Diritto alla Storia, Dalla Preistoria alle genti irpine

Diritto alla Storia - Capitolo 1

Spinti da mire espansionistiche, i Romani, già vittoriosi nella prima delle tre guerre sannitiche combattuta dal 343 al 341 a.C., dopo aver costretto Capua ad un trattato di alleanza che di fatto aveva ridotto i Sanniti campani in uno stato di subordinazione, mossero alla conquista del Sannio in quella seconda guerra che durò dal 326 al 304. Iniziata nel 312 a.C. per volere del censore Appio Claudio Cieco da cui prese il nome di Appia, la costruzione di una strada che collegò Roma con Capua risultò determinante per il successo dell’esercito romano, consentendogli rapidità di interventi in territorio sannitico.

Usciti sconfitti dalla seconda guerra sannitica, per far fronte all’aggressione di Roma gli Irpini si coalizzarono, eleggendo Romulea a proprio centro politico ed economico. Si cercava una possibilità di rivincita e l’occasione parve propizia quando il capitano dei Sanniti, Gellio Egnazio, riuscì a concludere un patto di alleanza con Etruschi, Umbri e Galli-Senoni.

Si era nel 298 a.C. e l’esercito sannita si attestò in Etruria, dando inizio alle azioni belliche che si sarebbero protratte sino al 290. Sguarnite però le retrovie, il console romano Decio Mure, da Murgantia (oggi Baselice, presso le sorgenti del Fortore), col suo esercito marciò su Romulea che, nel 297 a.C., espugnò e mise al sacco, radendola al suolo sin dalle fondamenta. Né più si parlò di questa città.

In seguito alla terza guerra combattuta contro i Sanniti dal 298 al 290, e con la definitiva sottomissione di questi fra il 272 ed il 268, la via Appia, nel 268 appunto, fu prolungata fino a Benevento per raggiungere alfine, intorno all’anno 190, Venosa, colonia romana sin dal 291.

Era questa, definita regina viarum, una via silice stratae, lastricata con pietre poligone squadrate a scalpello, sufficientemente larga tanto da permettere il passaggio contemporaneo di due carri. Lo strato sottostante era costituito da pietrame misto a calce di pozzolana dello spessore fino a due metri.

Da essa diramava una fitta rete viaria realizzata mediante scasso del terreno e massicciata, viae glarea stratae, che assicurava il collegamento con i più importanti centri abitati.

Una ulteriore ramificazione di strade secondarie, viae terrenae, realizzata al fine di congiungere fra loro località o insediamenti urbani di scarso interesse, era a fondo naturale o in terra battuta.

In conseguenza dell’espansione romana, ben presto nuove strade attraversarono l’Irpinia, sostituendosi ai precari sentieri vallivi. Della stessa importanza dell’Appia fu la via Traiana, costruita nel 109 d.C., di cui testimoniano il tracciato le numerose colonne miliari recanti il nome del-l’imperatore Traiano. Questa, da Benevento, passando per Equus Tuticus nei pressi di Ariano, giungeva fino a Troia, pur avendo una diramazione per Eclano e quindi verso l’Ofanto.

Orazio narra di un suo viaggio a Brindisi ed indica il proprio passaggio per Trevico. Una via collegava Eclano ad Ariano. un’altra, lastricata dagli Antonini, portava ad Ordona. Un’altra ancora, detta Erculea, partiva da Eclano e, passando nei pressi di Ariano, ripiegava verso l’Ofanto per raggiungere Melfi.

Fu fittissima la rete stradale, ma soggetta a continue modifiche dei tracciati in conseguenza di fenomeni naturali quali frane e alluvioni, di sconvolgimenti politici quali guerre, o più semplicemente per decadimento di centri urbani o mutamenti di interesse, così che non poca confusione si è venuta a creare fra gli studiosi quando hanno provato ad adattare i rari documenti disponibili ad un rigido schema viario.

Come rivela uno studio del Mommsen, la stessa via Appia, nel 123 d.C., fu rifatta, e per alcuni tratti ridisegnata, da Adriano, col contributo in danaro dei possessori dei fondi da essa attraversati.

Dall’Itinerario di Antonino1 e dalle Tavole Peutingeriane2 si rileva che lungo la via Appia, tra Eclano ed Aquilonia, vi era una terra chiamata Sub-Romola, che risultava essere ad una distanza di undici miglia (pari a km. 16,500) da Aquilonia e di sedici (pari a km. 23,500) da Eclano.

Gli storici concordano tutti sul derivare di tale denominazione dall’antica Romulea, che si è voluta identificare con l’odierna Bisaccia. Ma tale orientamento è contraddetto dalle distanze indicate sulle Tavole Peutingeriane, così che molti studiosi si sono cimentati nel tentativo di fornire una incontrovertibile identificazione dell’antica capitale.

A tale proposito il Desjardins3

la indica ...non a Bisaccia, dove la maggior parte dei geografi segnano Romola, ma a qualche distanza all’ovest di questa città moderna. Tra Bisaccia e Lacedonia, dov’è Aquilonia, non vi sono in effetti miglia undici, come dimostra la Tavola, ma quattro solamente.

Il Reicard vuole Romulea fra Trevico ed Accadia, il Mannert a Morra, il Lapie a Sant’Angelo dei Lombardi mentre il Mommsen la individua nei pressi di Trevico.

L’individuazione dell’ubicazione dell’antica Romulea non si pone come questione puramente pedantesca, al contrario riveste notevole importanza se si considera che consente di stabilire il reale tracciato della via Appia attraverso la terra d’Irpinia.

La relazione della Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino e Benevento, diffusa in occasione della mostra dei reperti rinvenuti a Carife e a Castelbaronia, allestita a Carife dal 15 al 24 maggio 1982, fra altro, così recita: Gli altri oggetti rientrano nel periodo tra il 500 a.C. e una data che si può fissare intorno al 297 a.C., quando furono distrutti dai Romani, nel corso della terza guerra sannitica, gli insediamenti sannitici della zona che facevano forse parte dell’antico centro di Romulea.

Sulla base dei convincimenti del Mommsen, confortati dalla ipotesi suggerita nella citata relazione, Michele De Luca rileva: L’identificazione di Carife con Romulea dà ragione ad una tesi da me sostenuta già nel 1978, e cioè che l’Appia antica seguiva per buona parte il corso dell’Ufita, per arrampicarsi poi su uno dei costoni della Baronia e valicare la montagna nei pressi di Vallata4.

Il voler collocare l’Appia lungo la valle dell’Ufita appare una evidente forzatura che contrasta con le più autorevoli convinzioni. Essendo punti obbligati della via Appia, Eclano ed il versante sud-ovest del monte di Frigento, per l’unanime consenso di quanti hanno scritto intorno alla medesima, questa doveva tenere tutt’altro andamento di quello voluto dal Mommsen. La via Appia, destreggiando il monte di Frigento, si andava a mezza costa delle colline, che ne fanno il seguito fino a Guardia Lombardi, donde ad Aquilonia. Ciò è più conforme a ragione e a quel buon senso pratico che tanto distinse i Romani1.

E l’ipotesi avanzata dal De Luca contraddice appunto il senso pratico dei Romani. E’ noto che le strade romane ricalcassero gli antichi tratturi, le vie note in quanto già percorse dagli eserciti nelle loro incursioni in territori nemici, quindi il tratto da Eclano ad Aquilonia non poteva non coincidere con l’antico tracciato a sud-ovest di Frigento, percorso dai pellegrinaggi diretti nella valle dell’Ansanto per adorarvi la dea Mefite, di cui numerose si sono rinvenute le offerte votive databili fra il VI ed il IV secolo a.C.

Le strade romane, inoltre, erano concepite non tanto in funzione commerciale, con la conseguente necessità di toccare il maggior numero di centri abitati, quanto per fini prettamente militari. Si snodavano quindi sui percorsi più brevi, privilegiando i tratti elevati che consentivano il controllo del territorio circostante, superando pendenze anche del venti per cento, evitando i percorsi vallivi in quanto soggetti ad alluvioni e smottamenti e più facilmente esposti al pericolo di imboscate.

E’ dunque impensabile che, per raggiungere da Eclano le colonie di Conza e di Aquilonia, la cui importanza è fra l’altro testimoniata dal ritrovamento di monete ivi coniate, i Romani avessero scelto il tracciato più lungo e disagevole, quale quello ipotizzato lungo la valle dell’Ufita. Ed anche volendo supporre che Romulea avesse avuto ubicazione in posizione decentrata rispetto al tratto più ovvio costituito dalla direttrice Eclano-Aquilonia, non avrebbe trovato giustificazione la deviazione di una strada, realizzata nell’anno 190 a.C., alla volta di una città distrutta nel lontano 297 e mai più riedificata.

Che l’Appia sfiorasse la valle dell’Ansanto è avvalorato dal fatto che la zona mefitica fu visitata da Virgilio, Seneca, Plinio, Strabone, Claudiano e tanti, tantissimi altri. Ciò fu reso possibile da un percorso garantito contro gli attacchi delle bande di Sanniti che numerose infestavano il territorio; ma quale altra via, oltre l’Appia, con le sue stazioni di sosta e l’ininterrotta vigilanza esercitata dalle guarnigioni militari, poteva offrire tali garanzie di sicurezza?

Appare dunque evidente che Romulea non possa aver trovato collocazione se non in località compresa tra Frigento ed Aquilonia, probabilmente coincidente con l’odierna Guardia dei Lombardi, e che Sub-Romola fosse l’insediamento venutosi a costituire più a valle, a margine dell’Appia, non è da escludere dove oggi sorge il borgo denominato Taverne di Guardia.

Da queste considerazioni, oltre che dalla dovizia di reperti archeologici, appare irrefutabile che l’Appia seguisse il crinale del versante che affaccia sulla valle del Fredane e non qualsiasi altro ipotizzato.

Nonostante l’antica Aeclanum sannitica, ribattezzata Quintodecimus dai Romani vincitori in quanto distava da Benevento quindici miglia, rappresentasse lo snodo stradale più importante del tempo, un’arteria di primario interesse la escludeva dal proprio percorso. Era questa la via Napoletana, nome col quale è rimasta nota fino al secolo scorso, che il Pratillo ed il Santoli dissero Domizia in quanto la considerarono il naturale prolungamento della Domiziana che da Roma porta a Napoli. Tale strada, provenendo appunto dall’attuale capoluogo campano e passando per l’odierna Atripalda, si incuneava nel tratto vallivo alla volta del fiume Calore per costeggiarlo a destra, talvolta a mezza costa, talaltra lungo il crinale collinare. Superava Luogosano per proseguire, parallela al tratto inferiore del Fredane, in territorio di Fontanarosa attraverso le località Torano, Nocepedecina, Millo Gallo, Fontana de Maij. Entrava quindi in agro gesualdino tagliando Acquasalza, conosciuta oggi come Marmorosanto, e, passando per Petturiello, volgeva alfine verso la valle dell’Ansanto2, oltre la quale si immetteva sul-l’Appia a solo qualche miglio da Taverne di Guardia.

Dalla via Napoletana, in territorio di Taurasi, una strada ripiegava verso il fiume Calore per accedere alla terra di San Mango sul Calore attraverso un ponte che la tradizione popolare erroneamente attribuisce ad Annibale. Questa costruzione molto probabilmente è del I secolo a.C., ha la struttura a dorso d’asino e si presenta con tre arcate; la muratura si presenta intervallata da mattoni, con misto di malta e ciottoli, prelevati dal fiume1. Dal fiume la via si inerpicava per un breve tratto lungo il colle ove trovasi la chiesa di Sant’Anna.

S. Anna è una chiesetta rurale, frequentata da pastori nella doppia veste di fedeli e di viandanti in cerca di un luogo di sosta. Le tracce di fuochi accesi sugli angoli della chiesa, le panche appoggiate alle mura perimetrali ed infine l’isolamento, in un paesaggio rurale, in cui la chiesetta si trova, fa pensare a ragione ad un punto di ricovero o di semplice sosta, per chi attraversa le campagne della valle del Calore2.

In origine il luogo doveva essere dedicato al culto di una divinità pagana che il Reppucci ritiene di identificare nel dio Maur. Dietro l’attuale altare di S. Anna, egli scrive, vi è un masso a forma di parallelepipedo: un’antica ara; la parte superiore è incavata. Ed ancora: Inizialmente davanti ad un crepaccio è eretta un’ara; a mano a mano è innalzato un tempio3.

La strada si inerpicava quindi verso Castello della Pietra che molti, erroneamente, ritengono fosse l’originario insediamento delle genti di San Mango sul Calore. La stradetta mulattiera (ormai abbandonata), che davanti agli avanzi dell’antico castello è alquanto larga, lascia ancora vedere il suo tracciato interamente scoperto, specie dove il suolo è di natura tufacea4.

Comunque la tradizione vuole che la chiesa, oltre che per mezzo della strada, fosse collegata a Castello della Pietra tramite antichi percorsi sotterranei. A tale proposito così si esprime il Reppucci: La parte di fondo è interamente modellata nella compattezza tufacea. In questa parte si apre un cunicolo, che, a dire degli anziani, conduce al Castello della Pietra; non è stato mai esplorato, però5. Gli fa eco il Villani: Nella zona absidale è rilevabile una nicchia nel vivo del tufo forse collegata ad altri edifici anche più distanti mediante una serie di condotti sotterranei; essi secondo la tradizione conducono al Castello della Pietra6.

Di questo antico insediamento così scrive il Nazzaro: In territorio di San Mango ... esistono i ruderi di un antichissimo castello o fortezza detto della Pietra per il fatto che non lontano si ergono due colonne di pietra calcarea, foggiate dalla natura, a forma di obelisco. Pochi anni orsono nei pressi fu aperta una cava di pietre in cui fu rinvenuto un buon gruzzolo di monete di argento di epoca romana, forse sesterzi, così corse voce. A sud del Castello della Pietra, la falda nord del monte Vena dei Muli, sulla quale il castello è ubicato e di cui sono ancora visibili i ruderi, è piuttosto pianeggiante e forse per questo la località è denominata Piani7.

Altrove il Nazzaro, nell’analizzare gli antichi tracciati viari che interessarono il territorio di Chiusano San Domenico, cita: Altra via ... passava per il Castello della Pietra, o Accardi di Chiusano, ed era diretta alla cosiddetta Taverna di Santa Lucia in territorio di Castelvetere sul Calore8.

Da quanto considerato, risulta evidente che la strada proveniente dall’agro taurasino, oltrepassato il Calore per mezzo del ponte detto di Annibale, si biforcava in territorio di San Mango sul Calore, là dove insistono i ruderi di Castello della Pietra, in direzione ovest verso Chiusano San Domenico e Parolise, ed in direzione sud verso Castelvetere sul Calore e Montemarano, sì che l’intera regione a ridosso della riva sinistra del Calore risultasse tutta collegata con la via Napoletana, e di conseguenza con l’Appia.

Eppure, Sul Calore, presso Luogosano, v’è un ponte Romano ben osservato e di stupenda costruzione. Si è di un arco solo e di fabbrica laterizia, lungo, compresi i pilastri, metri 52, e largo circa metri 8 ...vi passava una via che scendeva da Napoli, per Nola, Forino ed Atripalda, e si veniva ad innestare sull’Appia1.

Questo ponte, conosciuto col nome di Ponte del Diavolo, fu minato e fatto saltare dai Tedeschi durante l’ultimo conflitto mondiale. Oggi appare ricostruito e funzionale, a collegare la stazione ferroviaria di Luogosano con la strada che conduce al nucleo industriale di San Mango sul Calore. Erra Jannacchini nell’indicarlo in funzione della via Napoletana che, attraverso i territori di Fontanarosa e di Gesualdo, risaliva invece il fiume Fredane costeggiandolo a destra.

Quali furono dunque le ragioni che indussero i Romani a costruire questo ponte? Non certo la necessità di accedere agli insediamenti submontani della valle del Calore, già serviti, come dimostrato, dalla strada transitante per il ponte detto di Annibale. Questa seconda diramazione dunque, oltrepassato il Ponte del Diavolo, risaliva, volgendo ad est, il colle in lieve pendio (l’antico tracciato è oggi bitumato ed offerto al traffico automobilistico), per aggirare a monte lo scoscendimento delle cosiddette Coste del Ponte e quindi ridiscendere sulla riva sinistra del Calore, dove l’odierna strada provinciale attraversa il fiume. Data l’asperità del terreno è impensabile che proseguisse costeggiando la riva.

Già il Nazzaro ipotizza un guado a valle di Poppano: Al contrario il ponte (del Diavolo) serviva per far passare comodamente le legioni Romane di qua dal fiume Calore per poi riattraversarlo nei pressi della stazione ferroviaria di Paternopoli dove il letto allarga, l’acqua decresce e, quindi, di guado agevole, e dove l’acqua limpida e il terreno scoperto e pianeggiante potevano permettere una salutare sosta2.

Riattraversare il fiume nei pressi della stazione ferroviaria di Paternopoli significava portarsi nel territorio di questo comune.

Discutibile rimane l’ipotesi del guado. Il Calore è un fiume impetuoso, lo è sempre stato e spesso le sue piene ne hanno devastato il letto, quindi difficilmente si presta ad essere guadato. E ancor più difficile doveva esserlo prima che fosse impoverito delle sue acque per alimentare la centrale idroelettrica di San Mango sul Calore e per sopperire alle carenze idriche della Puglia. E se al Ponte del Diavolo era stata conferita un’ampiezza di otto metri per consentire il passaggio, anche contemporaneo, di due grossi carri trainati da buoi, appare poco credibile che i Romani affidassero, solo un chilometro più a monte, la certezza del transito al capriccio di un fiume più volte rivelatosi infido.

Dunque, non un guado, ma un ponte doveva assicurare il passaggio alla riva destra del fiume, in territorio di Paternopoli, e questo, di ampiezza non inferiore all’altro, fu realizzato ove oggi trovasi il ponte detto di Calore che ha sostituito quello romano fra il 1873 ed il 1876, nel corso della costruzione della strada di collegamento con Chiusano San Domenico. Da qui la strada, fiancheggiando per un breve tratto il fiume, ripiegava a sinistra ad imboccare il varco naturale costituito dal vallone Le Nocellete. Era stata questa la via seguita in età preistorica dalle genti che, risalendo il corso del fiume, erano ascese ad esplorare i boschi collinari alla ricerca di cibo; era stata questa la via di cui le tribù indoeuropee, denominate poi osche, si erano servite per raggiungere la sorgente della Pescarella ove stabilire un loro primo insediamento.

Risalito il vallone fino a Salici, la strada si allacciava alla preesistente mulattiera di epoca sannitica che, proveniente da Tuoro dei Martini in territorio di Castelvetere sul Calore, passava per Sant’Andrea, dove numerose si sono rinvenute tombe contenenti lucerne ed oggetti fittili di modesta fattura; proseguiva per Cupitiello e Trinità, contrada quest’ultima in cui, oltre a sepolture contenenti ciotole e lucerne, alcuni anni orsono venne alla luce una tomba coi resti di un guerriero seppellito insieme alla sua spada di ferro dalla forma tozza e ad uno scudo di pelle; toccava quindi San Quirico, i cui terreni sono disseminati di frammenti di mattoni a testimoniare una secolare presenza umana protrattasi fino in età moderna; attraversava Pesco Cupo, dove recenti lavori di sbancamento hanno riportato alla luce resti umani di antiche sepolture e pietre scolpite; si allontanava alfine alla volta di Baiano di Castelfranci e Torella dei Lombardi.

I Romani ampliarono e consolidarono, rendendoli carreggiabili, altri due sentieri di epoca preistorica che divergevano dall’area di San Pietro-Casale: il primo per assicurarsi l’accesso ai fertili terreni di contrada Piano, al cui fine fu indispensabile costruire un ponte, tuttora ben conservato, per il superamento del vallone nei pressi della Pescarella, ove il terreno è cosparso di frammenti fittili e le sepolture affiorano sotto le zolle appena rimosse dall’aratro; il secondo verso Fornaci da dove, incuneandosi fra Sferracavallo, Cesinelle e Li Rocchi, raggiungeva il Fredane in contrada Scorzagalline per ricongiungersi alla via Napoletana.

Comunque, a guisa di ragnatela, l’intero territorio era percorso da una fitta rete di sentieri che consentivano di accedere ad ogni contrada, ad ogni podere, ad ogni cascinale.

Orbene, quali furono le ragioni che indussero i Romani a realizzare una siffatta diramazione della via Napoletana che, su di una distanza inferiore alle tre miglia, comportò la costruzione di ben due ponti nonché il superamento di complessi ostacoli posti da un territorio particolarmente impervio? I fattori furono anzitutto di ordine strategico-militare, sia per l’importanza che la conformazione collinare dell’agro paternese rivestiva per il controllo dei passaggi vallivi del Fredane e del Calore, sia per la necessità di stabilire una presenza vigile e ammonitrice in un’area densamente popolata e tradizionalmente ostile.

Comunque, oltre questi, pur determinanti dovettero esserne altri di natura economica, costituiti non tanto dalla fertilità del suolo, o dal-l’abbondanza di acque sorgive, o dalla dovizia di boschi e di pascoli, quanto dalla presenza di importanti depositi di due materie prime, indispensabili per la realizzazione di opere viarie, di cui l’agro paternese è ricco: l’argilla e la pozzolana.

L’argilla è presente in un vasto giacimento a sud-est del paese, in località Fornaci, così detta per la presenza di rudimentali impianti, sopravvissuti fino ai nostri giorni, per la lavorazione artigianale della creta e la cottura dei manufatti. La millenaria estrazione del materiale da cave a cielo aperto ha segnato profondamente il fianco della vallata. Già prima dell’avvento dei Romani vi si lavoravano vasellame e spessi e rozzi mattoni per l’impiego in edilizia.

I Romani dettero nuovo impulso alla produzione. Ferveva intorno alle cave un’attività febbrile che vedeva coinvolta manodopera in parte schiavizzata, in parte costituita da artigiani locali. L’argilla veniva resa duttile, inumidendola con acqua piovana raccolta in pozze artificiali, e quindi modellata a mano su stampi di legno. Grossi carri trainati da buoi giungevano a scaricare la legna che serviva ad alimentare il fuoco dei forni; altri venivano caricati dei laterizi, ancora caldi di cottura, per essere immediatamente avviati verso i luoghi di messa in opera. A ritmo frenetico si producevano mattoni, da impiegare nella costruzione di ponti e di edifici, e grosse e pesanti tegole, largamente utilizzate anche nelle coperture tombali. La produzione di vasellame subì un brusco arresto.

I depositi di pozzolana sono variamente distribuiti sull’intero territorio. I Romani iniziarono lo sfruttamento di quelli più consistenti, sia a valle, presso il fiume Calore, che sul versante opposto, in contrada Cesinelle, ma soprattutto in località Corneta, a cui accedevano attraverso Piano, in quella zona che prende il nome di Rottecelle per la presenza delle numerose grotte che altro non sono che antiche cave.

Il materiale scavato era raccolto in ceste di vimini e portato fuori dalle gallerie a spalla per essere avviato, a dorso d’asino o di mulo, agli impianti di trasformazione. Il faticoso lavoro era svolto da vinti ridotti in cattività, su cui vigilavano guardie armate.

In forni probabilmente ubicati presso il Fredane, in località Scorzagalline un tempo detta le Calcare1, in prossimità della via Napoletana, la pozzolana veniva convertita in calce da utilizzare in muratura e per cementare le massicciate a supporto della pavimentazione stradale.

Ragioni politiche ed economiche segnarono dunque l’inizio della lunga presenza romana, destinata a consolidarsi con l’assegnazione di terreni a veterani di guerra, sul suolo dell’antica Paternopoli che, pur stravolta nella sua identità sociale e culturale, continuò a chiamarsi Bovianum.


1 Registro delle stazioni e delle distanze lungo le vie dell’Impero, compilato presumibilmente nel IV secolo, fu riveduto al tempo di Teodosio II, nella prima metà del V secolo.

2 Antica carta itineraria conservata nella Biblioteca Nazionale di Vienna. E’ una copia, presumibilmente del XII secolo, su rotolo di pergamena lungo metri 6,80, dell’itinerario figurato a colori dell’Impero Romano. Divisa in 11 segmenti, presenta un disegno deformato in cui appare evidente la sola preoccupazione di mettere in rilievo le strade, le località da esse toccate e le distanze fra queste intercorrenti. Scoperta nel 1507, ne fu affidata la pubblicazione a Konrad Peutinger, da cui prende il nome.

3 Ernest Emile Desjardins, archeologo e storico francese (1823-1886), in La Table de Peutinger - Parigi 1874.

4 Michele De Luca: Insediamenti ed itinerari nella Baronia pre-romana e romana, in Vicum - Settembre 1986.

1 Angelo Michele Jannacchini: Topografia Storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1882.

1 Ubaldo Reppucci: San Mango sul Calore - Roma 1981.

2 Giovanni Villani: in Restauro in Irpinia - Roma 1989.

3 Ubaldo Reppucci: San Mango sul Calore - Roma 1981.

4 A. M. Nazzaro: Chiusano nella storia - Avellino 1986.

5 Ubaldo Reppucci: San Mango sul Calore - Roma 1981.

6 Giovanni Villani: in Restauro in Irpinia - Roma 1989.

7 A. M. Nazzaro: Chiusano nella storia - Avellino 1986.

8 A. M. Nazzaro: ibidem.

1 Angelo Michele Jannacchini: Topografia Storica dell’Irpinia, Vol. I - Napoli 1889.

2 A. M. Nazzaro: Chiusano nella storia - Avellino 1986.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1882.

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