Le Fiabe - Ungulicchio

Viveva un tempo, in una remota regione, una coppia di agricoltori la cui casa non era stata allietata dalla presenza di un bambino.

Lei ne piangeva ogni notte, e non perdeva occasione di raccomandarsi a Santi e a Madonne.

Anche di giorno, impegnati nel duro lavoro dei campi, mentre tutt'intorno si levavano i canti giulivi delle donne, lei non interrompeva i suoi lamenti, le invocazioni, le preghiere e lui, immusonito, rattristato dalla disperazione in cui la moglie si consumava, non si concedeva un attimo di riposo.

E venne quel dì. Al villaggio, là sulla collina, si celebrava l'annuale festa della Madonna. Era tempo di fave e già gli unguli[1]spuntavano sulle piante. Diffuso da una leggera brezza primaverile, aleggiò sui campi deserti lo squillo armonioso delle campane che annunciavano la processione. La donna cadde in ginocchio fra le zolle e, volgendo al cielo gli occhi colmi di lacrime, rivolse un'accorata preghiera a Maria. "O Madonna", lei disse; "tu che sei stata madre di Gesù, abbi pietà di me e concedimi la grazia di essere madre di un bambino, anche se piccolo come uno di questi ungulicchi! "

La Madonna dovette dare ascolto alla sua preghiera perché, di lì a pochi giorni, lei ebbe l'esaltante sorpresa di scoprirsi in attesa.

L'uomo, felice per la ritrovata serenità familiare, esonerò la moglie da qualsiasi attività, sobbarcandosi di buon grado anche ai lavori domestici. Amorevolmente ma decisamente le impose il riposo più assoluto, prese a colmarla di attenzioni, ad esaudirne ogni desiderio.

Trascorso il tempo che madre natura impone, venne alla luce un meraviglioso bambino, roseo, paffutello, dagli occhi azzurri ed intelligenti, ma piccolo, così piccolo che non superava in dimensioni un tenero baccello di fava. Ma fu egualmente tanta la gioia dei genitori che non ne provarono alcun cruccio.

"Come lo chiameremo?" chiese il padre.

E la madre, convinta: "Non è più grande di un ungolo, quindi lo chiameremo Ungulicchio".

Passarono gli anni ed Ungulicchio, vispo, intelligente, in buona salute, non crebbe più di tanto, restando delle dimensioni di un tenero baccello di fava. Quasi a compensare la sua menomazione però, aveva avuto in dono da una vecchina, forse la stessa Madonna apparsa sotto le spoglie di viandante, una bisaccia dalle capacità contenitive illimitate che il bambino si portava sempre dietro, allacciata alla schiena. I genitori erano sì orgogliosi di quel figlio che avevano tanto desiderato, ma in fondo all'animo restava l'amarezza per la sua diversità.

E venne il giorno in cui la madre, avvertendo il peso degli anni farsi sempre più gravoso, dovette rassegnarsi all'idea che il ragazzo avrebbe dovuto affrontare il mondo, per poter badare a se stesso il giorno non lontano in cui lei e suo marito sarebbero passati a miglior vita. Lo chiamò a sé e gli disse: "Senti, Ungulicchió! Ormai non sei più un bambino ed è giunto quindi il momento di cimentarti con le difficoltà della vita. Date le tue dimensioni comprendo che per te sarà estremamente difficile, ma presto io e tuo padre non saremo più qui a proteggerti. Perciò ricorda ché troverai sul tuo cammino uomini ricchi e potenti, ma anche gente comune, ignorante e cattiva. Da tutti sarai offeso, provocato, deriso. Tu non ribellarti mai. Accetta di buon grado ciò che la sorte ti riserva e potrai vivere a lungo. Il podere sarà sufficiente a soddisfare tutte le tue necessità. È indispensabile però che tu cominci a frequentare i campi e ad acquisire qualche esperienza di lavoro. Sarai tu stesso a dirmi quando ti sentirai pronto a ciò".

"Son pronto già da adesso", asserì deciso Ungulicchio, risentito per il discorso della madre dal quale chiaramente traspariva che sia lei che suo padre sottovalutavano le sue potenzialità.

La donna sospirò, rassegnata. "Come vuoi. Ora ti preparo l'asino così sarai tu, stamattina, a portare la colazione a tuo padre", disse e si affrettò a volgere il capo per nascondergli le lacrime che le affioravano negli occhi.

In attesa che l'asino e la cesta con la colazione gli fossero approntati, Ungu1icchio, chiuso nei propri pensieri scevri di autocommiserazione, andava rimuginando ipotesi di riscatto. Finì così col concepire un ambizioso progetto che doveva guadagnargli la considerazione ed il rispetto di tutti.

Quando finalmente l'asino fu pronto col suo carico, egli nuovamente apparve rasserenato e sicuro di sé. Anziché salire in groppa all'animale, da dove gli sarebbe stato impossibile guidarlo, gli si insediò in un orecchio e da lì lo spronò alla volta del podere. Lasciate le ultime case del paese, eccitato dall'idea del suo progetto al punto di volerne rendere partecipe il mondo intero, Ungulicchio cominciò a gridare a squarciagola:

"Té, tellorél, vavo afa' verra co' lo re. Té, telloré, vavo a fa' verra co' lo re". L'asino, incitato, muoveva spedito. La gente, nei campi, sospendeva il lavoro e si guardava intorno, incuriosita e insieme intimidita dal temerario che osava lanciare una tale sfida, ma non riusciva a scorgere null'altro se non il solitario passaggio di un vecchio somaro. Ben presto un nugolo di bambini divertiti cominciò a fare da schiamazzante codazzo all'asino parlante. Imperterrito, Ungulicchio, dalla sua postazione, continuava a lanciare il suo messaggio di guerra.

Lasciò i sentieri battuti e si inoltrò in un bosco. Qui una coppia di ladri scorse l'asino e lo ritenne incustodito. "Quale fortuna! " esclamarono e fecero per impadronirsene.

"Attenti a voi!" ammonì Ungulicchio, e poi: "Tè, tellorè[2], vavo a fa'verra co' lo re[3]".

Dal bravo figliolo che era, Ungulicchio, prima di procedere per la reggia, raggiunse suo padre nel podere e, raggiante, lo mise al corrente dell'impresa che si accingeva a compiere. Il buon uomo, naturalmente, non lo prese sul serio. Ritirò il cesto con la colazione ed andò a sedere all'ombra di una quercia per consumare il pasto e concedersi un po' di riposo.

"Sii prudente", raccomandò al figlio che si disponeva a ripartire con l'asino.

"Non preoccuparti, vincerò!" assicurò Ungulicchio allontanandosi.

Il padre sorrise mesto, preoccupato per quel figlio imbelle. Ungulicchio, deciso, puntò dritto verso la reggia, continuando ad urlare a chiunque incontrasse il suo proposito: "Tè, tellorè, vavo afa' verra co' lo re".

Il cammino era lungo e disseminato di ostacoli. Un lago, troppo esteso per essere aggirato, gli sbarrò il passo. Le onde, agitate dal vento, sembravano bisbigliare il loro scetticismo. Per nulla impensierito, Ungulicchio non esitò ad impartire l'ordine risolutivo: "Tè, tellorè, 'nzippete lao 'ngulo a me[4]".

Le acque, ridotte all'obbedienza, attratte da una forza sovrannaturale, affluirono all'interno della bisaccia che il ragazzo portava sulle spalle.

Più avanti, un grappolo di vespe penzolante sul sentiero da un basso ramo di melo, ronzando, lo derise. "Tè, tellorè, 'nzippete, cupo[5], 'ngulo a me", egli comandò e le vespe sciamarono per stiparsi all'interno della bisaccia. Fu poi la volta di una volpe che, sghignazzando, volle rinfacciargli la sua infima statura, ed anche ad essa Ungulicchio impose: "Tè, tellorè, 'nzippete, vorpe[6], 'ngulo a me", costringendola nella capace bisaccia.

Si imbattè, alfine, in un lupo che, digrignando i denti, provò a ridimensionare i suoi bellicosi propositi. Ma anche la belva fu costretta nell'angusta bisaccia al grido di: "Tè, tellorè, 'nzippete, lupo, 'ngulo a me".

Era quasi il tramonto quando giunse alle porte della cittadella in cui si ergeva la residenza reale. "Tè, tellorè, vavo a fa' verra co' lo re", annunciò, minaccioso, alle guardie che vegliavano sull'accesso alla fortezza.

Queste, temendo un attacco, si allertarono, circondarono l'asino tenendolo sotto la minaccia delle lance, cercarono, sospettose e guardinghe, girandogli intorno, finché una di loro non scorse Ungulicchio, fiero e impettito, adagiato nell'orecchio dell'animale. Esplose dunque in una fragorosa risata. Lo additò agli altri e tutti presero a sbellicarsi dalle risa, torcendosi e lacrimando. Quando si furono alquanto ripresi da quell'attacco di ilarità, il capo delle guardie, forbendosi col dorso della mano gli occhi e la bocca, interpellò il temerario:

"Cos'è che vuoi, nanerottolo?"

"Sono Ungulicchio", lo rimbeccò egli con orgoglio, "e chiedo che mi sia liberato il passo perché sono venuto a combattere contro il vostro re".

Nuovamente le guardie furono travolte da un eccesso di riso che le sconquassò nel petto, facendo tintinnare loro le pesanti corazze. Quando si furono finalmente calmate, si interrogarono con lo sguardo per decidere il da farsi. Arrestarlo per lesa maestà neanche a parlarne: si sarebbero coperte di ridicolo! Avrebbero potuto scacciarlo, ma un tale fenomeno avrebbe forse rallegrato la corte più di qualsiasi giullare e, nonostante gli intenti bellicosi, non poteva certo costituire un pericolo. Fu così che, fatte tutte queste considerazioni, gli dettero via libera per il castello.

Esultante, Ungulicchio si addentrò per le viuzze che si inerpicavano fin sopra agli alloggi reali, non trascurando di rinnovare ripetutamente la sua sfida. Dalle stalle e dai granai venivano fuori i servi a far da ali sghignazzanti al passaggio di siffatto cavaliere.

Le guardie che sorvegliavano l'ingresso del palazzo, lige agli ordini ricevuti, incrociarono le lance, decise a respingere, se non il pericolo, anche la sola provocazione.

Ma Ungulicchio era determinato e non privo di risorse. Senza indugio passò all'offensiva: "Tè, tellorè, iessi, lupo, ra culo a me[7]", gridò.

La bestia, obbediente, venne fuori ringhiando, gettando nel panico le guardie e la folla che si dispersero urlanti. Il trambusto richiamò l'attenzione del re che venne alla finestra e ne chiese la ragione. Quando gli fu spiegato cosa stava accadendo, punto da viva curiosità, scese incontro ad Ungulicchio che smontò dall'asino, disponendoglisi di fronte in atteggiamento di sfida, circondato dalla proterva e chiassosa ilarità generale.

Il re gli puntò contro l'indice e, singultando per il riso a stento represso, lo interpellò: "Sei tu che osi sfidarmi.

"Se tu sei il re e non sei un vigliacco, accetta di combattere contro di me", rispose Ungulicchio in tono provocatorio e solenne.

Il re aveva ormai rinunciato al suo atteggiamento regale e rideva di gusto, ma Ungulicchio, imperterrito, lo incalzò: "Non puoi essere tu il re, in quanto non hai il coraggio di accettare la mia sfida! "

Questo fu troppo per il monarca. Mai nessuno aveva osato mettere in dubbio il suo coraggio. Quel mostriciattolo meritava una punizione esemplare. Si fece scuro in viso e, per maggiormente umiliarlo, chiamò le guardie ed ordinò che, invece che nelle carceri, venisse rinchiuso nel pollaio.

Era ormai notte ed i polli si erano chetati nel sonno.

"Tè, tellorè, iessi, vorpe, ra culo a me", comandò Ungulicchio e l'animale, lesto e silenzioso, sgusciò fuori dalla bisaccia e fece strage dei volatili. Il ragazzo, pago della sua vendetta, si addormentò in attesa del giorno.

All'alba, la servitù, costernata, corse a svegliare il re per metterlo al corrente dell'accaduto.

"Buttatelo nel cesso", ordinò questi, furente.

I servitori prontamente obbedirono, versando quindi secchi e secchi d'acqua sul capo del nanerottolo impudente perché fosse trascinato nelle fogne, ma Ungulicchio si aggrappò ad una sporgenza della muratura e vi si tenne saldamente in attesa dell'occasione propizia per passare al contrattacco.

Con l'avanzare del giorno, la principessa si destò e, come ogni mattina, si recò nello stanzino adibito a toilette. Si tirò su le gonne e si accovacciò sul foro della latrina, ma Ungulicchio, tempestivo, sussurrò:

"Tè, tellorè, iessi, cupo, ra culo a me". Le vespe si avventarono, impazzite, sulle rosee natiche della ragazza, infierendovi coi pungiglioni. Questa, terrorizzata, dolorante, con balzi scomposti si dette alla fuga di stanza in stanza, gemendo, implorando, invocando vendetta.

"Che sia condotto sulla torre più alta del castello e vi sia lasciato morire", ruggì il re, livido di collera.

Dalla sommità della torre si dominava la cittadella e la valle sottostante. Creature minuscole vi si agitavano come formiche mosse dalla volontà di un solo uomo, avido e crudele. Con soddisfazione Ungulicchio comandò:

"Tè, tellorè, fessi, lao, ra culo a me".

Con un boato terrificante una apocalittica cascata fuoriuscì dalla bisaccia, abbattendosi sul minuscolo mondo sottostante. L'acqua ribolli ai piedi della torre, spumeggiò, defluì con furia devastatrice lungo la valle, spazzando via insieme re, cortigiani, guardie, servitori.

Sulla strada del ritorno, Ungulicchio solcò da trionfatore la folla di contadini e coloni che, lasciati i campi, si accalcavano lungo la via per acclamare il piccolo eroe che li aveva liberati dalla tirannia di un re despotico ed egoista. Rappresentava il simbolo del riscatto degli oppressi, la prova tangibile che l'astuzia, sapientemente impiegata, può prevalere sulla ottusa forza dei potenti.



[1]Baccelli teneri di fave.

[2]Imitazione del suono di tromba che gli araldi facevano precedere alla lettura di un editto.

[3]Vado a far guerra contro il re.

[4]Vado a far guerra contro il re.

[5]Grappolo di vespe.

[6]Volpe

[7]Tè, tellorè, esci; lupo, da dietro a me.

Free Joomla templates by Ltheme