muraglie, e gli strabocchevoli mucchi, e cumuli di pietre1. Della contrada Sant’Andrea, che ospitava parte dell’agglomerato urbano, il De Rienzo riferisce: I grandi vestigj dei suoi edificj danno chiaramente a vedere d’essere stato di non poca estensione ... Vi si sono trovate ancora moltissime pietre di un singolare lavoro con molte iscrizioni, ma rose dal tempo e poco intellegibili ... Verso la fine del passato secolo si scavarono quivi le mura di una torre ottangolata molto ampia, e formata tutta di grosse pietre lavorate a scarpello, e connesse fra loro con grapponi di ferro: il suo pavimento era ben lastricato; ed in essa trovossi ancora la testa, le braccia ed il piedistallo di una statua di marmo schiacciata tra le rovine. In un angolo di essa Torre era un’apertura da dove si dirigeva verso l’accennato Casale (San Pietro) una strada ampia, e selciata, che poi non si terminò di scavare. Non vi si trovò alcuna iscrizione; un sol gran mattone vi fu trovato, su di cui si vidde la lettera “Q” maiuscola formata al rovescio, che somministrò agli oziosi occasione di molte interpretazioni2.

Qui vissero, come ci è dato di conoscere dalle iscrizioni rinvenute, un Cerenzio Claudio e un Cacelio Massimo che dovettero appartenere alla classe più agiata e che, possedendo certamente un reddito superiore ai 25.000 denarii, rientravano nella categoria degli honestiores, i soli che potessero accedere a cariche pubbliche.

Che la ricchezza fosse incentrata esclusivamente in quest’area lo dimostra il gran numero di monete rinvenute, sporadiche o del tutto assenti nel territorio restante su cui erano distribuiti i numerosi vici. Le monete oggi disponibili all’esame, tutte di proprietà di privati cittadini, si rivelano in minima parte riferibili al periodo tardo repubblicano ed in considerevole numero all’età imperiale. Trascurabile è il rinvenimento di coni successivi al IV secolo, a testimoniare che l’opulenza della comunità non sopravvisse al disfacimento dell’Impero. In proposito il De Rienzo scrive: Altre sono state medaglie, o monete imperiali cioè coniate sotto de’ Cesari, delle quali se ne sono trovate in maggior numero, distinte dalle Consolari per le teste, che vi sono o de’ primi imperatori, o de’ posteriori, colle loro iscrizioni rispettive: le quali trasportate altrove hanno fatto l’ornamento de’ più celebri Musei3 .

Poco invece si sa della più numerosa massa plebea, gli humiliores, costituita da artigiani, agricoltori e nullatenenti che, a differenza degli appartenenti alla classe degli honestiores, oltre ad essere esclusi dalla pubblica amministrazione, potevano essere sottoposti a tortura nel corso delle istruttorie, nonché condannati a pene corporali, a lavori forzati e finanche alla pena capitale.

Questi conducevano vita stentata, i più strappando le magre risorse della terra lungo gli scoscendimenti vallivi, tuttora integrando la dieta alimentare con la raccolta di prodotti spontanei quali funghi e verdure, con la ricerca di miele e uova di uccelli, con la cattura di ricci e di volatili e con la pesca.

L’agricoltura si avvaleva di strumenti semplici e rudimentali. La zappa, la falce e l’accetta avevano lame di metallo, mentre i rimanenti attrezzi, erpici, rastrelli e badili, restavano tuttora in legno. Dell’aratro, l’unica parte realizzata in ferro era il vomere.

La più praticata era la coltura dei cereali, anche se una piccola parte del podere era riservata alla coltivazione della lattuga, della bieta, delle zucche e delle cipolle. Diffuso l’olivo, ma soprattutto la vite in quanto il vino era bevanda indispensabile anche alle mense più povere.

La prima colazione veniva consumata nei campi ed il pasto principale, anche per la classe benestante, concludeva la giornata. Il frumento veniva trebbiato mediante battitura delle spighe effettuata con lunghe pertiche. L’uso del bastone snodato, lo uillo, che ha trovato impiego fino agli inizi del nostro secolo, venne ad essere introdotto dalla Gallia proprio in età imperiale, e gradualmente adottato in Irpinia.

Un ruolo essenziale ricopriva la donna nell’economia dei vici. Oltre a prestare la propria opera nei campi, ad essa era affidata la cura dei figli, la cottura dei cibi e la preparazione del pane che costituiva la base alimentare della classe meno abbiente. Suo compito era pure la macina del frumento che, nonostante l’introduzione dei primi mulini ad opera dei coloni romani, era ancora ottenuta mediante la frantumazione dei chicchi su grosse pietre levigate o, nella migliore delle ipotesi, in capaci mortai conici di pietra di cui in Paternopoli è stato rinvenuto un consistente frammento basale. Curava l’orto, attingeva l’acqua da pozzi o cisterne mai vicini e, nei rari momenti di riposo, filava la lana.

Degli antichi vici rimane traccia nelle misere tombe rinvenute ove essi furono ubicati: semplici fosse scavate nel terreno che soltanto il caso ha rivelato, ed ivi sepolte una lucerna, una ciotola di modesta fattura e qualche tegola di argilla impiegata come copertura, priva di iscrizioni.

Ben diversa fu la necropoli del maggiore centro abitato. In questi termini Giuseppe De Rienzo ne testimonia la grandezza: Così in Paterno che negli antichi suoi casali, e per lo più in quello di S. Pietro, si sono scavati, e tuttavia si scavano alla giornata molti monumenti sepolcrali, formati di grosse tegole, e mattoni, chiusi a volta, con al di sopra una grande lapide sepolcrale, intagliata a scarpello, e coll’iscrizione incise “Dis. Manib. ec.”1, le quali per brevità mi asterrò di trascrivere. In tutti questi monumenti (parlo di quelli appunto, che sono stati a mio tempo scoverti) si sono per lo più trovate delle lucerne, e lampade sepolcrali, delle scudelle di rame, ed anche di creta cotta, piene di carboni, o di arena bianca, delle pignatte, de’ vasi da olio, quelle forse, che soleano chiamare urne lacrimali. Vi si sono trovate anche le sciabole a fronda d’oliva, degli spiedi lunghi, ed altri ferri ec., delle monete di rame; come pure degli idoletti di metallo; e nel luogo dove fu l’antico casale detto la Serra un colono in un sepolcro ritrovò accanto al cadavere due idoletti d’oro, che furono ai suoi bisogni di non poco sollievo2.

E’ innegabile l’attendibilità dell’autore dello scritto, anche se il contenuto va parzialmente ricondotto ad una dimensione più realistica, alla luce delle leggi e delle consuetudini romane.

Già nel 451 a.C., con la stesura di dodici tavole di leggi ad opera di una commissione di dieci magistrati con a capo Appio Claudio, erano state dettate le regole da seguire nella tumulazione dei morti. Nella decima tavola si legge: Non seppellire né bruciare un morto dentro la città. / Non pulire la legna del rogo con l’ascia. / Non aggiungere oro (sul cadavere) ma se un morto ha i denti uniti con oro (chi) lo seppellirà o lo brucerà insieme con l’oro, sia senza danno3.

Quindi le sepolture non potevano essere distribuite indiscriminatamente sul territorio, né tantomeno, come sembra suggerire il De Rienzo, all’interno del nucleo urbano. Inizialmente invece, come si intuisce dalla fattura arcaica dei monumenti funerari ivi rinvenuti, la necropoli si sviluppò appena fuori dell’abitato, lungo la strada che conduce all’odierna contrada Casale e che costituiva il tratto terminale della diramazione della via Napoletana. Successivamente le tombe, meglio curate scultoreamente nelle lastre lapidali, vennero ad impegnare il versante opposto, costeggiando la strada che attraverso Cerreto dirigeva a Trinità, o ergendosi come isolati monumenti funebri nelle immediate vicinanze, peraltro disseminate di anonime sepolture.

Si esclude infine il ritrovamento in contrada Serra di una tomba contenente due idoli d’oro, e non soltanto per le imposizioni di legge, ma soprattutto perché la località non fu oggetto di confisca da parte dei Romani e rimase probabilmente sede di un vico abitato da genti indigene; mentre il contenuto delle ciotole rinvenute nei sepolcri, identificato come carbone e arena bianca, era in realtà quanto restava del pane e del grano che avevano costituito le offerte votive.

Tutti i reperti a cui fa riferimento il De Rienzo, ed anche i successivi, sono andati dispersi: in minima parte nelle anonime raccolte di musei, in numero più consistente ad arricchire collezioni di privati. Oggi non è disponibile all’osservazione che parte di una unguentaria in terracotta, vasetto che, erroneamente definito lacrimatoio, era destinato a contenere unguenti o profumi. Di questa non rimane che il busto e la testa di una indecifrabile figurina, munita sul retro di manico ricurvo, la cui immagine è stata riprodotta in una pubblicazione del 19911.

Comunque la dovizia degli arredi funerari è confermata dalla pregevolezza scultorea delle poche lapidi sfuggite all’impiego in edilizia o al mercato clandestino.

Di una di queste ci propone il testo lo storiografo Carlo Aristide Rossi: D.M. / CACELI / MAXIMI / EPIDIA / SUCCESSU / COIUGI. B / M. F. - La parola “EPIDIA” sta tra una patera ed un cestello2. In essa è chiaro l’affidamento del defunto alla pietà degli Dei Mani, da parte della moglie Epidia che fece edificare il monumento per le di lui benemerenze. La donna dovette essere una liberta di origine grecanica, della gens Epidia, certamente progredita nella condizione sociale se fu scelta come sposa dal romano Cacelio Massimo, delle cui floride condizioni economiche testimonia la stessa elaboratezza scultorea dell’epigrafe.

Altre ne ricorda l’abate Guarino: Le seguenti quattro3 iscrizioni poi appartengono al comune di

Paterno, probabilmente porzione un tempo dell’agro Eclanese. ........ III. D.M. / FIRMIANO / POTIdia / H.M.F. ........

V. D.M. / QUINTIA / SIBI ET SUIS /H.M.F.4.

Il primo dei due cippi fu fatto erigere in memoria di Firmiano dalla moglie Potidia; dalla seconda iscrizione apprendiamo che Quinzia, per sé e per il suo sposo, Hoc Monumentum Fecit5.

Altra lapide è custodita in Avellino presso il Museo Irpino. Essa fu recuperata negli anni ‘70, mercé l’intervento dei Carabinieri, nella zona compresa fra Cerreto e Trinità dove contadini, che casualmente l’avevano riportata alla luce, l’avevano celata allo scopo di trarne lucro dalla vendita. E’ ricavata da un’unica lastra di pietra dell’altezza di un metro e trenta circa e della larghezza di poco inferiore al metro. La parte superiore è tagliata a frontone, impreziosita da elementi scultorei, ora devastati, al vertice ed agli angoli di base, e da un rosone nella zona centrale. La parte sinistra è danneggiata in profondità e l’iscrizione si evidenzia solo parzialmente e con difficoltà. Di ciò che rimane si può leggere: CIERENTIO CLA.... / DIOSCUR IDIC.... / C...R.... PROTITA .... / ............ / FECITUIT .... / ............ / INFELIX ..... N....A....

Par di capire che l’infelice moglie affidi il suo sposo Cerenzio Claudio ad uno dei Dioscuri perché lo guidi e protegga nel cammino del-l’oltretomba.

Nella stessa località, e grazie ad un analogo intervento, agli inizi degli anni sessanta, un’altra lapide, di cui purtroppo si è persa ogni traccia, fu sottratta al mercato clandestino dei reperti archeologici.

Attualmente restano visibili in Paternopoli, incastonate rispettivamente all’esterno ed all’interno dell’ingresso della torre campanaria della chiesa parrocchiale, due parti di uno stesso pezzo di travertino rettangolare, un tempo integrato nel frontone di una tomba monumentale. Un muratore sensibile le volle così sottrarre alla negligenza ed alla disonestà degli uomini, pur preservandole all’ammirazione di essi. Esse, orizzontalmente divise in due sezioni, rappresentano nella superiore, scolpite in bassorilievo, scene gladiatorie, mentre quella inferiore è riservata a contenere l’epigrafe. Oggi sul primo dei due pezzi si può leggere: ELSUS SIBI E, mentre la scritta del secondo è rovinata al punto da risultare illeggibile. Tuttavia dal De Rienzo, e ancor prima menzionata dal Guarino, sappiamo che ancora agli inizi del secolo scorso la scritta si rivelava con chiarezza in CELSUS SIBI ET SUIS H.M.F. (Celso, per sé e per i membri della propria famiglia, eresse questo monumento).

Si ignora in quale settore della necropoli sia stato rinvenuto il blocco di travertino, ma si può supporre che facesse parte di un complesso monumentale destinato a ricevere le spoglie mortali dei membri di una ricca e potente famiglia.

Comunque non fu questo l’unico monumento funerario istoriato, dal momento che nella stessa muratura presso la torre campanaria ha trovato collocazione, come pietra angolare, un altro blocco, di altezza e di fattura diverse, diviso in pannelli quadrati. Il primo, a partire dalla destra di chi osserva, mostra scolpita una maschera; in quello centrale si evidenzia una figura antropomorfa alata; nell’ultimo, dimezzato dallo scalpello per l’adattamento al reimpiego, compare una muscolosa figura maschile ignuda, con le braccia levate e le mani incrociate dietro la nuca, probabilmente uno schiavo. Analoga figura emerge dalla crosta dell’intonaco, alla destra del blocco.

Più in alto, inserita nella stessa cantonata, una pietra squadrata reca scolpito al centro un vistoso elemento floreale che però, per la fattura e lo stato di conservazione, si presume posteriore ai precedenti.

Altri elementi lapidei, con caratteristiche diverse, vennero largamente utilizzati come cippi funerari. Questi sono costituiti da pesanti blocchi, di forma allungata, lavorati a sezione semiellittica che nella forma vagamente ricordano quella di un baule. Tutti recano scolpita una scritta entro un riquadro frontale che raramente risulta centrato.

Quelli tuttora presenti sul territorio di Paternopoli hanno le iscrizioni irrimediabilmente consunte, ad eccezione di uno, trasportato nel centro urbano nel XVIII secolo o ancor prima.

Questo, per testimonianza de i più vecchi del paese, fu dal De Rienzo erroneamente identificato come il moggio1 un tempo utilizzato per il commercio dei cereali in via della Dogana. Esso si presenta come un blocco monolitico della lunghezza di circa un metro e della larghezza, alla base, di cinquanta centimetri. Attualmente pare vi si legga: LUCULLIO / FESTINO / SPEDIM / FELICISSIM / C.B.M.; ma il Guarino ce ne propone il testo in questi termini: D.M. LUCUDEIO TESTINO / SPEDIA FELICISSIMA C. / B.F. / H.M.

Nella versione del Guarino la scritta è di inequivocabile carattere funerario, traducendosi in: Agli Dei Mani. A Lucudeio Testino / Spedia felicissima consorte / per benemerenze fece / questo monumento.

Due cippi simili, ora recuperati e trasportati in paese presso il museo civico, si trovavano in località Taverna di San Pietro a ridosso della via; altri due rimangono presso un’abitazione rurale fra le contrade San Pietro e Casale, anch’essi in prossimità della strada; un sesto alfine, di recente proposto all’attenzione del pubblico, reca incise le lettere D.M. al disopra della cornice contenente un’epigrafe parimenti illeggibile.

Sono stati tutti preservati dalla dispersione per la loro pesantezza, per lo scarso interesse scultoreo e soprattutto per l’impossibilità di impiego in edilizia, e probabilmente lasciati fino ai nostri giorni nei luoghi di originaria collocazione, ai lati della strada che dal nucleo urbano dirigeva all’attuale località Casale, ove la presenza di consistenti cumuli di pietre lavorate indica sorgessero non poche solide ville.

Appare però improbabile che essi abbiano costituito elementi a sé stanti in quanto le sezioni laterali risultano grezze, mai incise dallo scalpello, il che induce a supporre che dovessero essere inseriti nel contesto di una muratura bassa, forse recintiva, eretta a delimitare il tratto carrabile.

Questo tipo di cippo funerario, presumibilmente assunto a simboleggiare il sarcofago, si sviluppò in età imperiale in sede locale, e non è quindi riscontrabile in altri insediamenti se non in forma eccezionale e probabilmente imitativa. Se ne conosce il rinvenimento di un unico esemplare in territorio di Grottaminarda, e presso il Museo di Avellino, di provenienza incerta, se ne osserva uno simile la cui tavola epigrafica, però, si eleva notevolmente al disopra del dorso, mentre risulta del tutto sconosciuto nelle restanti aree, pur se limitrofe.

Alla fine del terzo secolo, nelle malfidate taverne, nelle maleolente mescetorie, nelle anguste botteghe artigiane impiantate oltre il Fredane a ridosso della via Napoletana percorsa da intensi traffici commerciali e dalla folla dei pellegrini diretti o di ritorno dall’Ansanto, si fanno più consistenti le voci di un nuovo credo di origine orientale che ha già messo radici in Abellinum e in Beneventum. Nuove idee di speranza e di riscatto vengono ad essere introdotte da schiavi portati dalla lontana Palestina: il Cristianesimo si affaccia alle nostre terre, nell’indifferenza delle genti legate profondamente al culto della dea Mefite. Qui l’antica idolatria era destinata ad essere praticata ancora per lungo tempo, ed è appunto dai villaggi rurali, i pagi, che il non cristiano assumerà la denominazione di pagano.

Ed era ancora pagana la Paternopoli che nel 369 fu sconvolta da un terremoto catastrofico che devastò i fiorenti centri d’Irpinia e rase al suolo Benevento, come riferisce il magistrato romano Simmaco.

Il sesto era il Casale della Nocelleta, ... Sono in esso scavate larghe camere con molti strumenti ed utensili di ferro, un crocefisso di metallo, ec. e con molti teschi, ed ossa umane, segno evidente che le case di detto Casale furono da qualche tremuoto violento e repentino rovinate, e sepolte. Vi si trovò ancora una gran porta di pietra formata da grossissimi pezzi, inclinatamente caduta col muro sul suolo, che fu stimata porta di Chiesa: vi erano incise nell’architrave molte lettere majuscole quasi palmari puntate, né poteronsi interpretrare. Il travaglio eccessivo che richiedeva per la sua profondità, non fece proseguire il detto scavo, cominciato nel principio di questo secolo (1800)1.

Qui il De Rienzo si limita a dare una testimonianza dei tentativi di scavo, peraltro interrotti, in località Nocellete. Si ritiene che non abbia colto la differenza fra i resti di età imperiale da qualche tremuoto violento e repentino sepolti, ed i più recenti ruderi della chiesetta di Santa Maria della Sanità, di epoca medievale.

Il terremoto segnò l’inizio del declino del ricco e progredito pago che aveva conservato il nome sannitico di Bovianum. Nuovi insediamenti, barbarici e monastici, sarebbero sorti sulle rovine di esso, assumendo denominazioni diverse, e solo le contrade Boane e Tuoro avrebbero serbato nei nomi memoria dell’antica origine sabina.


3 Data la rilevanza strategico-militare ed economica che ebbe a rivestire, si esclude che l’amministrazione del pago fosse affidata ad un decurione.

1 Il denarius venne coniato per la prima volta, in argento, nel 269 a.C.. Era così detto in quanto corrispondeva a dieci assi e faceva seguito all’emissione del quinarius il cui valore era stato di cinque assi.

L’asse era stata la prima moneta in uso a Roma. Inizialmente realizzata in legno (axis = tavoletta) e recante in effigie l’immagine di una pecora, di un bue o di un maiale, era stata poi coniata in cuoio durante il regno di Numa Pompilio (715 - 673 a.C.) e quindi in bronzo ai tempi del suo successore Tullo Ostilio.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie Storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Giuseppe De Rienzo: Ibidem.

3 Giuseppe De Rienzo: Notizie Storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

1 Di regola le iscrizioni su lapidi sepolcrali esordiscono con le lettere “D. M.”, vale a dire “Diis Manibus”, cioè l’affidamento del defunto agli Dei Mani.

2 Giuseppe De Rienzo: Notizie Storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

3 La nascita della civiltà; da “Ulisse”, Vol. I - Roma 1976.

1 Foto n. 1 della tavola LXVII in: Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, Linguaggio e testimonianze di un’antica cultura, edito a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Marzo 1991.

2 Carlo Aristide Rossi: Provincia di Avellino - Monografia de’ 128 comuni della Provincia - Manoscritto ricopiato nell’anno 1946, custodito presso la Biblioteca Provinciale di Avellino.

3 Se ne riportano le sole due andate disperse, appresso trattando delle altre.

4 Raimondo Guarino: Ricerche sull’antica città di Eclano, parte III. II edizione corretta ed accresciuta dall’autore - Napoli, Stamperia Reale, 1814.

5 Questo Monumento Fece. Non era insolita la costruzione, in vita, della propria tomba. Molte lapidi infatti, ma non è il caso di alcuna di quelle sinora rinvenute in Paternopoli, concludono l’epigrafe con l’espressione SE VIVENTE oppure SE VIVA.

1 Antica misura di capacità romana, corrispondente a litri 8,733.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie Storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

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