Diritto alla Storia - Capitolo 26
Anche agli eventi straordinari si finì col fare l’abitudine. La vita in Paterno riprese a scorrere con apparente monotonia eppure in sintonia con i tempi che mutavano, pur perdurando l’antica litigiosità alimentata dalle gelosie e da persistenti tentativi di prevaricazione.
Era stato impiantato l’ufficio di posta che, nel 1775, era gestito da Ciriaco Iannuzzo1. Era però un servizio inaffidabile quello postale in quanto svolto da corrieri non sempre diligenti e comunque esposti alle insidie delle strade. Era opportuno, da parte del mittente, duplicare ogni volta la missiva da recapitare ad uno stesso destinatario, indicando per ciascuna delle due copie itinerari diversi da seguire, in modo che, riducendo i rischi di smarrimento, aumentassero le possibilità di ricezione del messaggio.
Per mantenere sotto controllo i prezzi dei generi di prima necessità l’università continuava a detenere il monopolio della macelleria e del forno, le cui gestioni venivano annualmente rinnovate col sistema solito dell’asta pubblica della durata di accensione di una candela. Fu don Michele Beneventano che si aggiudicò l’appalto del forno nell’anno 17762.
Permaneva in piazza, in locali di proprietà della famiglia Rossi, la Corte di Giustizia di cui, nell’anno 1777, era Mastrodatti Antonio Rosanio3. Anche il carcere, ritenuto decentrato e non idoneo alla detenzione dei due diversi sessi, stante l’indivisibilità dell’unico ambiente, dagli antichi sotterranei della torre aragonese era stato trasferito in prossimità della Corte di Giustizia. Ma la nuova sistemazione non soddisfaceva dal punto di vista igienico-sanitario tanto che, il 27 aprile 1801, un gruppo di cittadini ebbe a dolersene, in un esposto trascritto dal notaio Liberatore di Martino, evidenziando come il carcere ... è situato nella Piazza di questa istessa terra, che lo stesso carcere sia orrido, di pessima qualità, molto umido, ed affossato ... i detenuti in esso sono cascati ammalati4.
Altro motivo di lagnanza era offerto dalla gestione del mulino baronale, tuttora tenuto in fitto da Pasquale de Rienzo. Del malcontento dell’utenza, il 6 maggio 1779, si fecero portavoce Salvatore Cappetta, Angelo Forino, Antonio Venafra, Crescenzo Zucaro, Carmine di Sabbato d’Amato, Pasquale Grasso, Pasquale Cantarella e Francesco Forino. Costoro dichiararono al notaio Nicola d’Amato che li Garzoni delle molina di detta terra, oltre il jus della molitura che si prendono, vogliono ancora la farina della adunatura, o sia insaccatura della medesima, ed alle volte se la prendono forzosamente; e se essi costituiti, ed altri cittadini se la vogliono essi adunare, o insaccare, li suddetti garzoni ne la fanno di mala qualità, e solo spaccata, motivo per cui molte volte vi sono insorte rissa, ed hanno maltrattato li cittadini suddetti, come pure più inoltre li fanno opprimere dalli forastieri, li quali occupano tutte le molina5.
La disonestà e l’arroganza degli addetti al mulino, e l’impossibilità di ottenere un trattamento equo, indussero un numero sempre maggiore di cittadini a servirsi, nascostamente, dell’impianto di macina della vicina terra di Luogosano. Col tempo però il fenomeno assunse proporzioni tali che, il 12 aprile 1794, li Magnifici Pasquale de Rienzo e Giovanni Iorio, fittatori delli molini dell’Ecc.mo Signor Duca d’Andria, Padrone di questa terra di Paterno, hanno richiesto l’attuale Governante di questa terra, facendoli presente come la maggior parte di questi cittadini andavano a macinare nelli molini del Cossano, in frode e danno di essi fittatori, quando che, a tenore dell’obbligo stipulato, sono tenuti forzosamente andare, e venire a macinare nelli molini di questa terra, ed esigere la molitura di un quarto a sacco, onde domandano il suo braccio per poterli arrestare e pigliare, e la farina intercettare6.
Con ostinata protervia il mugnaio Pasquale de Rienzo perseguiva metodi anacronistici. Sembrava non rendersi conto delle profonde trasformazioni in atto nella società, dovute sia ad un sensibile abbassamento della soglia di analfabetismo, sia alla sempre maggiore mobilità delle masse che favoriva la diffusione delle idee e l’acquisizione della consapevolezza dei diritti di ogni singolo cittadino.
Anche il servizio di leva nel regio esercito contribuiva a dischiudere ai giovani più vasti orizzonti. Il sistema di arruolamento era ispirato a criteri di democraticità ed atto a garantire alle attività produttive una presenza di forza-lavoro sufficiente. Infatti il reclutamento veniva operato esclusivamente in seno a quelle famiglie in cui la prole maschile adulta non fosse stata inferiore alle tre unità. Conformemente a ciò, il 26 maggio 1782, avendosi convocato pubblico parlamento per l’elezzione del nuovo Regimento Nazionale, si sono unite tutte le famiglie così delli cinque, come delli quattro e delli tre, e si sono poste in urna, e se ne sono estratte dieci, o undici. A scrutinio segreto, in quanto erano richiesti buoni requisiti morali, la cittadinanza eleggeva, fra quelli appartenenti alle famiglie sorteggiate, i giovani che avrebbero prestato servizio militare. Sono stati inclusi per soldati del suddetto Regimento li suddetti Giovani, Giuseppe Calvano, Domenico di Blasi, Francesco Iannuzzo, Francesco Gallo e Giuseppe Barbiero, li quali sono delle famiglie delli tre, di unita con Pasquale d’Amato di Tomaso, e Biaggio Mastrominico, che sono delle famiglie delli quattro1.
Parimenti la fiera annuale consentiva confronti e scambi di idee. Questa si svolgeva regolarmente ogni anno, dal primo sino a tutto il nono giorno del mese di maggio. Non si procedeva però, come un tempo, alla nomina del mastro di fiera, ma da alcuni anni ormai tale funzione veniva esercitata dal sindaco in carica2.
Pure la scelta degli amministratori era ormai orientata verso persone più consapevoli e libere da condizionamenti. In nome e per conto della comunità che legittimamente rappresentavano, non trascuravano, costoro, di riappropriarsi di talune prerogative sottratte dal clero all’università. Previo regio benestare, il 2 novembre 1782, in seguito alla morte del reverendo Don Ferdinando Rinaldi di Napoli, il sindaco Vincenzo Iorio e gli Eletti Nicola Maria d’Amato e Francesco Barbieri, considerato che per il passato la nomina suddetta fu usurpata dalla Corte Romana ... eligono, nominano e presentano per Rettore, Abbate e Cappellano del Beneficio della Chiesa di Santa Maria a Canna il Rev. Sacerdote D. Carlo Braccio, atto, abile ed idoneo al governo del Beneficio predetto3.
Nonostante le puntigliose rivendicazioni che molto spesso vedevano contrapposti i cittadini al clero, restava radicato nel popolo un profondo senso di religiosità che puntualmente si traduceva in opere di interesse comune. Il 20 novembre 1783 Giovanni Iuorio, amministratore della cappella della Beata Vergine della Consolazione, rese noto che Don Pietro Andreatini della città di Napoli, come suo Priore, e di suo ordine, sotto il dì tredici del corrente mese di Novembre, ad anno 1783, stipulò lo istrumento di convenzione col magnifico Michele Salemme, anche di Napoli, mastro Marmoraro, per costruire, e fare in detta cappella la balaustrata di marmo di tutta bontà, qualità e perfezione con le tre portelle di ferro ottonato secondo la mostra (il progetto), fra lo spazio di mesi sette decorrenti dal detto giorno della stipula dell’istromento, per lo convenuto prezzo espressolo in detto istromento rogato per mano del magnifico Notar D. Luca Salzano di detta città di Napoli4.
Il prezzo convenuto per il lavoro era stato fissato in 225 ducati, da corrispondersi in questo modo, cioè, docati centocinquanta d’esse nell’atto ... ed il restante delle suddette summe pagarlo alla raggione di docati venti l’anno fino all’estinzione del totale importo de lavori ... e pagar l’interesse scalare alla raggione del quattro per cento1.
Sebbene non ci si sottraesse all’impegno di rendere sempre più decorosa la cappella di Maria Santissima della Consolazione nella quale ognuno riconosceva la propria appartenenza spirituale, non pochi ambivano ad un altarino personale davanti al quale raccogliersi in preghiera. Ve ne erano di assai modesti, costituiti da semplici statue di ridotte dimensioni protette da campane di vetro, ed altri, più preziosi, i cui simulacri erano custoditi in teche o in scrigni portatili di legno intarsiato. Non mancava chi disponesse addirittura di un vero e proprio altare in pietra, né chi se ne facesse costruire uno in legno. In ciò non volle essere da meno Giuseppe de Mattia il quale, il 4 dicembre 1783, ottenne che fosse benedetta la cappella privata sotto il titolo di Maria Santissima della Concezione, da lui eretta in uno stipone, cioè in un grosso armadio, all’interno della propria casa palaziata in via San Vito, avendone ottenuto licenza dalla Curia Vescovile in quanto la sua abitazione era sita in luogo lontana dalla Chiesa Parrocchiale dove volendo andare deve ascendere necessariamente per una rapida salita, per dove passa tutta l’acqua del Paese, e le lave delle pioggie, e delle nevi disciolte in tempo d’inverno, in cui è affatto impraticabile2.
Anche numericamente il paese era cresciuto. Ora Patierno, della diocesi di Frigento, contava 2618 abitanti3, pure se il tasso di crescita risultava piuttosto contenuto. Infatti, sebbene il numero delle nascite superasse di regola le cento unità annue, per la mancanza assoluta di igiene la mortalità infantile si manteneva su livelli elevati, raggiungendo e talvolta superando il tasso del cinquanta per cento. A fronte dei 104 nati, i bambini deceduti nell’anno 1783 furono 51. Di questi, 9 non avevano compiuto neppure il terzo mese di vita, mentre complessivamente in 20 non erano riusciti a superare il primo anno di età. Nell’anno 1785, poi, furono addirittura 94 i decessi che interessarono la fascia d’età compresa fra lo 0 ed i 6 anni, di cui 33 nel solo mese di novembre4.
Gli spazi destinati alle sepolture si erano fatti insufficienti. Il vecchio cimitero manifestava con crepe e cedimenti strutturali l’incuria degli uomini e le ingiurie del tempo. Le ossa dissepolte, ammassate alla rinfusa sulle mensole disposte alle pareti, si erano elevate fino ad occludere le alte finestre prive di vetri e, non di rado, battute dal vento, franavano sulla via sottostante. Offrivano un macabro spettacolo i miseri resti che calcinavano al sole, e si facevano pressanti le istanze di destinare loro un ricovero decoroso e definitivo, degno del rispetto e della pietà dovuti.
Il processo di trasformazione e di crescita, troppo repentino per risultare immune da squilibri e da tensioni, finì col comportare una recrudescenza delle attività delinquenziali. Ne fu vittima Giuseppe Caliberto nel 1785, anno in cui esercitava la funzione di Mastrodatti della Corte di Paterno. Nottetempo, fu ferito con un colpo di scoppettata (di fucile) e, interrogato, non seppe indicare i propri feritori, pur esprimendo sospetti su Francesco d’Antonio Iannuzzo e sui fratelli Onesto e Pasquale di Pietro. Non sopravvisse alla ferita riportata e del suo omicidio, l’8 giugno 1786, fu giudicato colpevole, e quindi rinchiuso in carcere, Francesco d’Antonio Iannuzzo.
A distanza di un anno però, esattamente l’8 giugno 1787, Pasquale Cuoci e Nicola Rosa dichiararono al notaio Giuseppe di Natale che, discutendo dell’atto criminoso con Angelo Riccardi, questi aveva esclamato: Che Francesco Iannuzzo, che Francesco Iannuzzo; siamo stati noi che l’abbiamo ucciso5.
I furti erano divenuti pratica quotidiana, ben oltre la tradizionale asportazione di prodotti agricoli dai fondi più decentrati ed incustoditi che comunque si giustificava con la miseria e la necessità di sopravvivenza. I nuovi ladri erano spinti dall’avidità più che dal bisogno e non esitavano ad introdursi nelle case per sottrarvi quanto di più prezioso contenessero, al fine di trarne lucro.
Nell’aprile del 1787 Ciro Mattia fu derubato di alcune lenzuola, che custodiva in casa in un cesto, ed indirizzò i suoi sospetti verso Domenico d’Amato, da cui era diviso da un astio profondo. Al fine di dimostrare la colpevolezza del proprio nemico, l’uomo iniziò ad indagare presso le vicine di casa. Le richieste però, reiterate e improntate a caparbia animosità, assunsero toni sì insistenti ed intimidatori che Caterina Zollo, Nicolina Strafezza, Giovanna Ragozzino, Teodora Pecce e Giuseppina di Stasio ricorsero al notaio Nicola d’Amato perché prendesse atto delle pressioni e delle minacce a cui Ciro Mattia le andava sottoponendo1.
Nella nuova concezione assunta dall’etica, l’indebitamento non venne più ad essere considerato disonorevole. Purtroppo però la facilità con cui si faceva ricorso a prestiti si traduceva sovente nell’impossibilità di restituzione delle somme ricevute, spesso gravate di onerosi interessi, per cui, gli incauti, venivano a trovarsi esposti al rischio della privazione di beni, e talvolta degli stessi strumenti di lavoro indispensabili al sostentamento delle famiglie. Fu quanto accadde a Pasquale Venafra nel febbraio del 1789 allorché Domenico Antonio Mastroiacono, Giurato della Corte di Paterno, ad istanza di Pasquale Vecchia, eseguì nella sua casa, sita in via Baracche, oggi corso Garibaldi, il pignoramento di un caldajo (pentola) di rame, una tiella (padella) di rame, una zappa, e due zappelli2, vale a dire tutto quanto la misera bicocca di assi e di paglia conteneva.
In tale clima di illiceità le carceri di Paterno erano sempre stracolme. Il 29 ottobre 1791, di sabato, invece, ne era eccezionalmente unico ospite Lorenzo Iannuzzo il quale, in pieno giorno, praticò un’apertura nel muro che la cella aveva in comune con la casa di Lucia Troisi e riguadagnò la libertà. Si sospettò della complicità della donna, la quale però riuscì a dimostrare la propria totale estraneità al fatto, avendo trascorso l’intera giornata a lavorare nel proprio terreno in località Taverne, unitamente ad una donna assunta come giornaliera3.
Profondi mutamenti politici si apprestavano intanto all’orizzonte. La scintilla che aveva innescato la deflagrazione di un nuovo radicalismo libertario era scoccata in Francia dove, più che altrove, la feudalità e i privilegi opprimevano l’economia. L’acuirsi dei contrasti fra la nobiltà ed il clero da una parte e la borghesia dall’altra era sfociata in una sommossa popolare che, il 14 luglio 1789, si era conclusa con la liberazione dei detenuti rinchiusi nella Bastiglia. L’anarchia aveva travolto il Paese. Voci di progetti di controrivoluzione avevano spinto migliaia di persone a marciare su Versailles da dove, non ritenendosi al sicuro, il 6 ottobre i sovrani erano fuggiti per riparare a Parigi.
Nell’anno 1790 aveva preso il sopravvento il partito della Gironda, di idee moderate e disponibile ad una monarchia costituzionale. Tuttavia le ali più radicali ed errati calcoli politici indussero Luigi XVI a dichiarare guerra, il 20 aprile 1792, a Francesco II, re di Boemia e di Ungheria, ma le inevitabili sconfitte in cui incorse il disorganizzato esercito francese fecero ritenere il sovrano reo di tradimento per cui, il 10 agosto 1792, fu arrestato ed imprigionato.
Il 21 settembre 1792 la Francia si proclamò repubblica. Processato e riconosciuto colpevole, Luigi XVI fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. Il Paese precipitò nel caos. Col disordine sociale crebbe la miseria che, a sua volta, finì col portare alla ribalta l’estremismo repubblicano rappresentato dal partito dei Giacobini. L’odio di classe esplose con violenza ed ebbe inizio il cosiddetto periodo del terrore.
Finalmente, stanco degli eccidi, il 27 luglio 1794 il popolo si rivoltò contro Robespierre ed i suoi seguaci mettendoli a morte. Del nuovo stato di confusione approfittarono i monarchici col porre in atto un tentativo di riprendere il potere, ma il pericolo fu scongiurato per l’intervento di un giovane generale corso che rispondeva al nome di Napoleone Bonaparte. L’istituzione repubblicana ne uscì consolidata.
La rivoluzione francese trovò vasti consensi in tutta Europa, soprattutto presso i ceti sociali più elevati e negli ambienti culturali uniformati al movimento illuministico.
Al contrario, a Paterno, se ne preoccupò il sacerdote Don Nicola d’Amato. Egli considerava con timore il diffondersi delle idee giacobine, fondamentalmente anticlericali, che avevano portato in Francia alla confisca dei beni della Chiesa e minacciavano l’esistenza stessa dello Stato Pontificio. Le sue apprensioni e le sollecitazioni ad orientare l’opinione popolare cozzavano però contro l’ottusa indifferenza del clero locale, diviso da gelosie ed attento solo a meschini interessi personali. Addirittura, per oscure ragioni, il reverendo Don Tommaso Rosanio osteggiava con ogni mezzo la presenza del sacrestano mastro Basilio Balestra. Si disse che fosse giunto a minacciarlo con la pistola perché lasciasse tale incarico. Il 6 dicembre 1794 però mastro Basilio negò la fondatezza delle dicerie, dichiarando in presenza del notaio Nicola de Rienzo che le accuse mosse al sacerdote erano pure illazioni e che le presunte minacce erano smentite dal disinteresse col quale egli, il sacrestano, svolgeva il proprio compito, per non aver bisogno, avendo nelle sue mani l’arte del tessitore di tela, colla quale bastantemente può vivere colla sua famiglia1.
Dalla indolenza, non scevra di grettezza, in cui una cospicua parte del clero era precipitata, emergeva la figura del sacerdote Don Nicodemo Jorio che, avendo ereditato la dirigenza dell’istituto di studi superiori avviato da Don Antonio Pilosi, colla scuola di belle lettere, di filosofia, di teologia e di diritto canonico dirozzò la Provincia, essendo stato anche autore della parafrasi su’ salmi penitenziali2. Fra l’altro, l’illustre sacerdote aveva pubblicato traduzioni dal latino quali le Odi di Orazio, le Elegie di Properzio e le Bucoliche di Virgilio3. Ne era stato discepolo il sacerdote Don Giuseppe de Rienzo, appassionato studioso ed autore di una ricerca storica su Paterno, e per circa due anni nella sua scuola aveva insegnato il reverendo Don Nicola Ruzza della terra di Fontanarosa4.
Don Nicodemo Jorio si mantenne sostanzialmente estraneo al dibattito politico che già segnava le prime spaccature nel paese. Don Nicola d’Amato invece maturava sempre più la convinzione di dover assumere un impegno diretto a sostegno del regime, ravvisando nel nuovo sistema di ispirazione transalpina pericoli di destabilizzazione per il potere temporale della Chiesa. Purtroppo però non godeva di eccessive simpatie per il suo carattere impulsivo ed intransigente che gli aveva procurato non pochi nemici. Fra questi ci fu chi approfittò del clima di sospetto che si andava instaurando per sporgere contro di lui denunzia di cospirazione.
In conseguenza di ciò, agli inizi di maggio del 1797, il reverendo Don Pietro Barbieri fu convocato dal luogotenente della Corte di Paterno, don Antonio di Martino, il quale gli chiese se mai il Sacerdote D. Nicola d’Amato di detta terra avesse proferite parole, o dette parole inciuriose contro li Nostri Sovrani (Dio Guardi); al che l’interpellato rispose che il riferito Sacerdote D. Nicola mai aveva detto parole male, o inciuriose, contro le dette Maestà Loro, ma bensì in ogni occorrenza che di loro si parlava, il riferito Sacerdote D. Nicola ne aveva parlato con ogni umiliazione, riverenza e rispetto1.
Il più accanito fra i nemici di Don Nicola d’Amato era senza dubbio Cristofano Leone il quale, qualche anno addietro, a conclusione di un diverbio, ne era stato bastonato. L’umiliazione patita aveva alimentato nell’uomo un desiderio di vendetta che l’attuale situazione politica, greve di incertezze e di sospetti, invitava a consumare. Il 3 maggio 1797 costui avvicinò Ciriaco Raozino e li disse, voi siete stati sempre inimici della casa di D. Nicola d’Amato, mò è tempo di precipitarlo, e vendicarti, perché à commessi dilitti, che à grazia meritano la galera. Suggeriva costui al Raozino di recarsi dal luogotenente don Antonio di Martino a cui dovea dire avere il detto D. Nicola biastemato (bestemmiato), non ricordandosi però la biastema; li disse che avesse deposto come pure che aveva stracciato un Messale, e che aveva buttato a terra un calice, e si era rotto, ed in ultimo che aveva il prefato D. Nicola detto male di S. Maestà, Dio guardi.
Assicurava, Cristofano Leone, che altri avrebbero testimoniato contro il sacerdote, e cioè Angiolo Caporizzo inimico ancora di detto D. Nicola, per averli lo stesso giorni passati uccise tre sue pecore, che le ritrovò a danneggiare nel suo territorio; Caterina Beneventano e suo figlio, anche questi inimici del prefato D. Nicola, per aversi lo stesso portate le di loro pecore, giorni passati, avendole trovate a dannificare anche nel suo territorio; e che ci sarebbe stato ancora Francesco Pecce.
Ciriaco Raozino però non se la sentì di prendere parte alla congiura e, nonostante fosse nemico giurato di Don Nicola d’Amato, a discolpa dello stesso, il 16 agosto 1797, rivelò la losca trama al notaio Giuseppe Piccarini che ne prese nota nel proprio protocollo2.
Apparentemente nulla era cambiato nelle abitudini del popolo minuto: le giornate trascorrevano nel consueto lavoro, la domenica i pellegrini giungevano sempre numerosi a rendere omaggio alla Sacra Immagine di Maria Santissima della Consolazione, le sere d’estate ci si riuniva fuori degli usci a ricordare i tempi andati, nelle fredde sere di inverno si era soliti recarsi presso famiglie amiche ove le donne arrostivano patate sotto la brace del caminetto e gli uomini tiravano fino ad ora tarda a giocare vino al tocco (morra)3. La gente si interrogava perplessa sugli eventi, incapace di cogliere il senso dei mutamenti da più parti auspicati, ma poiché i fautori delle nuove idee si identificavano con la classe da sempre dominante, istintivamente era indotta a parteggiare per la monarchia dei Borboni.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1913.
2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1923.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1913.
4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1918.
5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1921.
6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1921.
2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.
4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1910.
1 Archivio di Stato di Avellino - Copia della stipula di contratto fra Don Pietro Andreatini e Michele Sallemme, redatta dal notaio don Luca Salzano, inserita in Protocollo notarile dell’anno 1783 del notaio di Paterno Nicola de Rienzo - Fasc. 1910.
2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.
3 Giuseppe Maria Galanti: Della descrizione geografica e politica delle Due Sicilie, Tomo IV - Napoli 1790.
4 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri degli infanti morti.
5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.
2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1904.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.
2 Paolino Macchia: Sulla valle d’Ansanto e sulle acque termo-minerali di Villamaina in Principato Ultra - Napoli 1838.
4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.
1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1923.
2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.
3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1910.